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La filosofia prima della filosofia
di Daniele Lo Giudice

E' esistitita una filosofia prima della filosofia?
Per rispondere, dovremmo sapere non tanto definire cosa sia la filosofia oggi, impresa che lascio volentieri a qualcun altro, ma cosa fu, in origine.
E questo mi risulta più facile.

Cosa significa" filosofia"?
Pare che la parola filosofia sia stata inventata da Pitagora, uno dei primi filosofi, ma non il primo, giacchè la tradizione storiografica indica in Talete di Mileto, Anassimandro ed Anassimene i primi pensatori caratterizzati da un atteggiamento filosofico.
Pitagora fu una figura semimitica, che non lasciò nulla di scritto, o meglio, non lasciò alcuna pubblicazione, perchè, non credo sia possibile insegnare aritmetica, geometria, la prima teoria delle armonie musicali, come egli fece, senza scrivere almeno numeri ed operazioni, e disegnare simboli e figure.
E' molto probabile che egli abbia composto testi esoterici, cioè destinati esclusivamente agli allievi della sua scuola, ed è anche probabile, purtroppo, che essi siano andati persi durante le sfortunate vicende della setta pitagorica, che ovunque cercasse di stabilirsi, incontrava invariabilmente l'ostilità dei cittadini, soprattuto quelli del partito anti-aristocratico. Eppure egli fu, in un certo senso, il primo teorico di una sorta di comunismo utopistico, sostenendo e praticando la comunanza dei beni ed un rigido ascetismo che proibiva il consumo di carne e di fave.
Con una battuta potremmo dire che egli si attirò l'astio degli allevatori di bestiame e dei macellai, ma non saremmo lontani del vero se dicessimo che i poveri detestano gli esempi di comunismo costruito su basi volontarie ( ed anche quello imposto da un governo) perchè vi vedono la negazione di tutti i loro desideri, primo dei quali la ricchezza che non hanno mai avuto. E, non andremmo ugualmente lontano dal vero, se dicessimo che per i poveri, il comunismo comincia con la possibilità di mangiar carne, un bisogno e spesso un desiderio negato dalla loro stessa povertà.
In sostanza è facile chiarire i motivi per i quali Pitagora non piaceva alla sinistra del tempo, pur essendo il primo dei comunisti, quanto meno nel mondo greco, e quindi anche in filosofia.

E' difficile stabilire cosa intendesse veramente Pitagora per filo-sofia, se, p.e., una generica disposizione allo studio ed alla ricerca, o qualcosa di molto più specifico, una sorta di iniziazione allo studio dei misteri del mondo che, solo nella sua scuola, poteva trovare realizzazione.
Comunque sia, non pare sbagliato concentrarsi sul significato della parola stessa, la quale è composta di due termini: philo, che vuol dire amore (amicizia) e sophia, che vuol dire sapienza.
Essere amici della sapienza, amare la sapienza, dunque.
Più che per un sapere specifico e specializzato, il filosofo si caratterizzò fin dall'inizio per il suo desiderio di sapere. Ma il suo desiderio non si fermava al mito, od a quanti tutti sapevano, ma voleva andare oltre.
Pitagora intuì che la sua proposta di vita, non solo di studio, si badi, poteva allettare moltissimi: cosa c'era di meglio che ritirarsi in una tranquilla comunità di fratelli e cercare risposte ai tanti perchè, discutere e vivere insieme?

Abbiamo insistito su Pitagora non solo perchè pare probabile che egli sia stato il vero inventore del termine filosofia, ma perchè è evidente che in Pitagora il trapasso dal vecchio modo di pensare mitopoietico, ed il nuovo abito mentale del filosofo, in realtà non era compiuto del tutto.
Cerchiamo di spiegare questo punto, arrivando al sodo, ovvero a dire cosa fu la filosofia.

Cosa fu la filosofia?
L'amore per il sapere dei primi filosofi, si indirizzò soprattutto ad una ricerca in tre campi distinti, sebbene visibilmente collegati: un ragionamento sulle origini del mondo, un ragionamento su quale sia per l'uomo la miglior vita, ed, infine, un ragionamento sul ragionamento, cioè un'analisi critica delle forme strutturali del pensiero e del linguaggio, e degli argomenti e delle prove esibiti nel discorso dimostrativo.
Come si vede, in ogni caso, la parola ragionamento costituisce la chiave di volta dell'intero atteggiamento mentale di chi amava la sapienza e, dunque, filosofava.
Tutti i filosofi greci della prima ora sembravano ammettere che senza un ragionamento, un esame circostanziato, non si potesse pervenire ad alcunchè di certo e di stabile, di rassicurante, insomma, ad una vera sapienza.
Questo ragionamento sulle origini nei primi filosofi si diversificò potentemente da tutta la tradizione culturale precedente perchè, invece di dedicarsi allo studio dei miti sull'origine del mondo, degli dei e degli uomini, considerò molto più importante concentrarsi sul principio immanente al mondo stesso. Potremmo dire sul presente, invece che sulla storia, concesso che il mito sia in qualche modo credibile come storia.

Per i primi filosofi, per Talete, Anassimandro, Anassimene, il problema del principio del mondo si poteva tranquillamente affrontare ragionando sul presente, giacchè era proprio nella realtà della physis (la natura, non la fisica) che esso insieme si rivelava e si nascondeva.
Com'è noto, ogni filosofo della prima ora fornì una sua interpretazione. Talete dichiarò che il principio di tutte le cose era l'acqua. Anassimandro parlò di un principio diverso, l'apeiron, ovvero l'illimitato da cui si generano tutti i corpi finiti; Anassimene asserì che tutto dipendeva dall'aria.
In tutti e tre è comunque evidente che non si parla di Dio e cosmogonie, che non c'è storia, che la soluzione al problema, per un aspetto è nascosto, e per un altro è già sotto i nostri occhi.

Ora è chiaro, sotto questo profilo, che l'atteggiamento di Pitagora, fu insieme innovativo e conservatore.
Da un lato egli forzò ulteriormente la ricerca sulla natura, individuando nei numeri la misura dell'armonia delle cose, il principio che le tiene assieme, le fa nascere, sviluppare e perire, garantendo comunque una relativa stabilità.
Dall'altro lato, tuttavia, egli rimase saldamente ancorato ad una visione religiosa, continuando la tradizione orfica della dottrina della trasmigrazione delle anime, ma discostandosi decisamente da questa in quanto il dio ispiratore non era il mistico Dioniso, ma il solare Apollo, in qualche modo simbolo di evidenza e ragione, contrapposto a mistero e frenesia mistica.
La leggenda narra, anzi, che egli ricevette la rivelazione della sapienza apollinea, che comprendeva, si crede, anche aritmetica e geometria, da una sacerdotessa di Apollo, una certa Temistoclea.
Ma, di Pitagora si racconta anche che egli fece lunghi viaggi di studio in Egitto, e forse, in Mesopotamia, e fu nel corso di tali viaggi che egli ricevette le conoscenze matematiche di egiziani e babilonesi, nonche, si crede ancora, anche le loro cosidette visioni del mondo e la loro saggezza pratica.

La tesi di quelli che sostengono una derivazione della filosofia greca dalle culture mediorientali ha dunque anche questo fondamento. Sia Pitagora, che gli stessi apollinei, vennero al corrente dei più importanti misteri della sapienza detenuta dai sacerdoti egiziani, babilonesi e persiani.

Semplicemente conoscendo un po' di storia antica, è facile concludere che, tuttavia, nulla di simile alla ricerca sulla physis inaugurata da Talete e proseguita da Anassimandro e Anassimene, si può trovare nel vicino oriente, nè in Egitto, nè tra gli ebrei, nè nella Persia del mitico Zarathustra.
Non già perchè perchè manchino storie e miti sull'origine del mondo, o consigli all'uomo su quale sia la miglior vita, ma perchè invariabilmente il racconto mitico ruota attorno al concetto di un dio creatore, anteriore a tutti gli altri dei, e perchè sembra anche difficile disgiungere l'invenzione del mito dall'intenzione di raccontare una storia capace di istillare qualche idea volta ad animare il popolo ed a convincerlo di essere migliore, più divino, degli altri.

Tra i greci accadde, al contrario, qualcosa di radicalmente diverso: la ricerca sulle origini non solo potè persino accantonare il problema di dio, almeno per un po', ma si avviò decisamente alla ricerca della verità, avendo come unica intenzione la verità stessa. Aristotele dirà poi che l'oggetto della ricerca è il necessario, ovvero il nucleo di realtà che non può essere altrimenti da ciò che è. Con ciò egli colse in modo sintetico l'essenza stessa del filosofare.

Questo a me pare il tratto decisivo che caratterizzò e distinse un orientamento filosofico da tutti i possibili altri atteggiamenti, i quali si possono poi riassumere grosso modo in due: quello fideistico e quello agnostico.

Per il primo non c'è nulla da cercare perchè la vera sapienza si trova nell'insegnamento religioso, dato da Dio , o da un dio, all'uomo illuminato dalla luce divina, spesso il sacerdote, e prima di lui, il mago e lo stregone.

Per il secondo è inutile cercare, perchè l'uomo non è in grado di arrivare ad alcuna conclusione di tipo generale.
Per quanto radicalmente opposti, fideismo ed agnosticismo concordano nel negare alla ragione umana ed all'uomo stesso la possibilità di arrivare a verità ultime con i propri mezzi.
Visto che la filosofia fu, in genere, tollerante, essi vennero a costituire posizioni filosofiche vere e proprie.
Ma, chi osserva che l'abito mentale del filosofo, in origine, non poteva che essere radicalmente opposto a quello del fideista, o dell'agnostico, ha indubbiamente ragione.

Un precedente illustre: la sapienza indiana
La parola filosofia non ha l'equivalente in nessuna lingua antica, nemmeno in India, ovvero nell'unico paese nel quale sia veramente esistito qualcosa di simile alla filosofia sorta in Grecia, Cina a parte, come cercherò di spiegare.
Gli antichissimi indù chiamavano la loro sapienza in molti modi: in primo luogo sapienza o vidyâ, poi tarka-shastra, ossia dottrina fondata sul ragionamento,ed anche anvishikî vidyâ, scienza della revisione. Quest'ultima definizione fu usata da Kautilya, in un trattato di scienza politica risalente a poche centinaia di anni prima di Cristo e dunque contemporaneamente al fiorire della filosofia in Grecia.
Spesso nei testi indù si incontra anche il termine atman-vidyâ, termine che non so bene se traducibile come sapienza dell'anima o sapienza dell'io. Ma, anche in questo caso, è evidente che siamo ad una delimitazione ulteriore dell'ambito del sapere con un oggetto preciso, nient'altro che un ragionamento logico sulla certezza di sé e sull'esistenza o meno di una componente spirituale ed eterna dell'io, indipendente e diversa da quella corporea.

Con tali termini differenziati gli indù designavano non solo la riflessione umana sulle esperienze fondamentali ma anche qualcosa di molto diverso, ponendo essi, fin dall'inizio, alla base del loro ragionare, la "luce dei veda", quattro libri antichissimi, che secondo gli stessi indiani esistevano da sempre, ed erano il frutto di una sapienza sovraumana, una rivelazione di verità eterne che il divino aveva porto agli umani.
Fino al rivoluzionario avvento del Buddha, nel corso del primo millennio a.C., tale sapere tradizionale non fu mai contestato, ma solo sviluppato ed integrato in prospettive complementari.
Le Upanishad, testi che risalgono al primo millennio, costituirono, sotto questo aspetto, una prosecuzione dei Veda, nella forma di una speculazione intellettuale e non, come spesso si trova scritto, un momento di transizione a concezioni più moderne.
Pertanto, come molti hanno sottolineato, la tradizione sapienziale indiana presenta qualcosa di simile alla scolastica medioevale dell'occidente.
Non ponendosi mai il problema di superare con la ragione i dogmi contenuti nei veda, ma semmai di mostrare le basi razionali delle credenze espresse in quei testi, essa venne, nel tempo, a cristallizzarsi in sei darshana, o punti di vista, che costituirono qualcosa di definitivo e di chiuso, un sapere oltre al quale non sembra possibile andare, se non abbandonando l'ambito stesso delle credenze, e ricominciando da capo la riflessione.
In tale quadro le varie dottrine sorte nel primo millennio a.C., dal buddhismo al jainismo, da varie forme di materialismo, detto carvaka, a innumerevoli forme di religioni locali e regionali, che poi sfociarono nelle grandi correnti religiose del visnuismo e dello shivaismo, rappresentarono qualcosa di eversivo e rivoluzionario, evidenziando, ad esempio, come la credenza nella reincarnazione secondo meriti acquisiti nelle vite precedenti finisse solo per giustificare l'odioso sistema di divisioni sociali esistente con le caste attraverso un fatalismo per il quale l'occidentale, sia ateo che cristiano, non può che stupire e sdegnarsi.
Nella sapienza degli antichi indiani, infatti, nessun uomo ha diritto di svilupparsi liberamente; ognuno deve seguire il proprio dharma ed il proprio karma, ovvero la propria regola sociale (una sorta di legge) ed il proprio destino, inteso come una serie di prezzi da pagare alle proprie colpe, commesse in altre vite.
Non occorre una grande intelligenza per capire che queste convinzioni, anche quando nascevano da sentimenti sinceri e una visione che, nella sua arditezza, semplicemente cercava di giustificare razionalmente le ingiustizie e le diseguaglianze naturali tra gli uomini, finivano col servire da trampolino alla più bieca teoria dell'egoismo e del dominio dell'uomo forte e sapiente sull'uomo debole ed ignorante.
Il buddhismo ebbe il grande merito di gettare il seme della compassione verso tutte le creature nell'aridità degli animi. Ed è per questo che ottenne un relativo successo tra le persone più semplici e sensibili. Ma essendo un sistema di pensiero sostanzialmente ateo, che nella sua essenza originaria negò persino l'eternità dell'anima e l'esistenza di un "io", finì anche per non incontrare i bisogni più profondi della spiritualità indiana, la quale sembra necessitare di una credenza in Dio e di una sopravvivenza dell'atman, l'anima, sia pure non più costretta ad incarnarsi in esistenze inferiori.

La saggezza cinese
Diverso discorso dovremmo fare per la Cina, dove tutta la riflessione cominciò da una saggezza pratica, priva di fondamenti teologici e giustificazioni mitiche.
Si potrebbe obiettare che la dottrina dello yin e dello yan, matura manifestazione di una più antica credenza dell'azione complementare di cielo e terra, mascolino ed femmineo, fu teologia, o quantomeno, metafisica tutti gli effetti.
Io sarei per rispondere che non è necessariamente vero che quando si rinviene, o si crede di aver trovato, una legge di natura, si faccia in qualche modo metafisica, si cerchino cioè nell'invisibile principi alle cose visibili.
Si può ammettere che si faccia astrazione.
Ma l'astrazione ha a che fare con una sintesi dei dati fisici e sensibili, più che con l'immaginazione di realtà extrasensibili. Del resto anche in Cina ci furono miti e religioni, come ad esempio quella Bon nell'antico Tibet.
Pertanto, anche in Cina si ebbe un'evoluzione che portò a distaccarsi dal mito, e questo accadde prima che in Grecia. La dottrina dello yin e dello yang dimostra, inoltre, che anche i cinesi indagarono per trovare nella natura i fondamenti immanenti della realtà.
Essi compresero, per di più, che anche le norme di saggezza pratica, potevano derivare dall'alternarsi dei cicli naturali.

Le più antiche correnti di pensiero cinese non religioso sono riducibili a due: quella prototaoista, legata alla leggendaria figura di Lao Tzu, un'espressione che significa vecchio saggio, e quella confuciana.
La prima considera buona la natura dell'uomo e cattiva la società; la seconda muove da una concezione completamente opposta: l'uomo è da correggere, e, tuttavia, alcuni uomini hanno in sè, le risorse stesse per autocorreggersi; queste facoltà vanno solo risvegliate da un maestro spirituale.
Tra le due correnti, solo quella confuciana, mostra di avere implicito l'amore per il sapere decisivo e caratterizzante di una filosofia vera e propria, perchè sapere è civiltà, non natura.
Per avere una vera idea di natura, bisognerà infatti sempre porsi "al di fuori di essa", non esserne coinvolti più di tanto, come del resto, anche per avere un'idea di civiltà, occorrerebbe porsi al di fuori di essa, e questo non sempre pare così facile.
Occorrerebbe stabilire se questa potenziale propensione alla civiltà sia naturale nell'uomo, e questo non è del tutto chiaro in Confucio, anche se, sembra implicito nel suo pensiero, che propensione a sfruttare i vantaggi della civiltà non significhi affatto coscienza di tutto ciò che bisogna fare per ordinare la vita civile. Questa esiste solo in alcuni uomini: i nobili ed i saggi.
Confucio fu molto più vicino allo spirito greco di quanto si è soliti ammettere studiando il pensiero cinese, così distante ed ingiustamente considerato come qualcosa d'altro, quasi parlassimo di alieni.
In effetti, egli fu più un saggio che un filosofo, più attento ai problemi del comportamento e della scelta che ai problemi del sapere del necessario: ma per essere saggi di tale portata, occorre una passione per il sapere e per la verità.

La cultura mediorientale
Va compreso che mancano nelle culture mesopotamiche, egiziane ed ebraiche espressioni scritte che attestino che le visioni del mondo, presenti nei loro miti e nelle loro credenze religiose, rappresentarono la conclusione di un ragionamento cosciente e consapevole, o comunque, consapevole del tutto, della condizione umana.
Questo non significa che, come spesso si sente dire, il loro sistema di credenze e di valori fosse frutto dell'irrazionalità; semplicemente si tratta di riconoscere che fu un prodotto di un modo di pensare ed agire meno calcolato e più spontaneo. Nella spontaneità di una produzione letteraria che narra una storia fantastica, un mito, entrano soprattutto in gioco fattori inconsci, ma non per questo irrazionali.
Tutti i racconti mitici su prestano ad un'analisi ed ad una interpretazione. Ed è facile dimostrare che, pur variando nelle forme, essi riproducono non già una creazione, ma, per l'appunto, una riproduzione.
Anche laddove l'elemento sessuale femminile sembra negato, probabilmente per reazione ad eccessi di tipo matriarcale, le cose non escono dal nulla, dal non-essere, ma dal caos, dalle acque primordiali, dalla volontà di un dio che pronuncia un fiat lux.
Non si sono mai trovati racconti nei quali la storia comincia così: « Ad un tratto, dal nulla uscì un dio che emise un grido: e sia, porco mondo!»
Lo studioso di antica cultura egiziana John A. Wilson ha scritto più volte che nella teologia menfitica, giustamente considerata la più evoluta, saremmo prossimi ad una concezione filosofica nella quale il concetto di nulla, di dio uscito dal nulla, è visibile.
Ma, poi, finisce con lo smentirsi, asserendo che il nulla sarebbe uno spazio vuoto e che nella teologia menfitica comparve per la prima volta il concetto di una intelligenza creatrice.
Testualmente: « Secondo il mito più diffuso, esisteva prima della creazione solo un immenso spazio vuoto, liquescente, tenebroso, informe ed invisibile. Successivamente lo spazio vuoto si rischiarò, diradandosi, e dal nulla sorse la collina promordiale della terra, proprio come ogni anno emergono dalla piena del Nilo in fase decrescente le prime alture di argilla, quale segno della vita che si rinnova. Sulla prima collina insulare troneggiava Atum.»
Qui siamo a qualcosa, non al nulla, giacchè Atum esce dalle acque, le quali non sono nulla, ma solo un abisso primordiale.
In opposizione a questo mito precedente, la teologia di Menfi, secondo Wilson asseriva: « Ptah, il dio di Menfi, era il cuore e la lingua di tutti gli dei. Gli egizi erano inclini all'astrazione, ma a questa volevano assegnare punti concreti nello spazio, e così "cuore e lingua" era il mezzo pittorico egiziano per esprimere rispettivamente nelle figurazioni la mente e la parola.»
Ma anche qui, siamo a qualcosa di preesistente. La teologia dei sacerdoti di Ptah si limitava ad affermare un principio: cuore (intelligenza) e lingua (parola) sono alla base dell'ordine cosmico tanto quanto cuore e lingua del faraone di Menfi sono alla base dell'ordine umano realizzato in terra d'Egitto.

In tutti i racconti mitici o il dio supremo esiste già, o a sua volta è originato da una madre, dalla terra, o dalle acque, o dal caos promodiale.
Evidentemente in tutto questo c'è una logica, altro che irrazionalità! O si pensa al dio come un qualcosa di preesistente, oppure si pensa al dio come ad un prodotto della natura, a sua volta preesistente.
Sembra sia impossibile sfuggire a questo dilemma, oppure averne ragione senza una forzatura.
Dicessi che, forse, l'unico modo sensato di affrontare il problema, è decidere di non risolverlo, alla maniera cinese, accettando la teoria yin-yang, dichiarerei le mie simpatie in modo esagerato.

Sempre Wilson riporta che nelle teologie egiziane inferiori e più volgari, la creazione è vista come la conseguenza di una masturbazione divina, essendo il dio comunque un maschio "dominante" ( e frustrato dalla solitudine).
Razionalmente è difficile scegliere il cosa viene prima, se un dio o la natura, o la coesistenza dall'eternità, oppure solo la natura.
Tuttavia è innegabile che dalla teologia dei sacerdoti di Menfi venne una sfida, articolata in termini mitopoietici, e che questa fu raccolta, in termini filosofici, dal greco Anassagora, nel quale "Cuore e Lingua di Ptah" diventarono il nous, l'intelletto che ordina l'universo stesso.

In sostanza, siamo con Anassagora alla conferma del dato che avevamo annunciato: in filosofia l'inconscio diviene cosciente ragionamento.

Non solo, anche laddove, nei miti della creazione, la riproduzione non è semplice, ma variata, come nella Bibbia, per cui si potrebbe in qualche modo riconoscere che qualcosa fu creato ex-novo, l'ultima delle creature, cioè l'uomo, l'opera più perfetta, fu fatta ad immagine di Dio. Come a ribadire che nell'inconscio dell'autore era particolarmente chiaro, e forse nemmeno tanto inconscio, che sì, Dio sarà totalmente altro, una potenza inarrivabile ed inimitabile, ma l'uomo è, tuttavia, una sua riproduzione in miniatura, destinata comunque a conquistare la terra, a soggiogarla, come è scritto nelle prime righe di Genesi.
Missione che fu realizzata più dai greci (e dai romani) che dagli stessi ebrei, i quali non riuscirono mai ad acquisire nell'antichità precristiana un abito mentale scientifico, tecnico e pratico tale da arrivare veramente allo sfruttamento delle risorse ed al dominio dei materiali.

Dobbiamo ora tentare di capire quali elementi concorsero a formare un atteggiamento mentale così diverso tra i greci.

In cosa i greci si differenziarono dai popoli del Mediterraneo e del vicino oriente
Quando le stirpi greche della seconda ondata di invasioni, provenendo dall'Asia centrale, conquistarono la penisola ellenica, non erano in possesso di altre tecniche se non quella della pastorizia, del forgiare il ferro e del combattere a cavallo.
I nuovi venuti si rivelarono molto abili nell'assimilare con facilità tutte le tecniche e tutte le forme di sapere; impararono a coltivare la terra, a fare il vino, a costruire imbarcazioni, a navigare e pescare. Appresero l'arte del commercio e quella dell'architettura, alla cui base vi è la capacità matematica e geometrica. Si impadronirono dell'arte medica in tutte le sue forme e manifestazioni, pervenendo in breve alla formulazione della dottrina ippocratica, la quale ancor oggi pare avere una sua validità: la natura stessa guarisce la maggior parte dei mali con la sua forza vitale e rigenerante.
La buona vita comincia con l'aver cura di sé. Probabilmente impararono dai cretesi a fare ginnastica, operando per primi una distinzione tra l'addestramento militare e l'esercizio fisico puro e semplice. Anche l'idea dei giochi sportivi, i grandi assenti dalle culture mesopotamiche, egiziane ed ebraica, pare in qualche modo venire da Creta, dove si facevano vere e proprie corride con i tori, ma sembra soprattutto un retaggio del modo di vivere barbarico e guerriero, quando le stirpi greche scorrazzavano per le steppe asiatiche, e si divertivano a lottare, a correre, a tirare con l'arco ed a lanciare i giavellotti.

Devo riconoscere che la principale dote dei greci antichi, sebbene sia personalmente restio ad attribuire qualità e caratteri a popoli e razze, fu l'eclettismo e la capacità di adattamento ed assimilazione.
Ciò dipese in larga misura dal fatto che i greci non furono mai un popolo nel senso di nazione e di stato unitario e centrale, ma una continua fusione di popoli e razze, più portato a fondersi con la popolazione locale, che a sottometterla in schiavitù. Unica eccezione fu Sparta, ma da Sparta non venne alcun contributo vero alla filosofia.
Impararono qualcosa da tutti i popoli con cui vennero in contatto, si potrebbe dire con intelligenza ed umiltà.
Furono gelosi custodi della loro autonomia e della loro libertà da un potere centrale, anche se non disdegnarono l'unità e le alleanze.
Tutto quello che assimilirano, lo trasformarono alla radice, adattandolo alla loro particolare mentalità e personalità.

Queste differenze possono spiegare il sorgere di un atteggiamento filosofico
In tutto questo si possono già trovare tracce di un atteggiamento filosofico, questa inclinazione al sapere, all'assimilare, al digerire scomponendo in unità sempre più piccole e differenziate tutto il nutrimento ricevuto.
Sembrerebbe qualcosa di innato, ma c'è dell'altro.
In realtà è difficile immaginare un greco antico che non coltivi la passione per l'avventura, i viaggi, il racconto mitico, la conoscenza di altri popoli, altri luoghi, altre storie.
Perfino la classica immagine del rustico beota, il contadino ignorante e sciocco delle campagne attorno a Tebe, contrasta in modo significativo col fatto che uno dei massimi poeti della storia greca, Esiodo, non fu altro che un contadino beota, cioè un cafone che imparò a leggere, a scrivere, a comporre in versi, raffinandosi sempre più come intellettuale e letterato.

Esiodo
Alcuni hanno visto in questo campagnolo il vero padre della filosofia, comunque una sorta di precursore.
Non si può negare, in realtà, ad Esiodo il merito di aver espresso una sua visione del mondo, della vita ed un sistema di valori. Ma contrasta con l'immagine del filosofo e del tipo greco che finora abbiamo descritto la sua dichiarata avversione alle chiacchiere pubbliche, alla politica come critica distruttiva, all'avventura ed al viaggio. Esiodo esaltò i valori dell'impegno e del lavoro, lodò chi faticava nei campi invece di perdere tempo, rimase contadino nell'animo e probabilmente pensò qualcosa di simile all'ozio come padre dei vizi.
Pur esprimendo una cultura di classe, una sorta di saggezza pratica popolare, non incitò mai alla lotta di classe, all'abolizione dei privilegi degli aristocratici, insistendo piuttosto sui doveri che ognuno dovrebbe coltivare in primo luogo verso sé stesso.
L'universo mentale di Esiodo fu, in realtà, troppo ordinato e troppo saggio per essere anche filosofico, anche se le sue riflessioni sulla giustizia paiono piuttosto profonde. Inoltre non rinunciò a creare miti, anzi, tutta la sua opera pare un tentativo di ordinare i miti preesistenti, conciliando le contraddizioni più vistose.
Convinto che la funzione degli dei fosse quella di guidare gli uomini alla giustizia ed alla saggezza, e non già quello di giocare con loro, e divertirsi a loro spese, contribuì in maniera determinante a formare una coscienza del divino un po' meno superficiale di quella presentata nei miti preesistenti, nei quali gli dei non pensavano ad altro che a sedurre fanciulle e le dee a farsi ingravidare dai fighetti del tempo.
Ma il punto più rilevante dell'intera opera di Esiodo, a mio parere, consiste in una riflessione che investe proprio il problema dell'inconscio e dell'irrazionalità.
Ad un certo punto il poeta sembra ammettere che le Muse, cioè l'ispirazione più genuina e spontanea della poesia, possono anche ingannare. Non arriva ad affermare che occorre diffidare: sembra limitarsi a dire che non tutti i poeti comprendono pienamente quelle che le Muse dicono. Ma, così facendo istilla un dubbio, incomincia ad invitare ad una riflessione sui contenuti della poesia, persino a prendere le distanze da essa, per meglio comprendere.
E questo non è tanto l'avvio di una sorta di critica letteraria, quanto il preludio ad una riflessione filosofica.
Non possiamo dire se Esiodo credesse davvero all'esistenza delle Muse. Certo, ascoltando le voci interne, i pensieri che affiorano quando la mente si abbandona, anzichè concentrarsi su problemi o volontà, egli dovette arrivare molto vicino ad una moderna concezione dell'inconscio: i pensieri sono latenti, sono ricordi, impressioni profonde, desideri negati; vengono da sè, in modo scomposto, disordinato, ma vengono, anche se non sempre, siamo in grado di interpretare queste voci.

Tutto questo può, giustamente, stupire perchè tra gli altri popoli il letterato era sacerdote o aristocratico; ed un proprietario esclusivo del sapere stesso, all'interno di un circolo chiuso che riservava la vera educazione solo alle classi dominanti ed ai ceti possidenti.
Fin dall'inizio la Grecia fu dunque rivoluzionaria, aperta, democratica, anche quando dominata dagli aristocratici.
La democrazia non porta solo svantaggi; non è solo la peggior forma di governo eccettuate tutte le altre; è anche l'unico sistema che, consentendo il libero confronto di opinioni, stimola la riflessione ai livelli più alti.
In democrazia non solo cresce il numero degli imbecilli che parlano, cresce anche il numero delle persone di valore che possono esprimere saggi consigli e pareri da prendere in considerazione. Le possibilità che in democrazia si esprima un talento intellettuale sono molto più alte, anche se, ovviamente, questa tendenza non ha sempre un valore assoluto. La democrazia, infatti, tende anche ad appiattire i valori, a rendere uguale quello che uguale non è, e quindi a penalizzare i meritevoli, e purtroppo a premiare arrivisti e demagoghi.

Comunque sia, appare evidente che senza l'incoraggiamento della libertà e della democrazia, la vivacità del confronto e dello scontro di opinioni, persino la polemica più aspra, la filosofia non sarebbe maturata, sarebbe rimasta una semplice passione per il sapere, non sarebbe mai diventata un sapere scientifico o morale.
Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che ancora una volta il poeta Esiodo, il cafone beota, si mostrò lungimirante. Narrando il mito di Eris, la contesa, la divinizzazione e la personalizzazione di un concetto che, a sua volta, descriveva lo stato delle relazioni tra gli uomini, egli non solo evidenziò l'aspetto negativo della contesa, il suo recare dolori e dispiaceri, ma seppe evidenziarne gli aspetti positivi. Se non c'è contesa, se non competizione, disse Esiodo, non c'è emulazione, non c'è spinta al miglioramento di sè. Tra due contadini possono sorgere liti per questioni da poco, e possono verificarsi drammi di sangue. Ma, in generale, la competizione stimola almeno uno dei due a dare il meglio di sè, a rendere più produttivo il suolo, a coltivare meglio i campi. A vendere a prezzi più bassi oggi, per ottenere guadagni più alti domani.
In Esiodo giocarono, probabilmente, anche le più amare esperienze personali. Pare fosse stato vittima di una grave ingiustizia nella divisione dell'eredità paterna da parte di un fratello. Dovette contendere con lui.
Nella riflessione sulla lite, sui diritti calpestati, trovò il modo di elaborare pensieri profondi sia sul concetto di giustizia che su quello di contesa.
In sostanza pare vero che gli intelletti più evoluti e produttivi diano il meglio solo dopo tribolazioni, prove ed anche vere e proprie sofferenze.
Letture consigliate
Questo articolo ha un taglio divulgativo e, come spesso succede, tocca superficialmente troppi temi, senza approfodirne alcuno.
Pur ripromettendomi di tornare in futuro su alcuni punti, ed affrontarne altri, ad esempio, la tradizione persiana dei magi, con particolare riferimento a Zarathustra, mi sembra utile elencare qui i libri che hanno concorso a formare il mio punto di vista.
Sulla cultura egiziana, ed in generale su quella mediorientale, mi sembra fondamentale La filosofia prima dei Greci, opera che contiene saggi di diversi autori, tra i quali il citato John A. Wilson. Il libro si trova nel catalogo Einaudi.
Avverto, però, che le citazioni non sono tratte da quest'opera, ma dal capitolo sull'Egitto contenuto nel primo volume de I Propilei, La Grande Storia Universale Mondadori.
Molte delle notizie su Esiodo vengono da quel grandissimo libro che è Dike, la nascita della coscienza, di Eric A. Havelock, edito da Laterza, uno studio che attraversa i molteplici significati della parola giustizia, da Omero a Platone.
Il classico Filosofia dell'India di Helmuth von Glasenapp, dotto filologo tedesco, può aiutare ad inquadrare lo sviluppo storico della cosiddetta filosofia indiana. Il libro è stato pubblicato dalle edizioni SEI e potrebbe essere disponibile solo in biblioteca.
Su Confucio e Lao Tzu esiste ormai una letteratura sterminata, e non sempre attendibile. Per iniziare conviene quindi rivolgersi alla Storia della filosofia cinese, di Leonardo Arena, edito da Mondadori.
La storia della filosofia, curata da M.Del Pra per Vallardi, dedica ampio spazio sia alla filosofia indiana che a quella cinese.
Sul pensiero ebraico, il citato La filosofia prima dei Greci contiene un saggio molto interessante (e sintetico) di William A. Irwin.
Infine, su Pitagora ed il pensiero filosofico greco, molti spunti interessanti si possono trovare anche su questo sito.
A favore della tesi di una derivazione del pensiero greco da quello mediorientale si espresse, a suo tempo, K. Joël in un libro del 1903 che non mi risulta tradotto in italiano: Der Ursprung der Naturphilosophie aus dem Geiste der Mystik.
Com'è noto, di opinione del tutto opposta era stato Hegel, che aveva parlato di "miracolo greco".
Su una via più problematica si colloca il classico scritto di Rodolfo Mondolfo Sui rapporti tra la cultura e speculazione orientale e la scienza greca. Tale testo si trova nel primo volume di Zeller-Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico.
Mondolfo rigettò la trionfalistica spiegazione hegeliana della storia della filosofia come sistematica costruzione dello spirito, e propose una più cauta interpretazione della storia del pensiero come "problematicità."
Le letture qui proposte non vanno considerate, ovviamente, come una bibliografia essenziale. Sulla storia delle origini della filosofia greca, infatti, esiste ormai una letteratura sterminata e specialisti.
Daniele Lo Giudice - 25 maggio 2002 -


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