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Teorie come vivere
Universali, Leggi, Teorie
di Ezio Saia

Le leggi generali e, in genere, le espressioni quantificate sono compendi di informazioni? Assolvono solo una funzione economica? La questione non è da poco, se si pensa che coinvolte non sono solo le leggi scientifiche, ma problemi delicati e vitali quali l’omologazione del singolo al gruppo inteso come totalità.
Tutto il nostro vivere ne è coinvolto; tanto quello ‘intellettuale’ quanto quello quotidiano; avere un’abitudine significa, infatti, comportarsi in conformità ad essa e questo sottintende o è descritto da forme del tipo: “Tutte le volte che mi trovo in queste situazioni. agisco in questa maniera”. Una trattazione delle leggi universali ed esistenziali deve, dunque, in qualche modo coinvolgere e tenere conto di tutte le sfaccettature e le maschere sotto le quali esse si presentano.
L’interpretazione delle espressioni quantificate divenne nella prima metà del ‘900 per molti pensatori un’ossessione. Esemplare, a questo proposito, è il percorso di Ramsey che, inizialmente, ispirandosi alle teorie del Tractatus, aveva proposto di interpretarle come congiunzioni o disgiunzioni di proposizioni calcolabili e decidibili come vere o come false. In seguito rinnegò questa impostazione: constatato che (x)fx non può essere scritta come congiunzione se non in caso di classi finite per le quali si disponga di una regola applicativa, si rese conto che un'espressione contenente "tutti…" si presenta come “una carta geografica estesa all'infinito che non potrebbe né essere letta né seguita per cui un nostro qualsiasi viaggio sarebbe finito prima che avessimo bisogno delle parti più remote”.
Ramsey, però, era ben cosciente che, per poter pensare le proposizioni in termini di verità o falsità, bisognava per forza pensarle come congiunzioni di proposizioni, anche se come tali non potevano essere espresse.
Le ragioni “teoriche” pro e contro sembravano dunque inconciliabili, se ci si ostinava a considerarle in termini di verità. Ramsey abbandonò questo punto di vista e propose di interpretarle, non come proposizioni, ma come regole per formare proposizioni, Se le espressioni quantificate non sono giudizi ma regole per giudicare e, quindi, schemi d'orientamento nel mondo, un problema di verità non si pone; come schemi e regole di formazione, passando dallo statuto teorico a quello pratico, dal sistema delle verità a quello delle credenze, non possono essere né affermate né negate, ma solo “adottate o respinte”;
Queste conclusioni rafforzano un’interpretazione delle teorie come sistemi di orientamento per il nostro vivere nel mondo e ci spingono verso territori, quali l’operare quotidiano e il nostro passato storico-biologico, entrambi lontani da quelli abitualmente assegnati alle teorie.
Di fatto teorie e preteorie regolano la nostra vita e l’hanno sempre regolata anche quando il termine “teoria“ neppure esisteva. Posiamo una mela sul tavolo e siamo certi che questa non sparirà né si fonderà con esso. In sostanza agiamo in coerenza con regole, con teorie, con saperi certi e con ‘probabilità a priori’ di tipo abitudinario sopravvenuti come strumenti per affrontare il futuro, del cui stato non siamo neppure coscienti.
All’inizio di questo secolo, la quasi totalità dei pensatori era ossessionata dall’idea di dare oggettività al sapere probabilistico. Keynes, addirittura, teorizzava che esistessero nella realtà relazioni logiche di probabilità fra proposizioni, che tali relazioni fossero accessibili e che, infine, questa accessibilità costituisse la corrispondenza tra gradi di probabilità e gradi di credenza. Più credibili erano le teorie frequentiste che basavano il grado di probabilità su frequenze statistiche. La teoria funzionava in molti campi, ma era del tutto impotente in relazione all’assegnazione di probabilità a eventi singoli.
Che l’agire e il decidere umano, in condizioni di incertezza, fossero conseguenti alle credenze probabilistiche era ovvio per tutti, ma prevaleva l’idea che queste credenze si basassero su qualcosa di reale e di oggettivo. Né andava diversamente per l’induzione. Hume aveva dimostrato l’irriducibilità del processo induttivo alla logica formale. Tutti i tentativi per demolire gli argomenti di Hume, anche quello di Kant, non avevano avuto successo, eppure l’opinione che la logica induttiva dovesse trovare una sua fondazione “razionale”, per il bene stesso della “razionalità”, era così forte che gli insuccessi gettavano nello sconforto i loro sostenitori, ma non li inducevano a ripensare l’obiettivo. Broad giunse a dichiarare che il problema irrisolto dell’induzione era uno “scandalo della filosofia” e Russell che senza soluzione a questo problema “non si dà alcuna differenza intellettuale fra normalità e pazzia.”

Le teorie come soggetti
La soluzione allo ‘scandalo’ non andava cercata in una dimensione di verità inumane ed eterne, ma in una dimensione antropologica, trasferendo l’indagine dal sistema delle verità a quello delle credenze. Non: “perché l’induzione è vera?”, ma: “perché e in qual misura crediamo nell’induzione?”

Anche se l’uomo crede nell’induzione “in modo abitudinario” e non intellettuale, altrimenti non sarebbe sopravvissuto, anche se più che i concetti di “verità” o di “realtà” sono interessati piuttosto quelli di “utilità” e di sopravvivenza, si constata che il concetto di verità è così coercitivo e radicato, da non poter essere estromesso da quel paradigma che costituisce, nello stesso tempo, il mondo e il nostro vivere nel mondo. Noi abbiamo bisogno di decidibilità e il linguaggio di verità ci offre proprio quell’articolazione di certezze per muoverci in quel mondo da esso stesso colonizzato.
Parliamo di probabilità e ci esprimiamo con proposizioni vero-decidibili, parliamo di generalità e ci esprimiamo con proposizioni vero-decidibili. La nostra spinta sul linguaggio e sul mondo si esprime proprio in quella direzione vero funzionale di un mondo finito e di un’unica tautologia che lo organizzi. E’ l’organizzazione di decidibilità a garantire il nostro orizzontarsi vincolando ad essa e a qualsiasi prezzo, la forma linguistica. Non sappiamo che numero uscirà gettando i dadi, ma inventiamo il concetto di “probabilità” e su questo costruiamo connessioni di teorie per poterci esprimere con proposizioni del tipo “La probabilità che esca il 6 è pari ad un sesto” che, essendo decidibili come vere o come false, possono costituire un frammento di tautologia totale. Lo stesso si può dire delle asserzioni di generalità. I connettivi sono i testimoni della spinta linguistica a creare tutte le possibili risorse per ridurre ogni informazione a proposizione decidibile.
Parlare dell’“utile” come criterio di validità sostitutivo del vero appare del tutto insoddisfacente anche perché non sappiamo bene cosa si intenda con questo termine. Eppure l’induzione non è che uno dei brandelli teorici di cui ci fidiamo perché ci è utile e vitale. Ci fidiamo della nostra vista, del nostro udito, della nostra memoria, dell’esistenza del mondo, della sua costituzione, e dell’esistenza di una verità. Lo facciamo perché ci è utile, perché, se non lo facessimo, saremmo paralizzati, perché il mondo ci apparirebbe come un pauroso, doloroso, mortale groviglio inestricabile. Qui non è in gioco un calcolo di utilità secondarie, ma la nostra stessa possibilità di vivere e sopravvivere, soprattutto in riferimento al nostro passato biologico più antico, poiché, se non si fossero formate queste forti credenze abitudinarie, noi, oggi, non saremmo.
Certamente memoria, vista, udito possono ingannarci, ma nel lungo cammino evolutivo e culturale abbiamo imparato a cautelarci. Lo abbiamo imparato così bene e con risultati così vantaggiosi che il fidarci dei sensi e della memoria sono divenuti comportamenti e saperi abitudinari e preteorici.
La credenza abitudinaria nei nostri sensi, l’induzione, l’esistenza di un mondo, di un soggetto, di una relazione di verità, di un ordine e di una verità sul mondo, con tutti i loro relativi corollari di assimilazioni teoriche, sono da un lato abitudini e, dall’altro, teorie. Esse vivono dentro di noi indipendentemente dalle riflessioni “culturali” sopravvenute quando ormai tali credenze si erano strutturalmente assestate come porte di accesso al mondo e come sistemi d’orientamento per il nostro vivere: un mondo da esse colonizzato che si presenta a noi con i suoi oggetti e i suoi eventi connessi in una fitta e inestricabile matrice di anticipazioni teoriche. Alla base del nostro agire sta un coacervo di saperi abitudinari e preteorici che costituisce il nostro paradigma fondamentale.
Vivendo la vita e il mondo, viviamo teorie. Se i sensi sono per noi coercitivi, non meno lo sono le teorie connesse. Antiche teorie e antichi saperi assumono il significato di paradigmi generali di comportamento come metaforiche rotaie che percorrono il mondo e ci costringono su di esse, anche se intellettualmente non ne abbiamo mai conosciuto l’esistenza.
Questo significa anche ricercare la preistoria biologica che è in noi, dove non sono solo le teorie che abbiamo elaborato e collaudato secondo canoni intellettuali a poterci illuminare. I nostri saperi preteorici e biologici dobbiamo trovarli in quel mondo di “oggetti” e di “fatti "che si offrono a noi come forme solide, eterne e stabili di riferimento. Esistenze che mai ci tradiscono. Nel mondo degli oggetti e dei fatti troviamo le tracce di una colonizzazione lontana, troviamo i presupposti di quel nostro sapere antico, consolidato verbale e preverbale, ma comunque teorizzante, su cui tutti gli altri saperi si appoggiano: quelle rotaie su cui scorrono tutte quelle che, restrittivamente, oggi chiamiamo “teorie”, tutti quei comportamenti e quelle abitudini che classifichiamo come "istintivi" e "innati". Sono teorie che ci vivono in maniera così coercitiva da non permetterci di affermare che noi viviamo in conformità a esse. Le teorie sono e assumono il significato di Soggetti Attivi.
La primitiva domanda che recitava: “Come decidiamo della bontà delle teorie?” non ha perso la sua attualità, ma ha cambiato il suo senso. I primitivi interrogativi sulle teorie che riguardavano problemi circa la natura teorica, le condizioni di verità, la natura ontologica si sono rivelati non pertinenti, hanno cambiato forma e riguardano ora l’estensione, la funzione e il senso delle teorie e dell’agire teorico nel nostro vivere, da ricercarsi nelle loro genesi come Soggetti.

Assegnazione al passato del senso del vivere teorico
Il senso del nostro essere nel mondo come viventi è assegnato al dispiegarsi del nostro passato; non ad un singolo cominciamento nel passato e neppure al passato “storico” depositato nei documenti e nelle narrazioni. Quest’ultimo presuppone un linguaggio e dei sistemi di rappresentazione nei quali già è depositato un vincolante sapere preteorico; quindi una grammatica del senso e la costituzione di un mondo di oggetti, di eventi e di gerarchie che costituiscono un paradigma. La ricerca del senso del nostro vivere va ricondotto non solo al passato storico, ma al passato “biologico” dell’uomo mammifero, rettile, pesce, avendo come punto d’approdo il ritrovamento del senso del nostro operare informatico, scientifico assimilatorio.

Bisogna procedere lungo la strada dei bisogni. Perché abbiamo bisogno di teorie? Perché non possiamo vivere senza? Cosa ha indotto l'uomo nel suo percorso evolutivo a produrre teorie e a divenire l'uomo informatico? Se teorizzare vuol dire assimilare e assimilare vuol dire da una parte conquistare, ma dall'altra perdere il mondo, perché l'uomo ha intrapreso questa strada informatica di perdita/conquista e non quella di comunione col mondo? Certamente l'uomo non ne occupa una nicchia né lo contempla: la sua apertura verso di esso è di assimilazione, di utilizzo e di tirannia.
Questo è il vivere che la nostra biologia ha adottato? Siamo noi ad aver selezionato queste abitudini? O sono esse ad averci selezionato e a viverci?
A questo punto una concezione delle teorie come sistemi d'orientamento appare troppo riduttiva. Non appena, però, si approfondisce la “minimalità” di questo senso, ci si accorge che è tutt'altro che minimale. Se l’insieme dei giudizi, delle paure, dei pregiudizi costituisce la casa simbolica trasmessaci dalla nostra cultura, l’assimilazione del mondo costituisce in senso ampio, la casa simbolica trasmessaci dalla nostra stirpe; un assimilare e rendere compatibile al nostro essere nel mondo l'essere del mondo esterno; un mondo esterno che, se non assimilato, se non mappato, ci appare incomprensibile e minaccioso. La mancanza di informazioni costituisce per noi l'ignoto, l’imprevedibile, la paura. Dobbiamo vivere e agire senza poter anticipare gli eventi, mentre intorno a noi le cose si evolvono incomprensibilmente, generando situazioni che percepiamo come ostili, pericolose e aliene.
Il disordine, l’incomprensione e la minaccia sono nel nostro sangue connessi al dolore, alla menomazione e alla morte, secondo una teoria che ci vive e che è costitutiva del nostro vivere. Le teorie sono le nostre difese. Rappresentano l’attività di trasformazione dell’incomprensibile in comprensibile, del caos in progetti di sicurezza. Così noi mutiamo un mondo, pericoloso, ostile e indifferente per disporlo di fronte a noi come domato, usabile e benigno. Il teorizzare viene ad assumere il significato “forte” di costruzione di mondi sicuri.
Una teoria funziona quando migliora il nostro muoverci in sicurezza nel mondo. Muoverci in sicurezza significa evitare situazioni di pericolo, portatrici di dolore. Sentiamo il dolore e soffriamo, ma non ci limitiamo a soffrire. Sappiamo che il dolore è un messaggio di pericolo e una richiesta di manutenzione. Ce lo dicono oggi esplicitamente le teorie biologiche, ma il nostro sangue lo sa da sempre; questa conoscenza è anch’essa un sapere preteorico, antico, strutturale e coercitivo, senza il quale noi non saremmo.
Il messaggio di dolore è anche un messaggio di morte, un messaggio che, trascurato, elimina il nostro vivere. Questo non vuol dire che il senso del nostro vivere deve essere rinviato a quell’evento totale che è la morte. Attribuire a un evento, nel suo essere terminale di una catena di connessioni, la proprietà di assorbire su di sè la totalità del senso, è un errore paradigmatico, così come, in altri tempi, lo era quel rinvio del senso del vivere umano alla causa prima, identificata in un dio motore o creatore. Il senso va invece rinviato a quel percorso di evoluzione dell’uomo dominatore, alla storia di quell’essere che si prefigura e si destina immortale sulle morti di noi singoli mortali, a quella colonizzazione del mondo che ci vive, a quel coacervo di preteorie e comportamenti che costituiscono il mondo; una storia a cui il nostro essere come individui e come stirpe è assegnata nel generarsi dei sensi.

Il fondamento
L’esistenza di un mondo e di una verità sul mondo costituisce il fondamento del paradigma verticale. Un fondamento lo esigono la sua funzione di casa sicura, di sistema d’orientamento, la forma del paradigma che procede per catena di cause, di derivazioni, di subordinazioni e la sua semantica che trovando la distribuzione dei propri sensi nelle connessioni di teorie e preteorie genera costantemente quel rinvio di senso che ha anche la funzione di delega di responsabilità.
Quello stesso paradigma che per esistere come tale esige un fondamento e, nello stesso tempo, per la sua struttura proliferatrice all’infinito di teorie e di deleghe di senso, nega il fondamento. Il paradigma è in se stesso, nelle sue basi di senso, contraddittorio.
La ricerca del fondamento di senso ci spinge o verso l’informazione, alla ricerca di una differenza significativa, o verso ciò che non è teoria.
La seconda è la via di ritrovamento del mondo che si appella ai dati sensibili. La sua base è la coercitività dei sensi, almeno in quelle forme più brutali di dolore e di piacere, che, nel loro essere patite come esterne, appaiono come certamente reali e immuni da ogni contaminazione teorica. Anche qui l'obiettivo è quel mondo oggettivo delle cose e degli oggetti, che da un lato si vorrebbe precategoriale, mentre dall'altra si vorrebbe solido, reale, completo di tutti quegli oggetti che sentiamo pesanti o leggeri, taglienti o non taglienti, caldi, o freddi, e che, in ogni caso, indifferenti a tutte le nostre angosce, alle nostre pazzie e ai nostri sogni, sono sempre lì, nel perdurare della loro solidità, a offrirci quell'ancora di salvezza che mai ci ha abbandonato. Se gli oggetti sono geneticamente teorici, le sensazioni di dolore e di piacere sembrano pure e immuni da contaminazioni teoriche.
Qui ci attende però una delusione che, del resto, tutta la nostra storia, tutto il nostro teorizzare, tutta la nostra esperienza, hanno già prefigurato come una sconfitta. Già la multiformità delle idee sulla realtà indica stratificazioni culturali o teoriche, a cui neppure la coercitività delle sensazioni sfugge; tutto assume il senso di segnale d’informazione; anche quelle sensazioni fisiche di dolore, che parevano all'esperienza ingenua dolori e basta, ora assumono l'abito dei segnali che stanno per sofisticate informazioni di manutenzione, organizzate in feedback. L’uomo che non sente il dolore non sopravvive e l’uomo che non sentì il dolore non poté sopravvivere. Senza un sistema organizzato di segnalazione di guasti non si esegue manutenzione e, senza manutenzione, si muore. Il dolore ci giunge con connessioni parallele di pericolo, di paura, di manutenzione in un coacervo di messaggi che testimoniano forme di anticipazioni e connessioni teoriche.

Anche la ricerca di un fondamento, in una differenza così significativa da essere fondante, non porta in alcun luogo Un mondo da ritrovare non c’è, come non c’è una fondazione di cominciamento come suggerirebbe l’assegnazione al passato. Anche qui la tentazione è quella di ripercorrere un viaggio a ritroso alla ricerca di quel fondamento che diviene fondamento di esistenza, di senso e di verità. Ma vanamente noi ripercorreremmo la nostra storia biologica alla ricerca del sopravvenire di quella singola differenza che possa darci il fondamento di significato. Il processo logico di questo percorso non può che, di differenza in differenza, sfociare nell'indifferenziato totale in cui non c’è alcun principio di senso. Se si accetta poi che il sopravvenire delle differenze (come recita Darwin) sia casuale, scompare anche l'idea di fondamento come causalità per via gerarchica, per cui il nostro essere si consegna veramente a una storia senza un cominciamento che possa illuminare il senso del nostro vivere.

Il mondo come stratificazione di teorie
Insomma non si riesce a toccare il mondo; anche il mondo è teoria; non una teoria, ma un agglomerato stratificato di teorie. Come se tutto ciò che chiamiamo mondo, nella sua multiformità di volti, ivi compreso quello della molteplicità di oggetti, non fosse che un'altra rassicurante casa simbolica, quella stessa che la specie ha codificato come bussola fondamentale di funzionalità. Il “nostro mondo” è una stratificazione di teorie, è la casa simbolica della “nostra” stirpe.
Non a caso non si deve parlare del mondo come di una teoria, ma di molte teorie stratificate, in parte alternative, in parte neppure comunicanti. Una sola teoria non potrebbe essere la teoria né potrebbe essere il mondo, per l’intrinseca +natura funzionale delle teorie. Proprio per questa molteplicità le teorie manifestano il loro carattere di adattamento e funzionalità, di provvisorietà e scelta. La complessità e la molteplicità del vivere esigono più di un sistema d'adattamento, più di un sistema di orientamento. Non una casa, ma molte case, non un solo abito, ma molti abiti, non una sola corazza, ma molte corazze; una molteplicità di teorie che ci abitano come soggetti ordinatori della nostra vita. Il mondo come casa simbolica, gli oggetti come costrutti teorici si presentano come l'esterno già colonizzato dalle teorie del nostro passato biologico-teorico.
Il mondo è un coacervo di teorie stratificatosi come casa simbolica totale. Le teorie sono tendenzialmente assestate secondo organizzazione unitaria perché, solo così connesse, possono costituire quello che può costantemente ispirare e dar luogo a un comportamento che comunque, vivendo, decide. Questo non potrebbe certo accadere entro una pluralità disorganizzata di sistemi d’orientamento.
Assestamento unitario non significa assestamento secondo un unico paradigma. Il mondo non è una sola teoria ma, appunto, un coacervo di teorie stratificate: l'assestamento delle teorie non avviene secondo il (e neppure secondo un) concetto logico di coerenza. Il mondo è un coacervo di teorie anche contraddittorie che di volta in volta si presentano e a cui di volta in volta si attinge.

Teorizzare è un agire per raggiungere ciò che vogliamo e per evitare ciò che temiamo. Lo è in due sensi. E’ un agire a bassa energia che si attua in quel pensare addebitato allo spirito e un agire ad alta energia per elaborare, collaudare, consolidare quel pensare. Le due cose non sono disgiunte perché non pensiamo solo con la testa né agiamo solo col corpo.
Teorizzare è un agire sul mondo. Non descrizione ma manipolazione. Il mondo viene assimilato, funzionalizzato all'uso e alle informazioni. La produzione dell’informazione e la loro organizzazione in teorie comporta una conquista e una +++perdita. Il mondo si rivela e si nasconde attraverso l'informazione, il cui processo di produzione costituisce una limitata chiave d’accesso al mondo.
Le teorie sono per noi corazze, armi e case simboliche. Il nostro sistema di abitarle si è specializzato, complicato, sofisticato, così come le nostre abitazioni, ma non per questo il nostro vivere ha cessato d’essere anche un "abitare le nostre teorie"; in entrambi i casi è pur sempre un tetto simbolico unito a pareti simboliche che ci proteggono da un mondo ostile o che crediamo ostile, indifferente o che crediamo indifferente. Una concezione delle teorie come sistemi d'orientamento, lungi dal considerare le teorie "romanzi d'idee", fa del teorizzare una necessità connessa al vivere nel mondo, da cui il vivere stesso non può disgiungersi perché è il vivere stesso a presupporre la propria protezione. Noi siamo obbligati, vivendo, a teorizzare così come la vita ci vive nell’attività teorizzante. Vivere senza teorie sarebbe come vivere nudi.
Le teorie ci abitano come protagonisti forti; tanto forti da costituire la nostra vita, a cominciare dai nostri comportamenti più banali. Sono case, abiti, strumenti, armi che si interpongono fra noi e ciò che non è noi, che, in questo loro modularsi, possono manifestare tutto il loro potere, perché la casa simbolica può diventare un labirinto o una prigione, crollare o cacciarci fuori in un eterno e ansioso trasferimento.

Teorizzare come vivere. Irrimediabilità della perdita.
Il problema non sta però in una ricerca delle possibili patologie delle nostre case simboliche quanto nella patologia generale che riguarda la vitale necessità di teorizzare e l'aspetto assimilatorio di tutte le teorie. Di per sé una teoria è innocua. Le stesse procedure del prodursi di un modello o di una teoria, identificando la perdita, ne sdrammatizzano il +++pericolo. Potremmo affermare che qualsiasi teoria lascia il mondo come era, come se fosse sufficiente retrocedere da quella singola teoria per riconquistarlo.
Ma se così fosse, perché un’ostilità così diffusa contro la scienza e le teorie?
E’ chiaro che il problema non è la singola teoria, ma l'attività del teorizzare e quindi l'attività del vivere teorizzante e domandante a tutto campo. La condanna delle teorie non tocca questa o quella teoria. L’enorme, tenace inimicizia, l’ostilità diffusa contro la scienza, vista come minaccia sia all’umanesimo che alla comunione con il mondo, non è diretta contro questa o quella singola teoria ma contro il vivere teorico e contro il mondo teorizzato, entrambi interpretati come sinistre minacce contro l’“umanità” del vivere.
Di fatto noi continuiamo a teorizzare, a domandarci, a rispondere, a conquistare e a perdere. L’assimilazione e la perdita si rinnovano, si riconfermano e si autoalimentano perché noi continuiamo a teorizzare con la stessa intensità con cui continuiamo a parlare con il linguaggio di verità. L’uomo è un operante teorico vissuto dalle teorie. L’uomo è anche il proprio sapere teorico in virtù del quale è sopravvissuto come tale. Il teorizzare è il suo peccato originale senza il quale non sarebbe. Vivere-Essere vissuto dalle teorie è la dimensione umana della sopravvivenza. Se teorizzare è una colpa perché si perde il mondo, allora anche il pensare articolato, il comunicare, il produrre sensi è una colpa e questo essere colpevole è costitutivo dell’uomo. Non esiste l’uomo incolpevole se non quello morto.
Noi siamo condannati a teorizzare. Siamo condannati alla domanda, siamo condannati all’informazione dal successo del teorizzare, che si autoalimenta e che non può non autoalimentarsi perché la sua natura è anche in questo inarrestabile autoalimentarsi, e dall’insuccesso dell’uomo, nel quale una domanda tenace, ostinata, cieca non si è stabilizzata come funzione e apertura. Non appartiene alla nostra libertà il soggiacere o il non soggiacere all’aprirsi verso il mondo senza occhio teorizzante. A tutti gli effetti siamo di fronte a un rovesciamento del paradigma tradizionale agire/patire nei confronti delle teorie. Non siamo noi ad agire facendo teorie, ma le teorie o la nostra natura teorizzante e totalizzante agisce in noi e nonostante noi.
Questo sovrapporsi di paradogmi, di cui si appena parlato o di sensi, costituisce un campo di ramificazioni richiama verso quelle autentiche case simboliche, angeli custodi, peccati capitali, violenti padroni che sono le teorie. Non la morte, non la finitezza solamente, ma l’orientamento generale dell’uomo a vivere, sperimentare, ubbidire a teorie: non lo sperimentare, il ‘vivere secondo’, l’ubbidire a teorie, ma il selezionarsi come vincenti su quelle sofferenze e quelle morti di quegli altri soggetti che sono i singoli mortali. La storia dell’accadere dell’imporsi delle teorie, come presenze attive in ogni singolo mortale sacrificabile, che è stato e sarà sacrificato, se inadatto. dall’Essere destinalmente immortale, è l’Essere teorizzante.

Non unicità del paradigma gerarchico
L’unita concettuale del nostro conoscere come dislocazione del fondamento ha sempre trovato una sua versione paradigmatica nella metafora concettuale di un albero del sapere che esaurisca il conoscibile nelle forme di una Teoria Unitaria. Ma l’idea di un albero del sapere è stata irrimediabilmente screditata dal fallimento del riduzionismo. L’olismo di Quine rappresenta forse la più moderna riproposta di una concezione unitaria del sapere come organizzazione; una concezione che però presenta anche i sintomi della sua negazione.

Quine ci rappresenta il complesso delle teorie sul mondo con un'immagine metaforica, che è contemporaneamente una teoria globale circa il sapere e una nuova proposta circa la forma e la struttura dell'albero del sapere.
La sua teoria è di tipo olistico e in diretta concorrenza contro le teorie verificazioniste derivanti in qualche modo dal primo neopositivismo. Quine nega che un singolo enunciato o una singola teoria possano essere verificate e con ciò sostiene l'esistenza di una totale interconnessione del sapere.
Per Quine le nostre conoscenze, connesse in un sistema di teorie, costituiscono metaforicamente un campo che solo ai suoi bordi può essere verificato. Scienze come la logica e la matematica occupano le zone più interne del campo mentre le scienze naturali occupano le zone più periferiche; proprio quelle periferie, dove in qualche modo il campo tocca il mondo e può essere collaudato su questo.
Secondo la teoria di Quine, quei confronti ai bordi del campo possono confermare o non confermare le teorie del campo e quando non le confermano provocano un mutamento del nostro sapere e, quindi, della conformazione del campo. Questi assestamenti interessano in genere le teorie più periferiche e meno sicure, ma, qualora ciò non fosse possibile, l'assestamento dovrà avvenire su teorie più interne e più sicure.
La "sicurezza" di teorie più forti come la logica e la matematica dà loro una posizione quasi intoccabile. Noi siamo sicuramente molto riluttanti ad accettare modifiche alle teorie più certe anche perché le loro leggi fungono da presupposto per tutte le altre e una modifica di questi presupposti avrebbe conseguenze e metterebbe in gioco la validità di tutte le teorie del campo. Dovendo scegliere fra il modificare una regola logica e una legge naturale, è più semplice modificare la seconda perché la modifica della prima sconvolgerebbe tutto il campo e richiederebbe non solo una sua completa revisione.
Quine ha indubbiamente ragione quando sostiene la quasi intoccabilità di teorie forti come la logica e la matematica; noi siamo, infatti, sicuramente molto riluttanti ad accettare modifiche alle teorie più certe le cui leggi fungono da presupposto per il sapere in generale. Una modifica di questi principi logici, che solo all'inizio del XX secolo parevano montagne di solidità, viene riconosciuta dagli esiti di quelle stesse filosofie nate come costruzione teoriche per trasformare quelle solidità in eternità e universalità. Le logiche paraconsistenti, quelle alternative, lo stesso principio di "tolleranza" di Carnap non sono che le varie e multiformi affermazioni di questa nuova mentalità svincolata da quelle mitiche sicurezze. Lo stesso Bohr non si fece certo condizionare da timori di lesa maestà quando costruì il suo (incoerente da questo punto di vista) modello di atomo. Il principio di indeterminazione, l’accettazione di una luce che è insieme onda e corpuscolo, gettano lunghe ombre proprio su questi principi che in precedenza avevano funzionato così bene da creare il mito della loro universale ed eterna validità.
Pur nei suoi meriti la teoria di Quine ha però una profonda debolezza. Veri punti delicati sono il suo ambito troppo limitato, la gerarchia delle discipline più profonde e quel collaudo o controllo o verifica ai bordi sulla quale si basa tutta la struttura del campo.
L'ambito limitato si riferisce a ciò che Quine intende per sapere e conoscenza e che non si estende comunque oltre quel sapere da lui considerato scientifico. A questo limite, che esclude ogni valore conoscitivo alla metafisica, alla poesia, all'arte in generale, è collegata anche la scelta della logica e della matematica come discipline più sicure e più consolidate che occuperebbero, secondo Quine, le zone più interne del campo dove le eventuali modifiche si irrigidiscono. E' chiaro che Quine, che pure adotta una visione pragmatista della conoscenza, si dimentica di quei paradigmi e preteorie che sono alla base non solo del nostro ragionare preteorico ma che costituiscono quelle configurazioni per cui si possono sviluppare quelle discipline così certe come la matematica e la logica.
Tralasciando per ora la ben più complessa discussione su come possano essere fatte le verifiche ai bordi del campo, è chiaro che con qualche procedura questo confronto deve pur avvenire. Il che vuol dire che verranno coinvolti principi logici come quello di contraddizione o del terzo escluso; come è pure chiaro che entreranno, in qualche modo, in gioco l'induzione, alcune leggi generali, una varietà di strumenti di misura, ecc. Insomma c'è tutta una serie di teorie e di strutture preteoriche che non possono non esserci come presupposto necessario affinché quel "confronto" ai bordi del campo possa avvenire. Ebbene l'insieme di queste preteorie la cui origine, formazione, integrazione si perde nella storia del nostro vivere, non è un albero unitario del sapere, ma un coacervo di teorie che comprende certamente principi, indirizzi e teorie che "occupano" i posti più interni del campo del sapere.
La teoria di Quine ha, comunque, una struttura concettualmente circolare proprio per il carattere problematico di quella "verifica ai bordi". Anche la sua cultura pragmatista ci invita a considerare la struttura del campo come circolare.

Di montagne di solidità, oltre che a proposito della concettualità gerarchica, possiamo parlare a proposito di quei principi logici di cui il sapere tradizionale ha spesso, se non quasi sempre, cercato di dimostrare una validità assoluta e a cui ha assegnato l’unità del sapere. Platone costruisce un mondo delle idee e Aristotele argomenta che se si vuole argomentare, si devono accettare certi principi che costituiscono il presupposto stesso del ragionamento perché non si dissolva.
Questi principi sono il punto focale di una disputa che coinvolse Heidegger e Carnap. Carnap analizzò alcune proposizioni di Heidegger in cui il termine "nulla" veniva usato come soggetto, mostrando come con questo uso improprio venisse violato, in frasi come "Il nulla esiste", lo stesso principio di non contraddizione. Carnap non riconosceva al pensiero di Heidegger (come a tutto il pensiero da lui definito "metafisico") un valore concettuale, ma un valore esclusivamente espositivo d'atteggiamento, simile all'espressione poetica, con la differenza che la poesia non rivendica pretese d'argomentazione per cui "In fondo i metafisici sono musicisti senza talento musicale". L'attacco di Carnap non si trasformò in polemica. Paradossalmente Heidegger fu d'accordo con Carnap circa il significato da attribuire alla sua filosofia o meglio non vedeva come con due basi concettuali così diverse ci fosse terreno comune per accendere una disputa. Il suo atteggiamento di fronte alle critiche di Carnap fu che il pensiero filosofico non poteva dispiegarsi mantenendo vincoli di rispetto verso principi come il principio di non contraddizione; per cui tanto peggio per il principio di contraddizione.

Di fatto Heidegger esprimeva come esigenza filosofica l'impossibilità di potersi esprimere nell'ambito di un linguaggio vincolato alla metafisica così come si era dispiegata nella cultura occidentale. Di qui l'esigenza per la filosofia di dover imparare a dialogare con i poeti.
E' difficile qui analizzare il pensiero di Heidegger. E' indubbio che i nostri ragionamenti siano vincolati dalla forma stessa dell'argomentare, ma questi vincoli, secondo Heidegger, posti dal linguaggio della metafisica, non sono certo da addebitarsi a un percorso metafisico che abbia una partenza, ad esempio, con Socrate. Questi sono vincoli legati a preteorie e forme linguistiche ben più antiche, non databili e assegnabili alla vita e all'evoluzione del dominio dell'uomo sul mondo. Heidegger aveva certamente ragione a considerare la metafisica una fisica perché come questa s'illude di raggiungere il senso dell'essere a partire dagli enti come se questi fossero il suo fondamento, ma l'impressione è che manchi a Heidegger un significato genetico degli enti che lo porti a vedere il loro valore funzionale e la loro relatività e subordinazione di senso. Certamente una rappresentazione analogica, ad esempio, non ha bisogno del principio di non contraddizione, come non ha bisogno di nessun altro principio logico e quindi di tutto quel sapere preteorico che il linguaggio trasporta con le sue regole, i suoi enti e quei principi gerarchici di cui si è parlato, ma una rappresentazione analogica è cieca e priva di senso. C'è qui una confusione sul significato dell'"essere" che verrà analizzata più avanti, nell'ambito di una "concettualità destinale", ancora da elaborare.
Questo non vuol certo dire che Heidegger avesse ragione. Una cosa è buttare via un principio consolidato e dire "tanto peggio", un'altra è cercare di individuare genesi e campi di validità per poter, entro quei campi, produrre argomentazioni conseguenti. Altrimenti l'obiezione di Aristotele è invalicabile: noi non possiamo argomentare sull'invalidità di un principio con argomenti che lo presuppongono senza produrre una disintegrazione del senso. Effettivamente Heidegger non potrebbe neppure argomentare senza delimitare delle zone di validità di quel sistema logico che sorregge il senso di quel suo argomentare. Principi come quello d'identità, di non contraddizione, del terzo escluso e così via sono teorie stabilizzatesi come abitudini utili e vincenti nel nostro uso del mondo. Certamente senza una forte credenza in essi non potremmo vivere né l'uomo sarebbe sopravvissuto come quell'uomo informatico che oggi è: questo è il nostro “peccato originale”, questa è l’assegnazione che fa dell'uomo nella sua storia quell'essere informatico che prefigura la schiavitù del suo destino.
Ma forse le cose sono più complicate di quanto appaiano.
Heidegger non sfugge alla tentazione dei profeti di identificare l'uomo "autentico" e di prescrivere quell'uomo "autentico" la cui realizzazione prefigura nuove ere “autentiche”. Non cade nell'errore di condannare la singola scienza o la singola argomentazione concettuale, ma invita a dialogare con i poeti al fine di recuperare l’autenticità del rapporto con l'Essere. La dimensione informatica dell’uomo viene identificata come un peccato che attende redenzione.
Ma, se il teorizzare è una colpa perché si perde il mondo, allora anche il pensare articolato è una colpa, anche l’uso del linguaggio dell’informazione è una colpa. Il teorizzare è una dimensione strutturale dell’essere dell’uomo e appartiene al vivere dell’uomo in quanto sopravvivente.

Paradigma verticale
Le teorie ci vivono secondo una pluralità di paradigmi. Una pluralità dove, però, un paradigma si è selezionato come predominante e vincente. E’ un paradigma illimitato, verticale e gerarchico secondo il quale si procede per concetti subordinati per via logica, per via temporale, ecc. Questo rapporto diviene fornitore di senso e giustificazione d'esistenza e di verità. La giustificazione e il senso vengono riportati alle giustificazioni e ai sensi del dispiegarsi della gerarchia vedi il rinvio di senso creato dalla successive cause incausate verità. Più che una soluzione appare un processo di rinvio e una delega di responsabilità, per cui senso e verità restano sospesi fino a che tutta la catena non viene fondata.
Entro il paradigma verticale avviene il nostro teorizzare sul mondo. Questo non vuol dire che sia quello giusto. Vuol dire solo che è quello che, come vincente, ci vive. Che ha funzionato e che funziona. Non vuol neppure dire che secondo esso e da esso discenda la comprensione e il senso del nostro vivere. Le domande che recitano: 1) come interpretiamo e interroghiamo il mondo? E 2) come dovremmo interpretarlo e interrogarlo? Hanno o possono avere risposte differenti.

ES - pubblicato febbraio 2013

PENSATORI CITATI
J. M. Keynes, D. Hume, I. Kant, C. D. Broad, B. Russell, W.V.O Quine, R.
Carnap, M. Heidegger


Concetti citati
Teorie, Anticipazioni teoriche, Conquistare, Perdere, Assimilare. Mondi sicuri, Preteorie, Fondamento, Casa simbolica









Frank Pluton Ramsey

Frank Pluton Ramsey nacque nel 1903 . Figlio del preside del Magdalene College, studiò al Trinity college di Cambridge . Dopo la laurea, per interessamento di Keynes, che ne aveva grande stima, divenne fellow all'età di 21 anni e docente di matematica (due anni dopo) al King's College .
Divenuto docente di matematica non limitò a questa disciplina le sue ricerche, ma si dedicò all'economia, all'algebra astratta, al calcolo della probabilità' e alla logica, privilegiandone gli aspetti epistemologici e filosofici .
Russell e Wittgenstein, per la logica, Keynes, per la teoria della probabilità', furono i 1 suoi primi importanti punti di riferimento . Dalla meditazione delle opere dei primi due nacquero le conferenze sui Fondamenti della matematica della Logica matematica", dal terzo trasse polemicamente lo spunto per la sua opera incompiuta (e nemmeno parzialmente pubblicata mentre era in vita) su Verità e Probabilità'
Se le opere sulla logica matematica erano in, un certo senso, di retroguardia, l'opera sulla probabilità,def inita da De Finetti^ come un'oasi in terra di Babele, è un'opera veramente innovativa e anticonformista, in cui vengono gettate le basi per  interpretare la teoria matematica della probabilità' come teoria della decisione e, come logica del comportamento umano. L'impostazione " soggettivistica", a quei tempi in forte sospetto, impedì' forse di comprenderne subito quel grande valore che gli verrà poi riconosciuto.
Intanto Ramsey allarga 1' orizzonte dei suoi interessi , la sua attività' si fa quasi frenetica. Gli universali, i rapporti fra i fatti e le proposizioni, l'attività' giudicante, il concetto di verità, l'induzione, le leggi teoriche ed empiriche, le teorie in generale, la matematica pura, l'economia diventeranno i molteplici campi in cui si esercita la sua riflessione. I riferimenti non sono solo più Russell e Wittgenstein ma si allargano all'intuizionismo, a Carnap, e a Pierce.
Sopratutto la lettura di Pierce fu importante. Ramsey era venuto a conoscenza delle dottrine pragmatiste tramite l'esposizione critica fattane da Russell^, ma la lettura diretta di Pierce fu senz'altro più feconda. Se il linguaggio, l'impostazione dei problemi, la stessa terminologia logica rimarranno una costante in tutti i suoi scritti, la concezione pragmatista entrerà' gradualmente nei suoi pensieri fino a divenirne sempre più vero filo conduttore ed atteggiamento filosofico unificante.
In effetti la frenetica attività di Ramsey negli anni dal 1925 al 1929 si esplica in campi cosi disparati da apparire anche impermeabili fra di loro senza quell'elemento aggregante rappresentato dal pragmatismo.
Quell'evoluzione, che da un atteggiamento platonico verso la realtà e gli enti matematici finisce per approdare a una concezione finitista, operativa e  antropologica del pensiero, delle attività teoriche e della stessa matematica, sarebbe incomprensibile.
Ramsey mori nel 1930 quando non aveva ancora compiuto ventisette anni. Si può dire che la sua breve vita fu piena di meditazioni e di filosofia, ma scarna di eventi. Si recò una prima volta a Vienna nel 1923 per incontrare Wittgenstein, diventato volontariamente umile maestro elementare in una scuola di montagna, riportandone un'impressione vivissima. L'ambiente di paese, le condizioni di relativa povertà, il tipo di lavoro impressionarono molto Ramsey e più ancora lo impressionò il vivo ingegno di quel filosofo che, ritenendo di aver dato ormai tutto ciò' che poteva dare alla filosofia, si era ritirato rinunciando a filosofare. Un secondo incontro nel 1924 non si rivelò altrettanto soddisfacente.
Nel frattempo Ramsey aveva ampliato i suoi orizzonti e si era molto allontanato dalle concezioni di Wittgenstein. Quando questi tornò a Cambridge, ebbe ancora molte discussioni con lui, ma non più da allievo a maestro. Se enorme fu l'influenza del Tractatus su Ramsey, grande fu certamente, come ammette lo stesso Wittgenstein, quella di Ramsey sulla sua successiva filosofia. Scrive Wittgenstein nella prefazione alle Ricerche Filosofiche:
" Riprendendo a occuparmi di nuovo di filosofia, sedici anni fa, dovetti infatti riconoscere i gravi errori che avevo commesso in quel primo libro ( il Tractatus). A riconoscere questi errori mi fu d'aiuto- in una misura che io stesso riesco difficilmente a valutare  la critica a cui le mie idee furono sottoposte da Frank Ramsey, col quale le avevo discusse in innumerevoli conversazioni negli ultimi anni della sua vita."
*L'amico R. B. Braithwaite pubblicò dopo la morte nel 1930 il volume che sotto il titolo Fondamenti della matematica comprende anche scritti del tutto inediti ancora da sistemare per la pubblicazione.Fra gli altri sono notevoli quelli compresi sotto il titolo Ultimi scritti dove compaiono un saggio sulle teorie e uno sulle proposizioni generali che segnano la svolta nel pensiero di Ramsey . In essi le proposizioni generali ed esistenziali, che nei Fondamenti erano simbolismi per indicare somme e prodotti logici anche illimitati di proposizioni, divengono schemi per produrre proposizioni e sistemi d'orientamento nel mondo. Ad esse vengono assimilate le teorie sul mondo, dove nuovamente Ramsey prende una motivata posizione sulle definizioni esplicite e sulle entità' astratte nelle teorie. A questo scopo propone un semplice ma universale schema di teoria, condensabile in una unica formula, conosciuta come " Formula di Ramsey" . L'importanza di questa formula, riscoperta da Braithwaite, verrà molto più tardi riconosciuta da Carnap, nel suo Fondamenti filosofici della Fisica[1].



IL TRAMONTO DEL LOGICISMO
1. I FONDAMENTI COME ULTIMA PROPOSTA LOGICISTA

In sistema di Ramsey rappresenta l'ultimo sforzo sistematico di presentare un sistema logicistico. Ormai il dibattito sui fondamenti si era fortemente smorzato e le filosofie matematiche del formalismo e dell'intuizionismo si erano dimostrate ben più produttive e feconde. Al contrario il logicismo dimostra tutta la sua sterilità e la sua impotenza nel superare i suoi problemi. Gli ostacoli, i vincoli, i limiti che si oppongono alla riduzione della matematica alla logica appaiono insuperabili e l'entusiasmo con cui il nuovo programma era stato lanciato da Frege e poi da Russell dopo pochi decenni è già disciolto.
Nel 1930 viene organizzata una conferenza sui fondamenti della matematica con l'intento di fare il punto sullo stato delle ricerche. Vi partecipano Heyting, Von Neuman e Carnap. Heytìng nella sua memoria non dedica neppure un paragrafo per confutare il logicismo mentre Carnap, che dovrebbe fungerne da avvocato difensore, lo fa in modo così problematico e poco convincente che la sua difesa può essere considerata l'atto di morte del logicismo.
La difesa di Carnap appare , in sostanza, una difesa d'ufficio dovuta, forse più al suo passato di allievo dei grandi logicisti Frege e Russell che a una reale convinzione.
In questa occasione Carnap prende in considerazione il sistema di Ramsey, ma lo fa solo per confutarne i presupposti filosofici. Ciò che Carnap respinge è il realismo concettuale su cui si basa il sistema di Ramsey. Questo realismo viene contrassegnato come un realismo " platonico " ove “le idee esistono di per sé, indipendentemente da se e come le pensiamo". La concezione matematica di Ramsey viene denominata “teleologica" e respinta in nome di quella concezione " antropologica" che, nel costruttivismo finitista, accomuna sia Hilbert e la sua scuola sia l'intuizionismo di Brouwer ed Heyting.
Carnap respinge l'assioma di riducibilità' ed indica la possibilità di ricostruire ugualmente la matematica nella logica, non rifiutando di accettare, in linea di principio, le definizioni impredicative che non sarebbero necessariamente, per il solo fatto di essere impredicative, fonte di antinomie.

2. CONSIDERAZIONE SUI PRINCIPIA E SUI FONDAMENTI
L'accusa di platonismo di Carnap non è certo ingiustificata, la concezione delle classi esistenti ma non definite o indefinibili, la concezione dei quantificatori come somme o prodotti logici, ed in generale tutto l'impianto della costruzione di Ramsey sembrano presupporlo. Ma se la concezione di Ramsey fosse così esasperatamente platonica, c'è da chiedersi perché non abbia accettato quell'assioma di riducibilità' che, da un punto di vista platonico, è vero.
I presupposti filosofici delle costruzioni logiciste di Russell e Ramsey non sono affatto facili da dipanare. Se poi esiste un'ampia letteratura critica sulle opere del primo, quella sul secondo è pressoché inesistente. Ciò non accadde certo perché la sua concezione filosofico- matematica fosse priva di interesse. I veri motivi vanno forse ricercati nel clima culturale del tempo in cui Ramsey espose il suo sistema , quando già la concezione logicista appariva irrimediabilmente datata.
Non e' quindi inutile dare un quadro delle filosofie logico- matematiche di quel periodo per consentire una collocazione della filosofia di Ramsey . Un quadro lo si può dare sotto vari punti di vista, ma forse il migliore è quello che identifica le varie posizioni esaminando le soluzioni adottate per superare le antinomie. Questo perché, anche se non fu l'unico, certamente il problema delle antinomie fu il motore più potente per l'evoluzione del pensiero filosofico sul significato del calcolo logico-matematico.
L'antinomia scoperta da Russell pareva irrimediabilmente collegata con la possibilità di formare sempre un insieme con qualsiasi collezione di elementi comunque definiti. Così si poteva anche parlare ad esempio di collezioni di insiemi, la cui condizione definitoria fosse l'appartenenza o la non appartenenza dello stesso insieme a se stesso come elemento.
II presupposto di questa possibilità nasce dalla stessa teoria degli insiemi di Cantor, che comincia a essere definita "ingenua". Cantor non aveva dato una definizione esplicita del concetto di insieme, ma ne aveva definito le condizioni di costruibilità'.
Queste condizioni, molto liberali e molto "platoniche", venivano ora messe sotto accusa. In particolare la possibilità che ogni gruppo di oggetti comunque scelto generasse un insieme, che questo insieme fosse un "oggetto" e che quindi, come tutti gli altri "oggetti", potesse entrare in un insieme come membro dell'insieme.
Il platonismo di questo postulato di comprensione è evidente. Come è altrettanto evidente l’esigenza di modificare questo principio restringendo una liberalità fonte di antinomie. Per i platonici , che certo non volevano rinunciare alle costruzioni di Cantor, si trattò di accettare il principio, di porgli dei vincoli e di limitarne le possibilità; per i predicativisti il principio , forte o debole, si doveva comunque rifiutare per il suo platonismo. Predicativisti e platonici adottarono quindi differenti soluzioni e diedero origine a sistemi differenti.
Almeno due possibili soluzioni, quella di Russell-CHwistek1 e quella di Zermelo2, erano già note e discusse nell'ambiente culturale in cui Ramsey si formò.
Entrambe le soluzioni prevedevano di limitare l'illimitata possibilità di costruire insiemi in corrispondenza a ogni condizione, ma con vincoli differenti.
Zermelo pensava che si dovesse limitare l'ampiezza delle molteplicità, ma non in base a criteri ontologici, giacché non doveva essere la natura degli oggetti a determinare le leggi di formazione degli insiemi. Nel suo sistema sono, quindi, accettabili come insiemi-oggetti solo quelli costituiti secondo leggi di buona determinazione descritte dagli assiomi.
Chiwstek, sulle orme di Russell condivide coi Principia l'idea che vadano limitate le collezioni in riferimento al tipo di "oggetti " che vi intervengono come elementi. La limitazione dovrà riguardare l'omogeneità di tipo e darà luogo alla gerarchla conosciuta come " teoria dei tipi semplici".
E' notevole che la proposta di Chwstek fosse presentata, non come sistema originale,ma come accettazione di una parte della teoria dei Principia, la parte, appunto, riguardante la teoria dei tipi semplici. Chiwstek rifiutava la gerarchla degli ordini e l'assioma di riducibilità, poiché pensava che l'assioma potesse ripristinare le antinomie che la gerarchia degli ordini aveva eliminato. La teoria di Chwistek , come rileva lo stesso Ramsey in una nota a piè di pagina (p. 45 ) era errata. Ciò non impedì che l'idea di una teoria dei tipi semplici per eliminare una parte delle antinomie prendesse piede. La teoria di Zermelo, invece, con la richiesta di definitezza della condizione eliminava tutte le antinomie
Quanto a Ramsey, stante la sua posizione logicista, non poteva accettare la proposta di Zermelo, né negli esiti, né nella forma né nella filosofia che l'aveva ispirata. Un sistema assiomatico come quello di Zermelo non poteva che apparirgli una soluzione ad hoc e come tale filosoficamente immotivata. Ma c'era una ragione più' profonda. Una limitazione puramente formale delle molteplicità era inaccettabile per un logicista, per cui la matematica e la logica dovevano per lo meno fornirsi di un senso. La limitazione non poteva quindi essere di natura ontologica: solo con questo procedimento le regole limitatrici potevano acquisire lo statuto di regole di significanza.
Per i predicativisti, quali Poincarè, che derivavano le loro concezioni da Kronecher il principio di comprensione era semplicemente falso. Per un predicativista, come per gli intuizionisti la matematica non era una scienza descrittiva e i suoi oggetti come le sue strutture non venivano scoperte ma costruite. Gli eventuali difetti andavano quindi ricercati nelle modalità e nelle condizioni di questa costruzione. E' quindi assolutamente naturale che Poincarè identificasse nel circolo vizioso la fonte di tutti i problemi ; tanto più che effettivamente questo circolo vizioso compariva in tutte le antinomie.
Russell che contribuì a formulare e, infine, accettò questa diagnosi, adottò con questa decisione un punto di vista predicativista e costruttivo. Ma lo adottò veramente? In altre parole adottò con la diagnosi anche la filosofia che l'ispirava?
Sembrerebbe di sì poiché l'accettazione della necessità di utilizzare solo definizioni predicative, presuppone che siano le definizioni a costituire gli enti matematici. Per un matematico rigidamente realista ( per il Russell dei Prìnciples ) numeri .classi ecc. sono enti che esistono di per sé, e quindi ininfluenzabili dal sistema definitorio.
E' vero che il Russell dei Principia non era più il Russell dei Prìnciples, ma questo non vuoi dire che avesse abbracciato una filosofia costruttìvista; è anzi probabile che l'esclusione delle definizioni impredicative e il conseguente sistema gerarchico degli ordini di funzioni fossero stati accettati per ragioni pratiche. Russell aveva studiato e si era dannato per risolvere le antinomie per circa cinque anni, durante i quali aveva tentato tutte le strade possibili. La gerarchia degli ordini di funzioni dovette apparirgli l'unica teoria naturale, possibile e accettabile da un punto di vista logicista.
Di solito la teoria dei tipi ramificati con assioma di riducibilità presentata nei Principia viene vista come una fusione, mal riuscita, dei punti di vista concettualista e realista.
L'idea che può giustificare la gerarchia degli ordini è che le classi debbano essere costituite mediante condizioni che le definiscono. Costituite non descritte. Ma affermare che una volta costituita una funzione esista già una classe predicativa equivalente e' per lo meno contraddittoria. In altre parole se l'assioma di riducibilità è vero (e da un punto di vista platonico lo è) allora tutta la costruzione dei tipi ramificati èsenza senso.
Questa è forse una critica troppo impietosa della teoria di Russell; una critica che certamente trascura alcune circostanze. Lo si può constatare confrontando fra loro le teorie di Weyl esposte in Das Kontìnuum e quelle dei Principia.
Queste teorie sul piano formale si corrispondono ma, Weyl, in coerenza con la sua concezione predicativista e costruttiva, rifiuta l'idea di un principio in qualche modo analogo a quello di riducibilità e accetta alcune mutilazioni dell'analisi. Di fronte a quello di Weyl il comportamento di Russell sembra, a prima vista, incoerente, ma almeno in parte non è così.
Le gerarchie dei tipi vengono costruite sulle espressioni quantificate ed è ovvio e coerente che per Weyl, che considerava le asserzioni esistenziali e generali non proposizioni ma schemi o "promesse" di proposizioni, la matematica debba procedere per costituzioni successive. Appare pure ovvio che le ammissioni di esistenza delle classi e delle funzioni trovino legittimità in quelle costituzioni. Un principio di riducibilità e' impensabile con questi presupposti.
Ma il pensiero di Russell non segue una simile filosofia. Per comprenderlo bisogna forse risalire alla genesi delle sue concezioni e seguire, almeno per sommi capi, i successivi Per il Russell dei Principles il linguaggio è in un certo senso lo specchio della realtà mentre la sua sintassi e la sua grammatica rispecchiano i rapporti fra i significati. In altre parole la lingua è un medium trasparente a cui fanno parzialmente eccezione solo le espressioni denotanti. Con l'elaborazione del saggio sulle descrizioni definite (On denoting l905) questa visione ingenua subisce una frattura. Diminuisce il numero degli enti ammissibili, ma soprattutto si produce una spaccatura fra linguaggio comune e ciò che Russell denota come "forma logica" di una espressione linguistica. Con ciò Russell non rinuncia alla sua posizione realista e neppure alla tesi di una trasparenza linguistica tra linguaggio e mondo. La diversità sta nel fatto che la trasparenza è ora tra forma logica e realtà e non fra grammatica del linguaggio comune e realtà.3
La forma logica di una proposizione va ricercata mediante regole di traduzione e va manipolata con regole. In un certo senso ci sono, sì, regole di costituzione, ma queste non vanno intese come vere regole costitutive in senso predicativistico, bensì solo come regole logiche che consentono al linguaggio "logico" di mantenere la sua funzione di medium trasparente. La diversità', se questa interpretazione è corretta, consiste nel fatto che ciò che per Weyl e i predicativistì in genere sono regole di costituzione, per Russell sono regole logiche che garantiscono la buona descrizione.
Una riprova sta nel fatto che mai Russell fu afflitto da dubbi circa le espressioni esistenziali e generali. Per lui sono effettive proposizioni a tutti gli effetti e "descrivono" come le proposizioni singolari.
Di fatto l'assioma di riducibilità, che mai convinse Russell, si offriva a diverse possibilità interpretative, e, fra queste, anche a una interpretazione linguistica in linea con il pensiero di Ramsey.
Russell4 non si limita a presentare il suo assioma, ma cerca di difenderlo sostenendo che esso è equivalente all'assunzione che qualsiasi combinazione logica di predicati (data intensionalmente ) è equivalente a un singolo predicato. Questo equivale a considerare un quantificatore esistenziale come una congiunzione e un quantificatore esistenziale come una disgiunzione di predicati.
In sostanza (ricorrendo allo stesso esempio di Russell) che Napoleone abbia tutte le proprietà di un grande generale, equivarrebbe, se l'assioma di riducibilità fosse vero, ad accettare che esiste una combinazioni di predicati, finita o no, esprimibile o no, che è equivalente all'avere la proprietà di avere tutte le proprietà di un grande generale.
Questo non vuoi dire che Russell asserisse che tutte le espressioni con quantificatori potessero essere esplicitate. E' indubbio, però, che la sua proposta possa essere letta come una dichiarazione d'impotenza del linguaggio. Non sappiamo come esplicitare l'espressione "tutte le qualità' di un grande generale" in termini di predicati e connettivi logici, ma sappiamo che questo avviene solo perché le risorse limitate del linguaggio non ce lo consentono.
Da questa considerazione alla conclusione di Ramsey che solo le carenze linguistiche di nomi e connessioni di nomi ci impediscono di esplicitare un quantificatore universale come somma logica il passo è breve.
Ramsey dice di aver derivato la sua teoria dei quantificatori dal Tractatus, ma, in realtà, Wittgenstein si guarda bene dall'affermare la possibilità che un quantificatore universale possa essere una congiunzione di infiniti termini. Questa sarebbe stata per lui un'affermazione semplicemente insensata. Ramsey, al contrario, ne parla anche se, al momento di discutere l'assioma dell'infinito, non mostra altrettante certezze.
Accettando la lettura che Ramsey fa di Wittgenstein su questo argomento si può affermare che il concetto di infinito, se ha un senso, deve essere una tautologia o una contraddizione. Ramsey concorda con questa analisi e da per scontato che un senso il concetto lo deve avere, mentre Wittgenstein, non solo non avrebbe minimamente sottoscritto questa affermazione, ma neppure avrebbe accettato come sensata la domanda . Diversamente da Wittgenstein, Ramsey, come Hilbert, non accetta di essere cacciato dal "paradiso" creato da Cantor.
In ogni caso accettare questa teoria comporta sia l'accettazione che la gerarchia degli ordini abbia a che vedere con le esigenze del nostro linguaggio, sia l'accettazione dell'ipotesi che esistano predicati o combinazioni logiche di predicati inesprimibili. Da questo punto di vista (e così l'intese Ramsey ) l'intera gerarchia degli ordini poggia non sui significati, ma sulle risorse linguistiche utilizzate per esprimere questi significati.
In definitiva, se appare faticoso interpretare le teorie dei Principia come l'espressione di una coerente filosofia platonica, queste difficoltà non ci sono per una analoga interpretazione della teoria di Ramsey. Il problema sta nell'alternativa realismo/predicativismo. Nel primo caso una teoria dei tipi semplici accompagnata da regole linguistiche per evitare le antinomie del secondo tipo è una soluzione naturale e coerente.
La soluzione classica per eccellenza, in linea con questi principi ispiratori, è quella di Tarski che risolve le antinomie semantiche con una gerarchia di linguaggi. Ma anche quella di Ramsey è una soluzione di questo tipo e , al di là della nomenclatura e degli espedienti tecnici utilizzati, la sua è, a tutti gli effetti, una soluzione semantica a un problema riconosciuto come semantico.

3. L'EVOLUZIONE DELLE CONCEZIONI DI RAMSEY
Dopo lo scritto sui fondamenti della matematica il pensiero di Ramsey subisce una graduale evoluzione verso altre concezioni. Non ci sono documenti conclusivi su queste riflessioni, anche perché nella sua così breve vita , Ramsey trasferì la sua attenzione su temi sempre diversi e non ebbe il tempo né di documentare questa trasformazione né di dare forma sistematica alla concezione finitista che andava maturando. Si è parlato di un approdo al formalismo, ma anche di una sua adesione alli'intuizionismo.
Le fonti di testimonianza per questa evoluzione sono sostanzialmente alcuni accenni contenuti nello scritto "le Teorie", l'articolo sulla matematica scritto per l'Enciclopedia britannica, la trattazione delle proposizioni generali nelle scritto Proposizioni generali e causalità , l'esposizione di un sistema intuizionista negli inediti, la testimonianza dell'amico, e poi curatore delle sue opere, R. B. Braithwaite che nella prefazione ai Fondamenti della matematica del suo amico scrisse: “..nel 1929 egli si converti' ad un punto di vista finitista che rifiuta l'esistenza di ogni aggregato infinito attuale e al quale fa allusione in alcuni degli ultimi appunti.”
E' probabile che l'adesione di Ramsey alle concezioni finitiste sia dovuto alla maturazione di una diversa interpretazione delle espressioni contenenti quantificatori.
Questo lo si può' arguire da un generale riesame dello statuto delle proposizioni generali che Ramsey espone appunto nello scritto sopracitato del 1929.
L'esame di Ramsey non riguarda espressamente l'uso dei quantificatori in matematica e in logica. Da alcuni accenni sembra anzi che voglia escludere dalla sua analisi il campo matematico. Ma ciò non toglie che il mutamento in proposito sia così profondo da presupporre un visione filosofica generale totalmente diversa che non può non coinvolgere anche la filosofia della matematica.

PROPOSIZIONI GENERALI
Come sopradetto, nello scritto Proposizioni Generali e Causalità viene ridiscusso lo statuto logico dei quantificatori. Ramsey si pone la domanda se sia ragionevole interpretare un'espressione contenente un quantificatore universale come una congiunzione ed esamina i possibili argomenti a favore e contrari.
La conclusione di Ramsey è che queste espressioni differiscono dalle congiunzioni perché possono essere scritte come congiunzioni solo 1) se si riferiscono a classi finite e 2) se esiste una regola applicativa . Diversamente, esse sono per noi come una carta dello spazio circostante che, estesa all'infinito , non potremmo mai leggere interamente, per cui ci troveremmo nella condizione di non poterci " muovere secondo essa". "IL nostro viaggio, di conseguenza, sarebbe finito prima che avessimo bisogno delle sue parti più' remote" .( p.255 )
E' vero , aggiunge Ramsey, che un'espressione con quantificatore universale contiene tutte le congiunzioni minori ed è pur vero che, in riferimento alle condizioni di verità, siamo costretti a " renderla una congiunzione" e ad "avere una teoria delle congiunzioni", ma è questa stessa teoria che non possiamo "esprimere per mancanza di potere simbolico" e " ciò che non possiamo dire non possiamo dirlo e nemmeno fischiettarlo".
Con queste premesse, di un'espressione contenente un quantificatore non si può neppure più decidere se sia vera o falsa. Ma può ancora, con queste premesse, essere considerata un'autentica proposizione una "proposizione generale", quando non siamo neppure certi che esista la possibilità di assegnarle un valore di verità'?
A prima vista la risposta non può che essere negativa, ma Russell non era di questo parere. Pur non avendo mai accettato la riducibilità dei quantificatori a operazioni logiche, non era incorso mai in quel tipo di dubbi sulle espressioni quantificate che tanto avevano ossessionato "i nemici" intuizionisti e formalisti. Ciò poteva accadere poiché, per Russell, le espressioni contenenti quantificatori, riferendosi a "universali", sono proposizioni a tutti gli effetti e non promesse di proposizioni.
Ramsey era di tutt'altro parere. Non solo non poteva accettare la conclusione di Russell, ma nell'articolo Universali ( scritto nel 1925 e quindi contemporaneo al trattato sui Fondamenti della Matematica ) aveva discusso e motivato una concezione circa lo statuto logico di questi termini, secondo la quale, negando qualsiasi base logica alla distinzione fra universali e particolari, ne negava anche una precisa identità logica.
In conclusione, Ramsey deve abbandonare l'idea che le espressioni quantificate siano proposizioni. Con questo abbandono la sua posizione è ormai simile a quella di Hilbert e degli intuizionisti: mancando un criterio di verità' queste formule non possono sempre essere considerate vere o false e quindi non possono essere considerate autentiche proposizioni.
L'ipotesi avanzata da Ramsey è che siano schemi per produrre proposizioni. La nuova interpretazione dei quantificatori, come sopra detto, viene esposta da Ramsey nello scritto " Proposizioni Generali e Causalità", elaborato nel 1929 e concernente la natura delle leggi e delle teorie scientifiche in generale. Come si è però già anticipato, anche se lo studio non riguarda espressamente la natura delle espressioni quantificate in logica e in matematica, non c'è' ragione di pensare che il ragionamento non si estenda anche a questo dominio, anche se a questo proposito
Ramsey cosi si esprime:

Nel caso di una proposizione, corretto e scorretto, cioè vero o falso, si presentano in due modi. Si presentano all'uomo che costruisce la proposizione ogni volta che ne costruisce una funzione di verità, cioè ragiona disgiuntivamente sui casi della verità o falsità. Ora noi non facciamo mai una cosa del genere con queste ipotetiche variabili eccetto che nella matematica, in cui ora questo
procedimento viene riconosciuto fallace. ( p. 255 )

Del resto, considerando l'evoluzione del pensiero di Ramsey, che si va indirizzando sempre di più verso una concezione olistico-pragmatista, sembra difficile pensare che le sue idee circa l'ambito logico-matematico possano viaggiare separate dal resto della sua filosofia.
Da questo punto di vista, l'analisi dell'evoluzione del pensiero di Ramsey circa la logica e la matematica va fatto in un ambito più vasto. Ramsey aveva iniziato le sue riflessioni affrontando temi diversi. Le sue riflessioni sulla logica, sulla matematica, sulla probabilità, sulla natura delle leggi ecc. paiono inizialmente svilupparsi separatamente con minime interconnessioni. Gradatamente si evolve, pero, un disegno generale e unitario che tende ad unificare questi pensieri sotto una sorta di olismo pragmatista. E', quindi, nell'ambito di questa concezione unitaria che va esaminata, anche l'evoluzione del suo pensiero sulla filosofia della matematica, accettando come probabile che le sue riflessioni sulla natura delle leggi generali abbiano influenzato il suo pensiero sulla funzione dei quantificatori in matematica.
La teoria positiva di Ramsey circa le proposizioni generali, il loro statuto logica, la loro funzione nella scienza sono esposte nel capitolo riguardante le concezione di Ramsey sulla natura delle teorie e sulla funzione delle leggi generali nei sistemi scientifici. Ciò che interessa qui è solo il fatto che Ramsey abbandonò sicuramente nel 1929 l'idea che le proposizioni generali fossero vere proposizioni.
L'abbandono della teoria dei quantificatori come somme o prodotti di un numero finito di proposizioni non è solo l'abbandono di una teoria della matematica, ( quella esposta ne I Fondamenti della matematica ), ma quello di una filosofia della matematica.
Se una espressione contenente quantificatori non può più essere considerata una proposizione, essa non può più entrare come componente in un calcolo proposizionale e non può più essere assimilata a una operazione logica ( con un numero finito o infinito di termini ). Su questo presupposti poggiava tutta la teoria della tautologicità della matematica, tutta la teoria delle funzioni predicative e, con esse, la possibilità di dare a ogni funzione un "significato".
Ora questo passaggio da "forma" a "significati" non poteva più essere ottenuto e le funzioni non potevano più essere classificate in base a quel metodo "oggettivo" in contrapposizione al metodo costruttivista " soggettivo" utilizzato nei Principia.
Ramsey riteneva con la teoria dei significati di aver escogitato una base estensionale per eliminare dalla struttura matematica tutta la sovrastruttura delle pseudofunzioni. La teoria della quantificazione, derivata dal Tractatus, gli offriva il mezzo tecnico per giungere ai significati (condizioni di verità), eludendo gli inganni e le limitazioni del nostro parlare di significati. Se i quantificatori universali e i quantificatori esistenziali non possono più essere concepiti in termini di operazioni logiche di verità, cade questa possibilità e, con essa, cade tutta la costruzione.
Non cade solo il platonismo che soggiaceva al logicismo ma il logicismo stesso; quel logicismo che senza il riferimento ai significati, aveva dimostrato nei Principia di non poter ricostruire la matematica, senza dover ricorrere all'assioma di riducibilità.
Oltre all'abbandono della teoria dei significati era proprio la nuova concezione dei giudizi generali ed esistenziali, in se stessa, a indirizzare Ramsey verso altre vie.
Se una proposizione esistenziale non è una proposizione ma uno schema per costruire proposizioni è ovvio che è proprio la costruibilità di una entità a divenire criterio della sua esistenza, e, solo l'effettiva costruzione, dimostrazione d'esistenza.
Queste circostanze e le riflessioni sul mai risolto assioma dell'infinito, di cui ammette, già nei Fondamenti, la difficolta se non l'impossibilita di parlare, non possono che aver spinto Ramsey ad estendere la sua attenzione a quelle incertezze e a quei dubbi che Hilbert, Weyl e Brouwer andavano manifestando. Quelle stesse tesi che in precedenza aveva respinto e caratterizzato come un "conformarsi ai (propri) pregiudizi privati."