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Dalle ceneri dell'attualismo, lo spiritualismo cattolico italiano
di Daniele Lo Giudice

Questo scritto tratteggia per sommi capi gli sviluppi del pensiero spiritualista, erede diretto del processo di dissoluzione dell'attualismo gentiliano sia in termini di continuità che in termini di rottura. Le posizioni dei singoli filosofi, perché di filosofi si tratta, e non di teologi, e neppure di teologi filosofeggianti, è riassunta in brevi tratti che non hanno alcuna pretesa esaustiva. Tanto che ritengo necessario, per primo, ritornare su almeno alcuni di essi con schede apposite. Quella che segue non è altro che una "panoramica" che vuole evidenziare quanto di "gentiliano" trapassi nello spiritualismo cattolico del Novecento e quanto esso, di per sé, abbia elaborato con le proprie gambe. In conclusione propongo l'interpretazione che Augusto Del Noce diede del pensiero gentiliano, perché mi pare in grado di spiegare, a posteriori, la grande influenza e attrattiva che seppe esercitare sia su chi cattolico non era ancora, e lo divenne, sia su chi cattolico lo era già, ma in modo diverso rispetto ai neoscolastici, i quali hanno sempre privilegiato il momento della conoscenza esteriore del mondo per ritrovare Dio nella natura e nell'ordine cosmico.

Diaspora di gentiliani: "destra e sinistra" o cattolici e no?
Tra chi frequenta corsi di storia della filosofia è venuto alla moda (ed anche comodo) parlare di "diaspora" dei gentiliani, e, riprendendo un clichè piuttosto fortunato, proporre una divisione primaria di valore orientativo tra "destra" e "sinistra" post-gentiliana. In tale schema, i cattolici, dei quali ci occuperemo espressamente qui, sarebbero la "destra", mentre Giuseppe Saitta, Ugo Spirito e Guido Calogero costituirebbero una sinistra, tuttavia difficile da inquadrare in confini ben disegnati. Personalmente, preferisco adottare una soluzione diversa per quanto sostanzialmente simile nei risultati. Mi pare più congruo parlare di (ex)-gentiliani cattolici e (ex)-gentiliani laici, tralasciando ogni accenno a destre e sinistre, riferimento che rischia di farci immaginare simpatie politiche traballanti e mal fondate. Se è vero che in filosofia non si dovrebbe discriminare tra credenti e non credenti quando i credenti fanno filosofia, è anche vero che i credenti, sia pure in misura diversa, non possono permettersi di porre "tra parentesi" la propria fede per partecipare all'eterno gioco della filosofia come un qualsiasi principiante. Queste espressioni sono di Pietro Prini (1) e rendono "da un punto di vista cattolico" ciò che un laico potrebbe faticare a comprendere. Scrive Prini: «Una fede che possa essere interrotta o sospesa anche soltanto in maniera provvisoria, non è più una fede, così come la filosofia che si ponga realmente come la ricerca di ciò che è primo, come una "protologia", secondo l'espressione del Gioberti, non può non essere essa stessa un cominciamento radicale, una totale problematicità. La finzione sta nel ritenere irrilevante, nella posizione del problema filosofico la differenza tra la situazione del credente e quella del non credente.» Ciò mi pare di importanza sostanziale perché un credente che fa filosofia non può rinunciare a testimoniare ciò che non è più filosofia, cioè la sua fede.
Essa può presentarsi come un assioma o come una luce che illumina da un punto di vista trascendentale tutte le questioni filosofiche. In generale la metafora della luce pare la più accreditata per quelle filosofie che si contrappongono rigidamente al riduzionismo scientista, al positivismo ed al materialismo.

Lo spiritualismo cristiano
Lo "spiritualismo cristiano" nasce in Italia avendo due interlocutori privilegiati: l'attualismo, per l'appunto, di cui in un certo senso fu "prosecuzione" nel superamento, e la filosofia neoscolastica cattolica, di cui fu, in altro senso, una specie di avversario "dialogante" e rispettoso, ma pur sempre avversario. Nasce già durante il ventennio fascista, annunciandosi con alcune opere che meriterebbero di essere conosciute, come La vita dello spirito di Armando Carlini - Sansoni 1921, e il Kant precritico di Augusto Guzzo - Bocca 1924. Il contrassegno comune è l'autocoscienza dello spirito nel solco della filosofia gentiliana dell'atto. La figura di spicco di questo periodo fu Armando Carlini, nato il 9 agosto del 1878 a Napoli, e formatosi come allievo di Gentile, ma con grandi simpatie per Benedetto Croce, di cui si disse "scolaro". Negli scritti post-bellici, Carlini chiarirà che il senso della sua filosofia è da ricercare nell'opposizione polemica alla "metafisica dell'essere", dunque alla scolastica ed al pensiero di Aristotele. La metafisica è vista come "cosmologica", un tipo di approccio che sa concepire Dio solo come principio esplicativo del mondo, ma non sa riconoscere «quell'essere che è essere a se stesso», ovvero la coscienza e lo spirito, e persino la personalità. Secondo Carlini, l'essere di Aristotele e degli scolastici medioevali, non ritorna a se stesso, "non si sa", non è dunque né autocoscienza, né autocreatività. Non è quindi veramente ad immagine dell'uomo.
Si può avere idea più precisa di questa concezione immanentistica del Dio di Carlini citando una frase, non estratta ad arte e con malizia, dal contesto di un suo scritto: «Dio non è una realtà per noi finché non lo realizziamo in noi, altro da noi ma non senza di noi. Noi siamo creature di Dio, eppure, in un certo senso, suoi creatori.» (da Uomini e problemi di A. Carlini - Giardina 1960) E' una frase ai limiti dell'eresia, feuerbachiana se vogliamo, ma ha profonde radici agostiniane.
Tutto lo spiritualismo è sicuramente neoagostiniano. Ma è anche moderno e idealista. Ad avviso di Carlini, Aristotele non è cristianizzabile. Solo con il cristianesimo l'idea dell'interiorità e la coscienza come autocoscienza diventano possibili, ma è anche nel pensiero moderno cioè con l'idealismo, che l'uomo trova la sua autentica dimensione spirituale.

Armando Carlini e l'interiorità trascendentale
Carlini riconosce nella spiritualità dell'atto dell'autocoscienza l'origine della distinzione dei valori fondamentali: il bello, il vero, il bene. L'arte si rivela, così, «pura sensibilità spirituale», la filosofia diventa «concezione del valore dell'esistenza» e la religione si presenta come «senso della trascendenza implicata nell'atto», il quale «è tutto, sempre, perciò posizione e affermazione della personalità come opera poetica, filosofica e religiosa insieme, che noi dobbiamo costruire in noi approfondendo questo problema che siamo noi a noi stessi.»
L'uomo si trova così per Carlini al punto d'incrocio tra esteriorità ed interiorità, tra fatto e valore, tra mondo e Dio. Al crocicchio tra i due mondi, partecipa ad entrambi. In quello dell'esteriorità si muove attraverso le categorie formali e materiali della cononoscenza logica, e quindi del sapere scientifico; in quello dell'interiorità giunge a determinare i principi metafisici del mondo storico. Procede in ognuna di queste direzioni ma, è poi costretto ad arrestarsi di fronte al problema ed al significato della vita. Sia l'idea del mondo, sia l'idea della società nel suo divenire storico, fanno sorgere il bisogno di una spiegazione assoluta, il problema ineludibile (da considerare esigenza insopprimibile) del principio della natura e dello spirito.
Proprio sulla scia di Croce, Carlini vede nell'arte il distinto che esprime il senso spirituale del mondo e della storia. Ma essa rischia di dar vita ad un "mito estetico", un mito che può soddisfare solo il sentimento e non è in grado di offrire un fondamento alla ragione. A questo scopo, afferma Carlini, può rispondere solo la fede religiosa, la quale sola sa inquadrare i due aspetti del mondo, naturale e morale, in un ideale di verità e di bene.
Non si può, tuttavia, riconosce Carlini, passare dal problema filosofico della verità e del bene alla fede nella verità e nel bene senza un 'salto', il quale può solo realizzarsi seguendo l'agostiniano trascende et te ipsum. La fede, secondo Carlini, non è quindi un sentimento irrazionale, ma un razionalissimo bisogno che la stessa ragione identifica e giustifica.
Pietro Prini assegna un ruolo fondamentale nella conversione di Carlini dall'attualismo allo spiritualismo cristiano alla lettura di Maurice Blondel e mostra come fu lo stesso Carlini a riconoscerlo, citando: «Il punto fondamentale, ch'io presi da lui, fu il senso nuovo d'interiorità in cui mi si presentò l'atto gentiliano di un'interiorità ch'era drammatico problema di adeguazione di sé a sé e tensione continua di raggiungere tale adeguazione attraverso il mondo dell'esteriorità. L'incantesimo dialettico dell'attualismo gentiliano era, così, rotto irreparabilmente. Tutto il il mio lavoro posteriore sarà di giustificare quella rottura, ma il dado era tratto: io ne ero già fuori.» Se in Blondel la vera questione dell'interiorità era costituita dalla "sproporzione inesplicabile e sconcertante" tra l'effetto dei nostri atti e la volontà più intima, in Carlini questo terreno di riflessione, che ha radici nello stesso san Paolo, si rivolge decisamente al superamento della dimensione astratta, semplicemente dialettica, tra il Pensante e il pensato nell'Atto gentiliano. Essa torna ad essere una questione reale, frutto di una incompiutezza intrinseca al soggetto, che non può ambire ad essere veramente se stesso, anche nei suoi atti, se non in virtù di un Atto che lo trascende.

Michele Federico Sciacca, il primo Sciacca
Sulla stessa lunghezza d'onda del Carlini, almeno inizialmente, si trovò Michele Federico Sciacca, nato a Giarre il 12 luglio 1908, quindi più giovane del Carlini di trentanni. Anche lo Sciacca si formò nel solco dell'idealismo immanentistico, ma conobbe il pensiero di Antonio Aliotta, e successivamente maturò attraverso l'approfondimento di Platone, Agostino e Rosmini. Anche per Sciacca il problema centrale è quello dell'interiorità, quindi della coscienza. Ed anche per lui, l'attualismo gentiliano si rivelò insufficiente. Già nel 1934, dunque a soli ventidue anni, scriveva: Gentile « a forza di predicarci il concetto dell'interiorità ci ha indotto a scavare tanto in questa interiorità, fino a quando ci siamo accorti che un'interiorità che si esaursice in se stessa, senza rimandare ad una più comprensiva interiorità, non può risolvere proprio il problema dell'interiorità stessa.» (2)
Da questa insoddisfazione per l'immanentismo gentiliano venne dunque la spinta per un superamento. Che cominciò a prender forma attraverso un processo di integrazione delle dimensioni gnoseologiche, estetiche e morali, fino a sfociare nella dimensione più alta dell'integrazione teologica.
L'approfondimento di Platone, con l'opera La metafisica di Platone, del 1938, e di Rosmini, con il testo La filosofia morale di Rosmini, anch'essa del '38, condussero Sciacca a elaborare Teoria e pratica della volontà, sempre del '38. E' un lavoro che segna una svolta decisa in direzione di una metafisica morale di ispirazione cattolica. In essa troviamo l'affermazione recisa dell'esigenza metafisico-teologica: «... in Dio la volontà supera la sua insufficienza; in Dio si acquista la sua divina irrequietezza. Questa è la suprema finalità, il suo ultimo e primo amore: il resto è silenzio.»
Nel '41 uscirono I problemi di filosofia, opera in cui si trova la tesi secondo cui «i nostri limiti ci danno il senso della trascendenza». In essa si accenna ad una dimostrazione dell'esistenza di Dio centrata sull'argomento che «l'individuo - parlo dell'uomo - è il limite estremo delimitato: ma l'individuo come spiritualità lo sospinge oltre il limite della sua individualità empirica... alla spiritualità assoluta». Di grande interesse è l'ultimo saggio contenuto nel volume, intitolato Kant e la metafisica, Sciacca arriva speculativamente ad affermare che l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima non sono bisogni, ma doveri dell'attività morale. Il «bisogno è sempre un'esigenza psicologica soggettiva e non è possibile passare da questa alla realtà oggettiva.» E' da qui che si apre la via per una rifondazione della metafisica dell'essere senza rinunciare, e quindi senza prescindere, dall'interiorità come punto di partenza.
A Sciacca furono tuttavia rivolte critiche centrate sulla parola "esigenzialismo" che stimolarono l'autore stesso a superare ogni residuo psicologismo esigenziale.
Pietro Prini interpreta Sciacca come il filosofo che ha saputo assumere il tema dell'oggettività come il correlato fondante dell'interiorità, «salvando lo spiritualismo dalle frustrazioni irrazionali o fideistiche di un puro esigenzialismo.» (3)

Augusto Guzzo
Il terzo "grande" dello spiritualismo italiano fu indubbiamente Augusto Guzzo. Nato a Napoli il 24 gennaio 1894 e morto a Torino nel 1986, ebbe come maestro il neohegeliano Sebastiano Maturi, affine a Jaia e Fiorentino. La posizione del Guzzo è ben caratterizzata da Adriano Bausola che nel saggio Neoscolastica e spiritualismo (4) scrive: «Molti spiritualisti consideravano inscindibile la teologia naturale da quella rivelata, la riflessione filosofica su Dio dalla concreta, vivente esperienza religiosa, e quindi, si opponevano alla tomistica e neotomistica netta distinzione tra ragione e fede. Senza riconoscere un legame stretto tra i due momenti, l'uomo sarebbe apparso capace di buona vita anche in una dimensione religiosa solo "naturale", fuori della grazia, senza elevazione alla divinizzazione.
Così - prosegue Bausola - Carlini ribadì la sua antica convinzione sulla centralità della fede in Dio come Autocoscienza pura, e della dottrina cristiana dello spirito come interiorità di sé a sé, per spiegare l'uomo a se stesso, anche nella sua ultima opera, Le ragioni della fede, ma fu soprattutto Augusto Guzzo che, con profondità e costanza , mise a tema e sviluppò il motivo delle naturali aspirazioni dell'uomo al proprio infinito trascendimento.
Sono aspirazioni - conclude Bausola - che - pascalianamente - Guzzo trovava di fatto nell'uomo; sono aspirazioni che, essendoci, fanno sì che l'uomo non si trovi semplicemente dinnanzi la rivelazione cristiana come proveniente du dehors, come una cosa piovuta dall'alto, di cui l'uomo (se è capace di conoscere sufficientemente Dio con le sole sue forze) non sente di per sé l'esigenza.» Nello scritto del 1942 Il momento pascaliano della conoscenza Guzzo parla della celebre scommessa di Pascal in modo inedito. Non credere per un calcolo, in vista del possibile guadagno, ma come invito a decidere per Dio da cristiani. Questo decidere per Dio spiega quanto di buono e di grande c'è nell'uomo, ma può anche portare a comprendere quanto di negativo vi sia in esso depositato, laddove, rifiutando Dio, non si spiegano più il buono ed il grande.
Quello di Guzzo fu un idealismo umanistico, secondo Prini. Lo scopo del suo impegno filosofico è stata la chiarificazione dell'esperienza vissuta e sofferta dall'uomo concreto, in prima persona, ma nella trascendentalità del proprio "io". Ma differenza che in Kant, secondo Prini, il concetto guzziano del trascendentale non dà luogo ad una metafisica del soggetto, perché ha perduto i caratteri dell'oggetto: è lo stesso soggetto umano. In altre parole, l'io concreto, dice Guzzo, è concepito certamente come spirito, purché si eviti dare allo spirito dei tratti oggettivi.
«Se dunque - scrive Prini - per il Guzzo il vero trascendentale è l'io, che non è né oggetto né oggettivabile, il suo condizionamento degl oggetti dell'esperire dev'essere cercato nella sua stessa attività, nel suo essere un principio formante, piuttosto che un'oggettività già formata. La sua inoggettivabilità dipende dalla sua originaria ed incorcirscrivibile dinamicità.» (5)
Quella di Guzzo potrebbe così sembrare una semplice prosecuzione di Fichte e di Gentile. Per questo, egli sentì l'esigenza di smarcarsi da un simile accostamento, osservando con eleganza e vigore che: «Una simile ipostatizzazione è un tratto veramente barbarico di una mentalità mitologizzante che, dove trova una natura comune a un ordine di esseri, là finge una Sostanza o un Soggetto numericamente uno.» (6) Insomma, l'io si oltrepassa sempre, nel procedere, tanto che, afferma ancora il Guzzo: «Io non posso far esperienza di checchessia, seppellendomi nel suo ambito; l'io che esperisce trascende sempre l'esperito, e sia anche la vita stessa del suo spirito. Questo trascendimento pone, intorno a ciascun esperito, un alone di ulteriorità, che ha molti sensi, dal semplice desiderio e presentimento di altro ancora (tò mellon), a un'esigenza, oscura ma tenace, di pensare, giudicare, agire, quindi anche regolare l'esperienza nell'atto stesso di farla, come "si deve" (tò déon). Tò mellon e tò déon non solo s'intessono nella mia esperienza non meno del contenuto esperito, ma propriamente quel me al quale io rapporto l'esperito nel farne esperienza prende senso da ciò a cui miro e dalla regola o norma deontologica a cui (in qualunque forma essa mi si faccia presente, dalla coerenza scientifica alla legge morale), più o meno rigorosamente e più o meno consapevolmente, obbedisco.» (7)

Il neoplatonismo assiologico di Felice Battaglia e il personalismo estetico-religioso di Luigi Stefanini
Altre due figure caratterizzanti lo spiritualismo cattolico italiano furono quelle di Felice Battaglia (23 maggio 1902 - 1977) e Luigi Stefanini (3 novembre 1891 - 1956). Il primo tenne ferma, con Carlini e Sciacca, ed anche Guzzo, la lezione idealistica che escludeva l'essere in sé inconoscibile (la cosa in sé kantiana) e affermò la coestensione della coscienza-autocoscienza dell'essere; a Dio si può giungere - se questo Dio ha da essere il Dio dei cristiani, cioè il Dio Persona, partendo proprio dalla persona, e non dal mondo, perché il mondo non è che cosa. Luigi Stefanini venne ad aggiungere che «l'essere è personale e tutto ciò che non è personale nell'essere rientra nella produttività della persona e di comunicazione tra le persone.» (8) Con ciò non si vuol dire, ovviamente, che tutto l'essere è realtà soggettiva, ma solo, come sottolinea Bausola, che l'essere finito è per l'uomo, «come insegna un umanesimo che pone al centro dell'unverso finito la persona umana.» Per Stefanini, la persona umana è immagine di Dio, il quale si esprime nel mondo e quindi anche nell'uomo.
Continua Bausola: «Stefanini, che già tra le due guerre aveva sviluppato un suo immaginismo platonizzante (con la valorizzazione della mimesi platonica), propose nel dopoguerra un suo personalismo, in cui una sempre più viva ispirazione bonaventuriana (e, anzitutto, francescana) portava ad accentuare la positività del mondo e dell'uomo proprio per il loro esser immagini, segni (poi Stefanini avrebbe detto "parola") di Dio. Con ciò Stefanini anticipava alcuni motivi centrali del Concilio Vaticano II ... secondo una linea già avviata con un'opera, La Chiesa Cattolica, scritta sul finire della seconda guerra mondiale, nel 1944, quando la domanda sui fondamenti spirituali della ricostruzione, dopo il conflitto, incominciava a farsi pressante; questa linea sarebbe stata sviluppata poi soprattutto in campo estetico, pedagogico ed etico.» (9)
Battaglia, dal canto suo, mosse da una critica del neohegelismo italiano, al quale aveva inizialmente aderito, cominciando a constatare la «conversione di ogni naturalismo nell'idealismo e viceversa.» I casi più illustri di tale trapasso senza fine erano indicati non a caso in Aristotele e in Hegel, nel quale ultimo non fa meraviglia che «l'ultima frase dell'Enciclopedia hegeliana richiami la Metafisica aristotelica» perchè vi è identità tra lo spirito assoluto e l'atto puro, il quale senza passività risolve coincidentemente ogni naturalezza. Battaglia riconosce al neohegelismo crociano il grande merito di introdurre veramente la storia nel pensiero, ma l'opera di Croce lascia un interrogativo irrisolto: che cosa è il soggetto e che cosa è il predicato nella creazione della storia da parte dello spirito? Scrive Prini: «Non sono, né l'uno né l'altro qualcosa cui ci si possa affidare, un dato semplice da semplicemente assumere. Non c'è soggetto come fatto particolare di ogni possibile giudizio, che non sia "vario e cangiante, carico di tutte le inerenze e significante che noi possiamo di volta in volta attribuirgli". D'altro lato il predicato o concetto che si struttura nella distinzione dei quattro momenti - dell'utile e del bene, del bello e del vero - sempre conformi dello spirito, non c'è dubbio che prenda forma in noi, secondo il variare e l'arricchirsi del nostro modo d'intenderli, quei quattro momenti, che, anche al dire del Croce, "includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali".» (10)
Bausola afferma, tuttavia, che nel Battaglia «si ebbe un esempio tipico di equilibrio instabile tra esigenza religiosa trascendentalistica, cristiana, e attaccamento alle origini attualistiche: l'instabilità sembra, in Battaglia, prevalere sull'equilibrio, generando una sofferenza che uno stile magniloquente non riesce a nascondere.»
Tale sofferenza è in parte rintracciabile in quanto affermato da Prini. Cercando di conciliare storicismo e metafisica si trova a combattere tra "valore definitivo" fuori della storia e "valore realizzato" in un certo modo dalla storia stessa. E si trova a constatare che potrebbe non esserci assolutezza di valore né nella storia, né nella trascendenza. Si deve, dunque, fare strada un'idea di valore che rifiuti sia la sua oggettualità, sia il suo carattere di norma. Sono nozioni di valore del tutto astratte, che si ritrovano però nella neokantiana filosofia dei valori, in Windelband particolarmente. Per Battaglia, si può parlare di valori solo quando «lo spirito nei valori dissolve una realtà, quella già data e presupposta, della natura e un'altra ne avvia affatto diversa, la realtà di un mondo e della vita secondo valori.» (11) Quando scrive queste frasi, Battaglia ha già superato la dialettica gentiliana dell'autoctisi, ed anche il conflitto tra io e non-io di fichtiana memoria. La storia come realizzazione di valori nasce da una "dilacerazione", una "frattura" della originaria e primale unità della realtà e della vita", dilacerazione che è fuori della storia, e che può essere ritrovata "come la mèta cui ci si avvia e a cui si mira".

La filosofia del lavoro di Battaglia
Battaglia compose una Filosofia del lavoro che per prima si sottrasse, in Italia, ad influenze socialiste e marxiste. Uscì nel 1951, ed affrontava il lavoro da un punto di vista filosofico, tematizzando le questioni del lavoro nella sua realtà storica e nel suo concetto metastorico. Era un momento nel quale l'attualismo della metafisica dell'autocreatività, secondo Bausola, era ancora dotato di una spinta propulsiva ed entusiastica, ma Battaglia non potè evitare di confrontarsi con problemi reali quali la differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, il lavoro autodiretto e quello eterodiretto, gioioso o penoso, "interno" o "esterno"; problemi che Battaglia aveva saputo individuare ricorrendo allo studio di autori meno considerati e meno "frequentati" su un simile argomento.
L'approccio attualistico-spiritualista è certamente visibile in questo passaggio: «Quando il pensiero avverte che la natura, l'oggetto è per il soggetto, che questo acquista coscienza di sé, in quanto pone ed apprende l'oggetto, il lavoro appare suo attributo essenziale. Infatti sul nuovo piano non si dà una conoscenza che non sia medesimamente pratica, perché per conoscere l'oggetto pur porlo e apprenderlo, cioè sentirlo tale che sia in tutte le sue guise del soggetto che lo domina e lo trasforma, cosa sua attorno a cui si travaglia. La conoscenza implica la pratica e viceversa, in quanto lo spirito sia soggetto e oggetto, attività comunque. E' la riduzione dello spirito a pensiero e volontà, soggetto ed attività che conduce a dare significato al lavoro.» Ma questo tipo di approccio ispirato ai principi della "buona volontà" non poteva non sfociare in un confronto con le elaborazioni idealistiche e marxiste, con Hegel e con Marx., quindi con il problema della "resistenza" oggettiva che la natura, i materiali, l'insufficienza degli attrezzi o la mancata acutezza dei propositi ponevano ad ogni passo all'intraprendenza. L'oggetto del lavoro, sia come materia prima e necessaria, sia come prodotto, si pone, "duro e resistente" di fronte all'intelligenza e alla libertà dell'uomo. Bisogna dunque fare i conti con esso e con i tentativi di soluzione della questione del lavoro alienato elaborati da Hegel e da Marx. E inoltre occorreva risolvere, o comunque dissolvere, l'irriducibile opposizione che esistenzialismo e vitalismo presentavano al coscienzialismo ottimistico di Battaglia. Questi tentò, da ultimo, di riportare le aporie alla trascendenza e all'atteggiamento "esigenzialista", tema che abbiamo già visto sviluppato in Sciacca e in Guzzo.

L'interpretazione di Gentile da parte di Del Noce
Visti insieme, come s'è cercato di fare finora, i paradigmi della continuità e della rottura con Gentile da parte degli spiritualisti, possiamo ora concludere illustrando a grandi linee l'interpretazione che Augusto Del Noce (12) diede di Gentile da un punto di vista cattolico, ma non scolastico. In Gentile vi è una continuità di linea che comincia con Cartesio, prosegue con Malebranche, trascorre in Vico e, infine, rinasce nel pensiero di Gioberti e Rosmini. Da questi, arriva a Gentile.
La ristampa, nel 1943, del saggio giovanile del 1898 Rosmini e Gioberti, diviene per Gentile l'occasione per riproporre un'interpretazione del Risorgimento che Del Noce definisce altrettanto «intrinseca al suo pensiero di quel che lo fu il ripensamento della rivoluzione francese per i filosofi del pensiero classico tedesco». I filosofi cattolici del Risorgimento, prendendo atto del fallimento degli Enciclopedisti, ma non per questo potendo tornare indietro, mediante la pura restaurazione, proponevano di andare avanti, ma con giudizio, cioè recuperando l'autenticità della vita religiosa e la fondazione morale della vita sociale. Per Del Noce, la filosofia di Gentile deriva la sua ispirazione dall'idea che il Risorgimento fu "una vera e propria categoria filosofica", sia che si interpreti il confronto Gioberti-Rosmini come una disputa, sia lo si consideri una concordia discors. Gentile si sentiva, secondo Del Noce, il legittimo continuatore della tradizione filosofica risorgimentale, il quale, però, portando a termine le premesse su cui Gioberti aveva maggiormente insistito, quindi dissolvendo la gnoseologia intuitiva nella "autoctisi" del pensiero, arriverà alla totale immanentizzazione del pensiero religioso del Risorgimento.
Esso, in realtà, si era opposto ad una qualsiasi concessione di "realismo", quindi di empirismo, positivismo e materialismo, in quanto, in ognuna di tali correnti, è pur sempre presente il dato della realtà che "esclude la realtà del pensiero" stesso. Se l'attualismo era nato dal bisogno di riconoscere "realtà al pensiero", nel senso di volontà e di uomo portatore di moralità, per Del Noce era inevitabile concludere che tutte le tesi dell'attualismo «possono venire ridedotte da questa estensione radicale e portata alle conseguenze estreme della critica della teoria dell'intuito, così contro platonismo come contro empirismo.» (4)
Del Noce può allora osservare che, con Gentile, siamo di fronte ad una «vera teologia», «una 'teologia moderna', che segue ad una metafisica della mente anziché una metafisica dell'essere.» E, più propriamente, quella di Gentile si può definire «una filosofia che si fa teologia, segnando una via inversa a quella del pensiero medioevale che partendo dalla rivelazione e dalla teologia incontrava la filosofia». La teologia di Gentile si esprime nel «farsi di Dio nella storia» ed un Dio inteso come persona. Non si può dubitare di ciò. Nella Nuova dimostrazione dell'esistenza di Dio (1932), Gentile afferma che Dio-persona è immanente all'uomo e distingue tra diverse trascendenze. «C'è la trascendenza che sopprime o nega ogni rapporto tra l'esperienza e il trascendente, e implica quel dualismo che il cristianesimo, religione dello spirito, ha superato definitivamente. Dualismo assurdo, perché due cose senza rapporto fra loro sono una cosa e una cosa, non pensabili insieme per nessuna ragione e a nessun patto: cioè sono sempre una cosa sola e non due. E c'è la trascendenza che vuole il rapporto, ma anche che i due termini siano realmente due, e cioè non siano uno prodotto dell'altro.» Su queste basi, Gentile arriva a parlare del cattolicesimo, e quello più tradizionale, come della «mia» religione, non esitando a citare la dottrina giobertiana della poligonia del cattolicesimo. Essa, muovendo dal carattere universale della religione cattolica, ammette che si possono dare «tanti cattolicesimi quanti gli spiriti umani» in quanto proprio a cagione dell'universalità, il cattolicesimo sa «accomodarsi a tutte le tempre intellettuali, dal selvaggio al filosofo, senza dismettere però la sua unità.»
Del Noce vede in tutta l'opera gentiliana l'esplicarsi di un solo grande obiettivo: la riforma religiosa della coscienza nazionale italiana nel solco di Gioberti e Rosmini. Ma questa bella intenzione non poteva trovare rispondenza nel mondo cattolico. Gentile aveva sbagliato a rifiutare esplicitamente la storicità della rivelazione positiva. E, per di più, aveva osato intepretare la creatività di Dio come autocreatività, ovvero il suo infinito farsi uomo e mondo.

Evidentemente, sono tali ragioni, secondo Del Noce, più che sufficienti a motivare il distanziamento da Gentile. Se la creatività divina non è creduta come libero atto d'amore che cade dall'alto, ma come una sorta di autorealizzazione, il divino stesso non è più divino, ma solo un umano autodivinizzantesi.


(1) Pietro Prini - La filosofia cattolica italiana del Novecento - Laterza 1997
(2) M. F. Sciacca - La filosofia contemporanea - in "Ricerche filosofiche" fasc.I, 1934
(3) P. Prini - cit.
(4) A.Bausola - Neoscolastica e spiritualismo - in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
(5) P. Prini - cit.
(6) Augusto Guzzo - L'io e la ragione - Mocelliana 1947
(7) A.Guzzo - da Ricostruzione metafisica - citato da Prini in (1)
(8) L. Stefanini - Personalismo sociale - citato in A. Bausola (4)
(9) A. Bausola - cit.
(10) P.Prini - cit.
(11) F. Battaglia - I valori tra la metafisica e la storia - Bologna 1957 / I ed.
(12) A. Del Noce - Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea - Il Mulino 1990

DLG - settembre 2006