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Il declino dell'idealismo italiano e l'ultimo Croce
di Daniele Lo Giudice
L'idealismo filosofico in Italia non esiste più. Sarebbe prematuro e azzardato darlo per morto, non si sa mai. Tuttavia è un fatto che i libri di Croce e Gentile si trovino solo più sulle bancarelle dell'usato, o nelle biblioteche. Quanto a Hegel, si sa. Tutti potrebbero dire chi fu, pochi sanno dire che cosa veramente disse. E proprio questo è un concetto tipicamente hegeliano: essere famosi non equivale ad essere conosciuti. E proprio in campo filosofico si rivela una verità clamorosa, a volte amara.
Ora, è di un certo interesse riandare agli anni in cui l'idealismo declinò fino a scomparire, e perfino scoprire se mai sia davvero esistito un idealismo italiano, o in realtà non si diedero due distinte filosofie, solo apparentemente vicine: lo storicismo assoluto di Croce e l'attualismo di Gentile. Avvicinarle non è improprio, confonderle è un grave errore. L'ultimo Croce fu veramente anti-gentiliano. Chi è morto veramente, se teniamo distinte le due filosofie? Probabilmente solo l'attualismo gentiliano. Croce non si legge più, ma qualcosa della sua filosofia della storia ancora aleggia nella testa degli intellettuali, specie quelli di orientamento liberale, quelli che sanno che liberalismo non equivale a liberismo, e che Croce fu un liberale tanto anti-comunista quanto anti-liberista. Tale duplice antagonismo si spiega, in fondo, solo considerando che per Croce sia il liberismo che il comunismo sono filosofie materialistiche ed economicistiche. Si combattano, ma dicono la stessa cosa. Riducono la questione della libertà ad una questione economica, mentre il liberalismo è una filosofia, un atteggiamento vitale, un amore per la vita, un rispetto profondo per ogni individuale. Se questo è il messaggio fondamentale dell'ultimo Croce, questo tipo di idealismo non è allora veramente mai morto.

Storiografie all'ingrosso e storia da riscrivere
Si deve a Norberto Bobbio, al suo famoso intervento al convegno di Anacapri del giugno 1981, esattamente venticinque anni or sono, la denuncia di una periodizzazione utile ma arbitraria: non è del tutto esatto affermare che fu la fine della seconda guerra mondiale ad aver spaccato in due la storia del pensiero filosofico in Italia. Indubbiamente, torna comodo fissare questa data per avere un orientamento generale. Finita la guerra, finì anche il fascismo, incominciò un'altra storia. Tuttavia, così come le filosofie di Croce e Gentile avevano, nel loro insieme, cominciato a tramontare ben prima dello stesso inizio della guerra, così anche la sola filosofia di Croce continuò ad influire anche dopo la guerra.
Scriveva su queste questioni Eugenio Garin: «La prima epoca sarebbe stata caratterizzata da Croce e da Gentile ("i due grandi", secondo l'espressione di Bobbio), nel loro ambiguo rapporto con il fascismo, e con la chiusura "provinciale" della cultura filosofica nazionale al grande dibattito teorico europeo. Dopo la guerra si sarebbe aperto, invece, un periodo dominato da "filosofie militanti", ossia cariche di "impegno civile" ed estremamente politicizzate, tutte intente a una frenetica "sprovincializzazione" della filosofia italiana culminante in una attività combinatoria delle varie posizioni immesse nel circolo del pensiero nazionale, e attinte in prevalenza nell'area linguistica culturale dei paesi vincitori.» (1)
Marxismo, neopositivismo, esistenzialismo (e fenomenologia): questi gli orientamenti prevalenti. Se ben si guarda, tuttavia, nemmeno il neopositivismo appare pura espressione dell'area linguistica dei vincitori! Si ha piuttosto l'impressione che la Germania perse sì la guerra militare e politica, ma che l'altra Germania, finì col vincere quella culturale proprio grazie alla sconfitta militare del nazismo. In Italia venivano così messi da parte non solo Croce e Gentile, ma anche Spaventa, Rosmini e Gioberti. Senza che Cattaneo, Ardigò e Mazzini fossero in vario modo recuperati.
Il saggio di Garin, che seguiremo per qualche tratto, sembra sorto in vista dell'esigenza di distinguere con fermezza Croce da Gentile e le rispettive "fortune". Ci furono - evidenzia Garin - due idealismi. Erroneo parlare di "un" idealismo italiano, esagerato descrivere la fase pre-bellica come una dittatura dell'idealismo italiano. Secondo Garin, Croce aveva ancora qualcosa da insegnare alla filosofia italiana sia nel '45,ancora vivo, che quarant'anni dopo, nell' '85. Per questo, denuncia la lettura manichea della prima metà del Novecento italiano "che cancellava con una condanna indifferenziata le articolazioni di un passato non solo molteplice, ma scandito in periodi diversi, ciascuno con caratteri precisi." Tra i responsabili della formazione di un giudizio così sommario, Garin non esitava a indicare l'esempio di "uno studioso e un pensatore equilibrato come Remo Cantoni" che, sul "Politecnico" diretto da Elio Vittorini, aveva scritto: «L'idealismo italiano, nella forma che esso rivestì di spiritualismo storicista nel pensiero di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, dopo aver tenuto imperiosamente il campo della cultura italiana per parecchi decenni, dopo aver dominato nelle cattedre, nelle riviste, nelle case editrici, nelle coscienze, passa lentamente agli atti della storia.» (2) Cantoni si rendeva conto, secondo Garin, della componente passionale del suo giudizio. Infatti, lo stesso aveva anche scritto: «Non è possibile oggi pretendere di guardare la storia ideologica italiana con imperturbabile obiettività, quasi fossimo collocati su una stella lontana e indifferente.» (3)
Non piaceva a Garin, credo giustamente, la "gratuita corrispondenza tra dittatura politica e dittatura filosofica consacrata dalla trasposizione di termini di storia politica sul terreno della storia della cultura". Richiamando Gramsci, sarebbe forse stato più giusto parlare di egemonia culturale invece che di dittatura. Egemonia che, peraltro, Croce esercitò sempre da posizioni di minoranza, e mai contando sulla forza del "santo manganello" come Gentile. A Garin, inoltre, non sembrava corretto configurare il post-idealismo come anti-idealismo. «Si volle così dimenticare - osservava Garin - che quel mezzo secolo di cultura italiana era stato punteggiato da due guerre mondiali e dai contraccolpi della Rivoluzione d'Ottobre; che la riflessione filosofica si era misurata con tensioni politico-sociali di ogni sorta e si era intrecciata a uno sviluppo delle discipline storiche, filologiche e linguistiche di tutto rispetto; che si era misurata con movimenti artistici d'avanguardia; che aveva mantenuto fitti rapporti con settori non trascurabili del pensiero europeo. - e non solo europeo - anche se diversi da quelli impostisi più tardi alla fine della seconda guerra mondiale.» (4)
In definitiva, Garin invitava non solo a rifiutare una liquidazione sommaria dell'idealismo italiano, ma a meditare assai seriamente sul fatto che proprio gli esponenti più attivi ed interessanti delle nuove filosofie emergenti nel dopoguerra erano di formazione idealistica e che residui importanti di idealismo e di storicismo continuavano ad operare. E' un po' lo stesso ragionamento che si potrebbe fare oggi nei confronti degli ex-marxisti, dei postmoderni, e perfino dei postpopperiani.
Quasi sulle stesse coordinate gariniane troviamo Norberto Bobbio, che sfogò molte delle sue perplessità rispetto all'interpretazione dominante dell'idealismo italiano. Bobbio era insoddisfatto del terminus ad quem, anche se, come ricorda Garin, "lo storico non essendo astrologo, non può non fermarsi al presente". Il punto dolente stava però nel terminus a quo,ovvero nella scelta della fine della seconda guerra mondiale come evento capace di spezzare le correnti del pensiero filosofico e delle dinamiche culturali. Per Bobbio era chiaro che la storia delle idee e la storia dei fatti non corrono sul medesimo binario e alla stessa velocità. L'idealismo italiano aveva cominciato a perdere colpi ben prima, ma non era morto con la fine della guerra. Così Garin: «In realtà Bobbio si rendeva conto della necessità di scandire e periodizzare già la famigerata "dittatura" idealistica, mettendo a fuoco le molteplicità delle sue crisi, la relatività delle sue chiusure, il fatto che correnti poi lungamente fiorite dopo gli anni Quaranta, quali, ad esempio, l'esistenzialismo e il neopositivismo, erano venute emergendo ben prima della seconda guerra mondiale, variamente confrontandosi con posizioni da tempo affermate.» (5)
Anche Gramsci sarebbe emerso, come teorico della politica e storicista marxista, solo nel dopoguerra. Sia per Bobbio che per Garin, le cui parole riporto, "è proprio attraverso il serrato discorso di Gramsci che tutto il modo di intendere il marxismo e l'hegelismo acquista sapore". In Italia il neokantismo fu sempre periferico e il "socialismo della cattedra" non arrivò praticamente mai. Anche per questo Hegel fu così importante per Croce e Gentile, e Kant molto meno. Anche per questo fu Hegel a trapassare nel marxismo italiano storicista, e non solo come "culmine" della filosofia borghese e consapevolezza delle leggi della storia. Garin evidenzia, in proposito, il doppio filo che lega tutti gli autori citati, da Croce a Gramsci, da Gramsci a Gentile. Croce per un verso e Gentile per l'altro erano stati propulsori di una rinascita e di una "correzione" di Hegel in Europa. Sapevano bene quale fosse il posto che spettava ad Hegel nel processo di formazione della coscienza contemporanea. «Mentre Bergson - osserva Garin - non esitava a confessare, oltre una completa ignoranza, una totale estraneità nei confronti dell'hegelismo; mentre almeno alcuni degli hegeliani inglesi restavano singolarmente arcaici; lo Hegel di Croce e quello di Gentile, non solo riproponevano nodi teorici fondamentali, ma avviavano interpretazioni e proposte di non piccolo interesse. E se alcune "riforme" dialettiche potevano essere considerate da diversi punti di vista di configurarsi come "controriforme", o riforme mancate, è pur vero che si incontravano con istanze destinate a fermentare a lungo in Europa, e a riemergere di continuo.» (6) Lo stesso Jean Hyppolite, grande diffusore e interprete del pensiero hegeliano in Francia, ricordava negli anni Sessanta, che in Francia: «... fin quasi alla seconda guerra mondiale [...] ci si iniziava a Hegel proprio sulle pagine crociane.» (7)
Insomma, ci è lecito pensare, a questo punto, che, diversamente da Gentile, almeno Croce non sia tramontato con la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo. Era finito il suo idealismo, ma non il suo storicismo assoluto.

Croce antifascista, filosofo della libertà
Bobbio fu lapidario: «Tra il 1925 e il 1940 infatti fiorì la seconda, e più ricca e rigogliosa, stagione del lungo magistero di Benedetto Croce, che fu coscienza morale dell'antifascismo italiano, non tanto come restauratore dell'idealismo (che era ormai morto avendo lasciato il posto allo storicismo assoluto, quanto come filosofo della libertà.» (8) Questo sviluppo in direzione morale della filosofia di Croce va spiegato. Bobbio sostiene che il pensiero di Croce oscillò continuamente tra due polarità: da un lato la concezione delle attività economiche e politiche autonome rispetto alla morale, e dall'altro l'affermazione della libertà intesa come forza morale vera e propria. Se negli anni precedenti il 1925 Croce aveva privilegiato il primo momento, fino ad esaltare lo stato-potenza, dopo quella data promosse l'ideale della libertà dell'individuo privilegiando la libertà stessa come forza morale e responsabilizzante. Scrive Bobbio: «Sino a che la libertà non era stata minacciata, il liberalismo di tradizione e di temperamento che sonnecchiava in lui si era limitato a dare qualche sussulto, come in occasione della memorabile sfuriata contro i nazionalisti. Instaurata la dittatura, l'afflato o sentimento liberale si trasformò a poco a poco in una teoria del liberalismo, dando luogo ad una vera e propria concezione della storia come libertà. Croce stesso fece capire che sino allora era stato un liberale inconsapevole. Ma di fronte al nuovo regime e alle storture filosofiche e storiche che i suoi zelatori, a cominciare da Gentile e dai gentiliani, andavano propagando, occorreva metter mano con rigore al metodo della distinzione che non fallisce mai, e dar la caccia severamente a ogni confusione ridando a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio.» (9)

Così, mentre da un lato Croce scriveva il Manifesto degli intellettuali antifascisti, dall'altro componeva la postilla Liberalismo. Pressochè contemporaneamente, Guido De Ruggiero, allievo di Gentile, pubblicava da Laterza La storia del liberalismo europeo, segno che anche al di fuori dell'orbita crociana si andavano destando diverse coscienze e che persino l'albero gentiliano produceva ancora qualche frutto.

Bobbio sostiene che Croce mise a punto la sua posizione attraverso la denuncia di tre errori fondamentali della filosofia di Gentile. Il primo era quello centrato sul fascismo come realizzazione del liberalismo. Ora, a noi ciò sembra banale, ma al tempo in cui Croce scriveva La storia d'Italia dal 1871 al 1915, e poi La storia d'Europa nel sec. XIX, i gentiliani proprio questo andavano predicando con grande serietà e convinzione, in una situazione nella quale le nuove generazioni non avevano alcuna idea di cosa fosse la cultura liberale.
Il secondo errore stava nella concezione dello "stato etico", una concezione grossolana «mal ricavata dal pensiero hegeliano o desunta dalla parte più contestabile di esso, impedantita dai trattatisti tedeschi, ripetuta con pia unzione ma senza critica dagli hegeliani italiani...» (10)
Il terzo errore era più grave, insieme teorico e storiografico. I gentiliani affermavano infatti che il liberalismo prodotto dall'utilitarismo e dall'individualismo era ormai morto. E qui è interessante riportare per intero la considerazione di Bobbio: «Fu nella confutazione di questo errore che Croce si elevò a una visione globale della storia in cui il liberalismo non è più un'ideologia in mezzo ad altre ideologie, ma è l'ultimo approdo del pensiero moderno che offre alla storiografia un criterio di interpretazione storica - il progresso della storia coincide con l'avanzamento della libertà -; all'azione pratica, un ideale morale - la libertà come principio universale non particolaristico di azione politica -; alla realtà stessa, che è storia, la spiegazione della sua forza creatrice la libertà come soggetto della storia. Come concezione totale della storia, come ultimo prodotto della filosofia immanentistica e storicistica, non più superata dalle filosofie successive, come concezione metapolitica, il liberalismo dunque non solo non era morto ma non poteva morire ed era destinato a vivere anche quando sembrava più conculcato, a rinascere quando sembrava più frainteso e negletto.»(11)

Anticomunismo e antiliberismo, cioè antieconomicismo e antiutilitarismo: un liberale senza teoria
Secondo Corrado Ocone, non è vero che l'antiliberismo di Croce nasca da una vecchia e "aristocratica" sottovalutazione del distinto economico. «Il paradosso - scrive Ocone - è nel fatto che il filosofo napoletano, a torto o a ragione, riteneva di essere stato originale su un solo ed esclusivo punto: l'introduzione nel "sistema" filosofico, dell'Utile come valore, come quarta "cetegoria" rispetto a quelle classiche presenti nella storia della filosofia: il Bello, il Vero e il Bene. E, in effetti, tutta la sua opera, filosofica e non, è piena di riferimenti positivi al momento economico: una categoria che, a un certo punto, sembra divenire quasi un ricettacolo di ogni forma di vita, sembra cioè slargarsi fino a inglobare ogni altra parte del sistema...» (12) Tutto questo è certamente vero, ma non tocca il punto centrale della posizione crociana, la quale contempla dall'alto, cioè da una postazione esistenziale aristocratica, l'umano affaccendarsi per conseguire l'utile dell'egoista liberista, o l'uguaglianza economica dei socialcomunisti. L'Utile è importante, ma proprio perché importante, non può oscurare la pienezza dello spirito umano. A giudizio di Croce, comunismo e liberismo sono figli della stessa madre degenere materialistica, ed il liberalismo è un'altra cosa. Cos'è? Ocone scrive pagine molto suggestive. In Croce, non solo non c'è una teoria dello stato, ma non c'è alcuna teoria. «"In positivo" non c'è nulla di nulla. Tanto che se proviamo a ragionare sul "ti esti" di cui prima, dobbiamo ammetterlo, ci ritroviamo in mano con un pugno di mosche. Ma non di insufficienza si tratta, a mio avviso, ma di qualcosa di voluto. In Croce c'è infatti, con consapevolezza, questa mancanza di teoria. O, meglio, c'è in lui la teoria del liberalismo senza teoria. Tutte le volte che pur vorrebbe definire con concetti il liberalismo, Croce non può che far riferimento a sentimenti, a immagini, a emozioni, tutt'al più, ad artifici retorici. Tanto che se con semplicità egli può dire ciò che il liberalismo non è, (e il suo è, in questo senso, un liberalismo terapeutico), è pur vero che quando si tratta di affermare l'essere egli non può che dire che "per ogni parte lo si conduca, il discorso torna sempre alla disposizione degli animi, al fervore e all'amore".» (13)
Non c'è dunque la teoria dello stato, quindi nemmeno lo "stato minimo" vagheggiato più di recente. Ocone conclude su questo punto, che privo di una teoria dello stato, il liberalismo di Croce, "senza teoria", "terapeutico", "culturale", diventa anche "tragico". «Tragedia, ma nel senso etimologico e greco della parola. Tragedia, cioè, come inconciliabilità. E ciò come conflittualità permanente, intrinseca, costitutiva, non tanto e non solo della società (per forza di cose liberale) quanto dello stesso individuo che ne è parte ("in causa", è "maschera"). L'individuo che non è affatto, pertanto, un in-dividuo (cade quindi un altro presupposto del liberalismo banale). Ma è come percorso e agito da due nature opposte e distinte, di cui l'una prende forza e vigore dall'altra. E non può farne a meno senza sconfessare il tutto. Cioè la vita.» (14)

(continua)

(1) Eugenio Garin - Agonia e morte dell'idealismo italiano - in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - AAVV Laterza 1985
(2) Remo Cantoni - La dittatura dell'idealismo - "Il Politecnico" n° 37 ottobre 1947
(3) Garin - idem
(4) Garin - idem
(5) Garin - idem
(6) Garin - idem
(7) G.Pagliano Ungari - Croce in Francia. Ricerche sulla fortuna dell'opera crociana - Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1967
(8) Norberto Bobbio - Profilo ideologico del Novecento italiano - Garzanti 1990
(9) Bobbio - idem
(10) Benedetto Croce - Lo stato moderno e le polemiche liberali in "La Critica" XXIII - 1925 e poi in Conversazioni critiche, vol. IV
(11) Norberto Bobbio - Profilo ideologico del Novecento italiano - Garzanti 1990
(12) Corrado Ocone - Benedetto Croce / Il liberalismo come concezione della vita - Rubettino 2005
(13) Ocone - idem -
(14) Ocone - idem -

DLG - 2 agosto 2006