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Sieg Heil, Kamerad Heidegger!
Heidelberg, maggio del 1933: il capo dell'associazione studentesca nazista da il benvenuto al "camerata Heidegger" nell'aula magna dell'università. Saluta col braccio levato. Heidegger, nel suo completo da contadino della domenica, risponde goffamente levando anch'egli il braccio. Poi prende la parola. Tra i presenti c'è il filosofo Karl Jaspers, il quale ricorderà: «Nella forma si trattava di un discorso magistrale ma nel contenuto costituiva un vero e proprio programma nazista di rinnovamento universitario. Heidegger chiedeva un cambiamento totale dello spirito. Disse che i professori ancora in carica erano, nella maggioranza, incapaci di affrontare il nuovo compito. Fra dieci anni però sarebbe stata pronta una nuova generazione di docenti capaci. Allora avremmo lasciato i nostri incarichi. Fino a quel momento il periodo sarebbe stato di transizione.»
E' possibile che Heidegger intendesse l'inadeguatezza dei professori tedeschi come un rozzo disfattismo dello spirito? Probabilmente non solo, ma è certo che così fu inteso dalla maggioranza degli studenti e dalla esigua minoranza degli insegnanti presenti. Però è certo che in questa nostra indagine l'episodio ha la sua rilevanza perché non si possono fare discorsi contro il "disfattismo" senza ricorrere all'argomento che esso sia la negazione dello spirito umano ed in ultima istanza di un'essenza umana, da vedersi comunque come radicata nella terra e nella patria.
C'è già in queste considerazioni il preludio all'intima contraddizione del pensiero heideggeriano. Nell'esistenzialismo radicale, insegna Emanuele Severino, è proprio l'essenza umana che viene negata. Ogni esistenza è un problema a sé stante.
Quando Jaspers obiettò privatamente a Heidegger che non si poteva lasciare un uomo come Hitler, così privo di cultura, alla guida della Germania, Heidegger diede, a sentire Jaspers, una risposta sconcertante ed enigmatica: "La cultura non c'entra, guardi invece le sue meravigliose mani!"
Era troppo per Jaspers, il quale finì per allontanarsi dall'uomo e dall'amico Heidegger, pur continuando a rispettarlo come filosofo.

Questa questione del filosofo che sarebbe diverso dall'uomo, di un pensiero che mantiene la sua validità indipendentemente dalla tempra morale di chi lo esprime, è una tesi che gode oggi molto credito tra gli studiosi di filosofia, ma la verità è che nello sterminato elenco dei filosofi i nomi con una biografia discutibile sotto il profilo umano non sono poi molti. Bacone fu un mezzo furfante, ladro di stato alla corte d'Inghilterra; Rousseau fu sempre un mantenuto, con un senso della propria dignità piuttosto relativo; Max Scheler fu un rubacuori dotato di bella presenza ed un fascino irresistibile. Il che gli procurò un mare di guai. Altri, se si esclude ancora Peirce, discutibile per l'odio che era capace di nutrire per i suoi avversari intellettuali e personali, non ce ne sono venuti in mente. A fronte dei filosofi compromessi con i regimi totalitari del Novecento, quelle citate sono piccolezze: persino la disonestà di Bacone diventa una questione risibile.
Molti filosofi potrebbero inoltre essere accusati di presunzione ed arroganza intellettuale, ma questo non è un reato da codice penale e nemmeno un vero codice morale potrebbe dire molto in proposito. Possono persino non piacere i cosiddetti fallibilisti perché sbandierano la falsa modestia dell'I may be wrong, but I'm sure...ma che colpa potremmo addossar loro?
Ciò che colpisce nella storia della filosofia è piuttosto l'elenco dei perseguitati dai tiranni, di coloro che dovettero fuggire per non finire impiccati o messi a tacere nelle patrie galere. Ed anche l'elenco di chi fu processato, perseguitato ed ucciso per le proprie idee, o per aver reso testimonianza alla propria verità è abbastanza lungo e penoso. Per tutti si potrebbero citare Socrate e Galileo, Giordano Bruno e Michele Serveto. Pertanto, l'idea che tra uomo e lo stesso uomo filosofo sia possibile ed ammissibile uno scarto, e quindi sia legittima una doppia valutazione, finisce col cozzare contro il fatto che il pensiero è quasi sempre stato sostenuto con la coerenza tra vita e pensiero. Anche Platone ed Aristotele pagarono il fio.
Se poi si guarda al massimi esponente del pensiero negativo, a Nietzsche, al quale, in molti sensi, sarebbe stato possibile, per coerenza, vivere in modi trasgressivi, si scopre, tutto sommato, una biografia piatta e priva di sussulti vitalistici davvero esplosivi. A chi cerca eroi dai comportamenti estremi, la filosofia riserva solo delusioni. Il filosofo è un animale da scrivania che passa la maggior parte del suo tempo a riflettere sulla vita degli altri.

Il paradosso della vicenda Heidegger è doppiamente curioso, perché proprio lui rivendicò in prima istanza, contro l'insegnamento di Husserl che privilegiava la theoria, e contro i sistemi neokantiani ancora più slegati dalla vita quotidiana, l'inscindibilità di poiesis e praxis dalla theoria. Non solo, la cosa più sconcertante è che il pensiero di Heidegger, proprio quando questi viene coinvolto nel nazismo e nella sua politica culturale, è già delineato come una filosofia del lasciar essere le cose come sono, lasciar fiorire gli enti sullo sfondo dell'essere. E' l'esatto contrario della politica aggressiva e violenta del nazismo, che rappresenterebbe l'estrema degenerazione della metafisica occidentale, secondo quanto postulato dallo stesso Heidegger. Di questo se ne accorsero anche alcuni nazisti, tra i quali la "spia" Erich Jaensch, informatore culturale di Rosenberg e della Gestapo. Ne parleremo in fondo.
Per capire la vicenda di Heidegger, ci i si potrebbe appellare al fatto che il fondo della filosofia heideggeriana è reazionario ed in quanto tale dominato da un radicale pessimismo antropologico, ma a questa visione Heidegger non ha mai fatto seguire inviti alla sopraffazione delle masse ed alla soppressione della democrazia. I nemici costanti della filosofia di Heidegger erano la metafisica antica, il modernismo soggettivista, l'illuminismo, la scienza e la tecnica che hanno obliato il senso dell'essere. Il nazismo, per ragioni ideologiche, se la prese con la scienza "ebraica" di Einstein, ma sviluppò al massimo la scienza e la tecnica "ariana" dei propri scienziati e ricercatori, con le mostruosità che poi vennero alla luce. Il bucolico conservatorismo di Heidegger non avrebbe avuto dunque nulla da spartire con la dottrina ariana. Eppure egli accettò di fare il rettore a Friburgo in quelle tristi condizioni, e credette persino di poter cavalcare la tigre, almeno fino ad un certo punto.
E' noto che egli accettò anche per l'insistenza dei colleghi, che in lui vedevano l'unico professore non inviso al partito ed allo stesso tempo dotato di autonomia e prestigio in grado di salvare la capra, se non anche i cavoli. Se ciò non fu è perché il nazionalsocialismo si rivelò ben presto molto peggio del previsto, ed Heidegger non si distinse né per cieca fedeltà e nemmeno per zelo. Come rettore ebbe il coraggio di proibire la propaganda antisemita nell'Università e questo non è poco. I suoi maestri (Husserl, in primo luogo) furono in parte ebrei, e tra i suoi allievi più promettenti e consistenti il numero di ebrei era rilevantissimo, da Hannah Arendt a Herbert Marcuse. Tuttavia non può sfuggire che il vero motivo per cui Heidegger non era inviso ai capi del partito non era legato alla sua filosofia "ufficiale", ma all'interpretazione della sua filosofia che egli lasciava colpevolmente circolare, una filosofia che, opponendosi in modo frontale alla tradizione razionalista dell'Occidente, prestava il fianco all'irrazionalismo vero e proprio. Heidegger era in rapporto con i capi dell'ideologia nazionalsocialista ben prima che il partito prendesse il potere. Heidegger fu a lungo convinto che Hitler avrebbe svolto un ruolo positivo e "destinale" per la Germania, elevandosi da capo di un partito a Führer della nazione. Secondo molte testimonianze, egli fu anche segretamente e intimamente antisemita, mentre sua moglie Elfrida lo fu anche apertamente.
In più di una circostanza egl favorì la carriera di professori vicini al regime e lavorò contro i democratici. Vide cadere in disgrazia Husserl, Krebs, la crema dell'intellettualità e della scienza tedesca senza battere ciglio, anzi tagliando con loro ogni rapporto.
Non fu mai veramente capace di una genuina "ritrattazione". Indubbiamente consapevole del gigantesco errore commesso, specialmente quando fu noto quello che molti sospettavano, ma nessuno osava dire, cioè che esistevano "forni crematori", si rifugiò in una singolarissima forma di difesa per la quale: «Chi pensa in modo elevato deve sbagliare in modo abissale.» Non precisò se lo sbaglio era stato di ordine teoretico o pratico. La tendenza attuale è quella di considerarlo un errore politico ed è noto che Heidegger, proprio per il tipo di riflessione che si era scelto, non capiva granché di politica e di affari, come vivesse davvero in un altro mondo, come non fosse altro che l'eremita di Todtnauberg, fieramente isolato a contemplare l'essere e destinato a diventare guida spirituale lanciando lampi dalla montagna e "ungendo" capi alla maniera del profeta Samuele..
Tuttavia, anche questa interpretazione pare vacillare di fronte alla consistenza dei discorsi "politici" di Heidegger in quanto rettore. Egli coltivò davvero l'ambizioso progetto di rifondare l'Università e la cultura tedesca sulle basi della sua filosofia. Egli pensò davvero di pensionare i professori protestanti, ebrei, positivisti vecchi e nuovi, per sostituirli con "heideggeriani", iniziando così un nuovo corso. Non c'è altra spiegazione. L'idea centrale che ispira la prolusione pronunciata a Friburgo è che si deve ricominciare. L'inizio non è alle nostre spalle, ma là, davanti a noi. Heidegger prova a far passare una nuova idea di filosofia prima senza nominare l'ebreo Husserl, ma solo citando sé stesso. Egli vuole riaffermarla come nuovo fondamento.
Epistemologicamente parlando, diceva Heidegger, non abbiamo più alcun principio. Dobbiamo rintracciarlo e il primo punto è l'autoaffermazione delle facoltà e dei politecnici. Occorre che questi istituti custodi del sapere "riprendano sulle loro spalle le questioni essenziali e semplici della scienza da cui traggono origine." Ciò impone che il programma teorico non sia disgiunto dal programma politico. Professori e studenti devono essere al servizio del popolo e della nazione. Tra i compiti fondamentali - dice Heidegger - noi individuiamo "il servizio del sapere, il servizio delle armi e il servizio del lavoro". Tali compiti sono strettamente connessi e solo se raccolti in un'unica forza, il Reich ed il popolo tedesco, essi verranno assolti pienamente. Così concludeva Heidegger: "Noi vogliamo noi stessi. Così ha già deciso la giovane e giovanissima forza del popolo che si muove e che si è posta in cammino al di sopra di ognuno di noi."

Si può equivocare?

Il fallimento delle ambizioni di Heidegger si consumò in un brevissimo lasso di tempo. Il 23 aprile del 1934 egli rassegnava la dimissioni da rettore.
Martin Ott suggerisce che «invece di riconoscerlo [l'errore, ndc] Heidegger si cercò dei capri espiatori a cui poter addossare il fallimento e prendersela con chi non aveva capito l'"inesorabilità di quel compito spirituale che il destino del popolo tedesco lo obbliga a imprimere nella storia".» (1)
Il rettorato di Heidegger, prosegue Ott, non solo rispetto all'ambiente di Friburgo, ma nei confronti di tutta l'università tedesca. Dovevano sorgere una nuova scienza filosofica, nuovi insegnanti "pastori dell'essere" e "sentinelle del nulla", e non avvenne nulla di tutto ciò. «Così Heidegger fu abbandonato a se stesso, tagliato fuori dalla creazione dello Stato dei tedeschi, messo al margine del grande fiume della storia. Egli trovò le risposte in Friedrich Hölderlin, e da allora il suo pensiero fu del tutto affine al poetare. I pensatori che ascoltano la parola del poeta, anche quando essa sia "ancora inascoltata, custodita nella lingua occidentale dei tedeschi", sanno che la storia è "rara": il kairos, l'evento storico in senso proprio, è raro perché "storia è solo quando l'essenza della verità è colta nel modo originario". L'evento si era verificato nel 1933, ma i tedeschi non lo avevano riconosciuto e non ne avevano capito l'interprete.» (2)

Tali osservazioni potrebbero essere discusse all'infinito. Noi le abbiamo trovate "utili" al fine di mettere a fuoco un percorso che infondo ci pare realisticamente rispondente al carattere di Heidegger, alle sue ambizioni filosofiche, al suo sogno di rigenerare un nuovo aurorale rapporto tra l'uomo e l'essere.
Quando si parla dell'adesione di Heidegger al nazismo, tuttavia, in genere si omette o si trascura la seconda parte della storia. Ott ha rispolverato documenti importanti, dai quali traspare non solo che in un primo tempo Heidegger fu ben considerato da "alcuni" capi nazisti ma, che in un secondo tempo egli fu messo sotto stretta osservazione.
Una "nota informativa" di Erich Jaensch e destinata al potente gerarca Alfred Rosenberg diventa essenziale alla comprensione. Secondo Jaensch, Heidegger, durante il periodo di Marburgo, sarebbe stato il capo di una cricca giudaica. A conferma, egli aveva abilitato all'insegnamento Karl Löwith, mezzo ebreo. Uomo di smisurate ambizioni, secondo Jaensch, Heidegger sarebbe in ciò stato supportato ed istigato dalla moglie per "il desiderio di mettersi in luce". «Il pensiero di Heidegger - proseguiva la nota - ha esattamente il carattere del pensiero talmudico-sofistico. Esso attrae ebrei, discendenti di ebrei e individui simili a loro nella struttura psicologica, che è sempre stata la loro grande forza di attrazione. Se Heidegger potrà esercitare un'influenza determinante sulla formazione e sulla selezione della nuova generazione ciò significherà, senza dubbio, che la selezione nelle università e nella vita spirituale sarà a favore della stirpe giudaica che ancora è rimasta fra noi.» (3)
Secondo la "spia" Jaensch, dunque, se Heidegger avesse continuato a insegnare ed operare nell'università, data la sua innata abilità psicologica, avrebbe provocato "una patologia spirituale" se non una vera e propria "psicosi di massa".
Ciò evidenziato, un'altra domanda si pone infine con grande evidenza: una volta levata la maschera al falso Heidegger, perché il regime non lo pensionò anticipatamente? Perché non lo mise a tacere? Per ora, in attesa che valenti storici scoperchino tutti gli archivi, non resta che credere che i capi nazisti preferirono non toccare Heidegger perché troppo famoso all'estero.
note:
(1) citazione tratta da Hugo Ott - Martin Heidegger: sentieri biografici - Sugarco 1990
(2) idem
(3) idem
moses - 7 ottobre 2005