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Alla scoperta dell'universo Einstein

di Renzo Grassano
Un filo rosso legò Kant a Newton ed un altro filo rosso legò Popper ad Einstein, anche se tra questi ultimi due non mancarono momenti di disaccordo. E' comunque certo che ad ogni rivoluzione nella visione della struttura del mondo che ci porge la fisica, segua una rivoluzione, o qualcosa di simile ad un sommovimento, in filosofia.
La filosofia del Novecento presenta diverse facce, ma quelle più interessanti sono, a mio avviso, la filosofia legata alla "crisi della scienze" in senso fenomenologico da un lato, da interpretare attraverso Husserl, e quella che più direttamente ambiva ad una pretesa epistemologica dall'altro. Entrambe dipendevano in misura saliente dalla crisi e dalla resurrezione della fisica, attraverso le scoperte delle asimmetrie tra meccanica classica e le teorie del campo elettromagnetico e le rivoluzionarie ricombinazioni attuate da Einstein con la relatività speciale e quella generale, senza dimenticare il clamoroso punto di vista euristico relativo alla generazione e trasformazione della luce. Che costituì l'indispensabile preludio alla meccanica quantistica.
Della corrente epistemologica furono esponenti di rilievo grandi personalità, da Poincaré ai neokantiani, da Carnap fino a Popper. Ma il ruolo di Einstein, seppure ridotto ad un ambito più specialistico, non fu di minore importanza. Tutt'altro. Fu certamente più importante, in quanto costituì la base (la grande occasione) a tutta la chiacchiera filosofica posteriore.
Personalmente, sono convinto della tensione filosofico-speculativa di Albert Einstein, e spiego i suoi successi (e pure i suoi insuccessi) anche con questa tensione.
Non fu, insomma, un fisico come tutti gli altri. E questo non si deve al solo fatto che fu un genio. O meglio, fu geniale perché capace di porsi domande in un modo non fisico, cioè non scomponendo ogni problema in una sua parte, ma ricomponendo domande separate in domande più generali. Seppe vedere che una somma di alberi produceva una foresta e si chiese come descrivere la foresta.
Ho pescato questa citazione e la riporto perché spiega molto meglio di quanto potei fare io (che non sono un genio) il punto di vista di Einstein: «Nello sforzo che facciamo per intendere il mondo rassomigliamo molto all'individuo che cerca di capire il meccanismo di un orologio chiuso. Egli vede il quadrante e le sfere in moto, ode il tic tac, ma non ha modo di aprire la cassa. Se è ingegnoso, egli potrà farsi una qualche immagine del meccanismo che considera responsabile di tutto quanto osserva, ma non sarà mai certo che tale immagine sia la sola suscettibile di spiegare le sue osservazioni. Egli non sarà mai in grado di confrontare la sua immagine con il meccanismo reale e non potrà neanche rappresentarsi la possibilità ed il significato di simile confronto. Tuttavia egli crede certamente che con il moltiplicarsi delle sue cognizioni la sua immagine della realtà diverrà ognor più semplice e sempre più adatta a spiegare domini sempre più estesi delle sue impressioni sensibili. Egli potrà anche credere all'esistenza di un limite ideale della conoscenza, a cui l'intelletto umano può avvicinarsi indefinitamente, e potrà chiamare verità obiettiva tale limite.» (1)

Il più grande scienziato del Novecento era insofferente alla pedagogia dogmatica, all'ora di religione, ai metodi didattici tedeschi ed agli insegnanti che fanno sbadigliare o attirano i lazzi degli studenti. Fu troppo grande rispetto ai suoi coetanei su determinate questioni e troppo indietro rispetto ad altre. Non poteva legare con gruppi di amici a zonzo per far casino ed infatti ebbe un'adolescenza solitaria ed introversa, animata solo dai libri di filosofia, dai manuali di matematica e di fisica. Eppure, persino in matematica incontrò difficoltà, anche se è certamente da sfatare il mito di un Einstein "debole" in matematica.
Dalla sua Autobiografia scientifica apprendiamo che: « Dai 12 ai 16 anni mi familiarizzai con le nozioni fondamentali della matematica e del calcolo differenziale ed integrale. Nel far questo, fortunatamente, mi capitarono libri che non erano fatti con eccessivo rigore logico, ma che supplivano ad esso col dare un chiaro rilievo e un inquadramento generale a tutte le nozioni principali. Questo studio fu, in complesso, veramente affascinante, dandomi nei suoi punti più alti un'impressione che poteva ben competere con quelle ricevute durante lo studio della geometria analitica, nelle serie infinite, o nei concetti di differenziale ed integrale.» (2)

Ciò nonostante, dagli scritti lasciati dallo stesso Einstein sappiamo che egli nutrì una singolarissima riserva sulla "verità" della matematica. Nel 1922 scriveva: «Nella misura in cui le le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui sono certe, esse non si riferiscono alla realtà.» (3)
C'è in tali parole un esplicito riconoscimento che, sebbene la natura sia scritta in linguaggio matematico, come credevano gli antichi pitagorici e come ribadì Galileo in modo diverso e certamente più razionale, essa contiene un "di più" che non è riducibile alla sola matematica e nemmeno alla sola logica, che sono costruzioni umane soggettive, anche se, dati certi presupposti, si possono ricavare le più straordinarie conquiste della scienza oggettiva.
Forse, c'è una "mistica" della natura che non è "incomprensibile" ed "indicibile", ma solo richiede di abbandonare determinate categorie di pensiero che crediamo eterne ed immutabili, e che in realtà sono un ostacolo alla comprensione. Uno di questi ostacoli fu chiaramente individuato da Einstein quando scrisse che nessuno scienziato pensa in formule e, forse, nemmeno in parole, anche se le idee si esprimono con parole e frasi costruite con i materiali del linguaggio ordinario, cioè il linguaggio che nomina gli esistenti e "battezza" i concetti. Questo atteggiamento può apparire molto al di sotto della mistica dell'inesprimibile, ma è certamente al di sopra delle rigidità dei formalismi. Non so se si possa indicare come un giusto mezzo tra due posizioni estreme; certo è qualcosa che assume sia le une che le altre senza tuttavia farsi tirare da una parte o dall'altra.

Tale atteggiamento mentale di estrema duttilità è variamente documentabile ma, c'è un passo che aiuta a capire: «Che cos'è precisamente il "pensiero"? Quando, sotto lo stimolo di impressioni sensoriali, affiorano alla memoria certe immagini, questo non è ancora "pensiero". E quando queste immagini formano un insieme di successioni in cui ciascun termine ne richiama un altro, nemmeno questo è ancora "pensiero" Ma quando una certa immagine ricorre in molte di queste successioni, allora - proprio attraverso questa iterazione - essa diventa un elemento ordinatore, poiché collega tra loro successioni che di per se non sarebbero collegate. Un elemento simile diventa uno strumento, un concetto. Io ritengo che il passaggio dalla libera associazione, o "sogno", al pensiero sia caratterizzato dalla funzione più o meno dominante che assume in quest'ultimo il "concetto". Non è affatto necessario che un concetto sia connesso con un segno riproducibile e riconoscibile con i sensi (una parola), ma quando ciò accade il pensiero diventa comunicabile.
Con quale diritto - domanderà il lettore - quest'uomo si serve con tanta rudimentale sicurezza delle sue idee, in un campo tanto problematico, e senza fare nemmeno il più piccolo sforzo per dimostrarle? Ecco la mia difesa. Tutti i nostri pensieri hanno questa natura di libero gioco con i concetti; e la giustificazione di questo gioco consiste nel maggiore o minore aiuto che esso può dare per raggiungere per raggiungere una visione generale dell'esperienza dei sensi. Il concetto di "verità" non si può ancora applicare a questo meccanismo: secondo me questo concetto può essere preso in considerazione solo quando esiste un accordo generale (una convenzione) che riguarda gli elementi e le regole del gioco.
Per me non c'è dubbio che il nostro pensiero proceda in massima parte senza far uso di segni (parole), e anzi spesso inconsapevolmente. Come può accadere, altrimenti, che noi ci "meravigliamo" di certe esperienze in modo così spontaneo. Questa "meraviglia" si manifesta quando un'esperienza entra in conflitto con un mondo di concetti già sufficientemente stabile in noi. Ogni qualvolta sperimentiamo in modo aspro e intenso un simile conflitto, il nostro mondo intellettuale è in certo senso una continua fuga dalla "meraviglia".» (3)

Sono parole da meditare, anche perché c'è ancora troppa gente convinta che la verità stia solo nei nostri pensieri. Là fuori c'è un mondo. «la convinzione che esista un mondo esterno - scriveva nel 1936 - indipendente dal soggetto che lo percepisce, è la base di tutta la scienza naturale. Poiché, però, la percezione sensoriale ci fornisce solo un'informazione indiretta su questo mondo esterno, o "realtà fisica", noi possiamo afferrare quest'ultima solo con mezzi speculativi. Ne deriva che le nostre nozioni di realtà fisica non possono mai essere definitivi. Noi dobbiamo essere pronti a cambiare queste nozioni - cioè la struttura assiomatica della fisica - per poter considerare i fatti percepiti in modo sempre più perfetto, da un punto di vista logico.» (4)

Sebbene convinto che l'impresa scientifica sia la semplice prosecuzione dell'impresa filosofica con altri mezzi, dovendo fare i conti con una mentalità iperdiffusa che considera scienza e filosofia come due discipline distinte e spesso in contrasto, non mi resta che evidenziare quanto tutti credono sia inquestionabile: ovvero che Einstein fu un grande fisico.
Il suo anno magico fu il 1905, quando aveva solo 26 anni e tirava a campare come impiegato di seconda classe nell'Ufficio federale dei brevetti di Berna. Quattro articoli pubblicati sulla rivista in tedesco Annali di fisica lo resero immediatamente famoso tra i fisici. Il quarto era solo un approfondimento della teoria della relatività ristretta.
Il primo si intitolava Un punto di vista euristico relativo alla generazione e trasformazione della luce. Fu pubblicato a marzo. Conteneva la scoperta dei quanti di luce e la spiegazione dell'effetto fotoelettrico. Fu per questo articolo che gli venne riconosciuto il Nobel per la fisica, molto tardivamente.
Il secondo articolo fu pubblicato a maggio e si intitolava Movimento di particelle sospese in liquidi in quiete, richiesto dalla teoria molecolare del calore. Conteneva la teoria del moto browniano e mostrava, una volta di più, la reale esistenza degli atomi. Inoltre determinava in un modo unico la costante di Boltzmann.
Il terzo articolo fu pubblicato a giugno e si intitolava Elettrodinamica dei corpi in movimento. Era l'enunciazione della teoria della relatività ristretta, nella quale i concetti di spazio e di tempo della meccanica classica venivano letteralmente rivoluzionati. Vi si ribadiva che nulla è più veloce della luce e che essa si propaga nel vuoto in modo non relativo, mantenendo cioé una costanza in tutti i sistemi fisici, indipendentemente dalla velocità della sorgente e degli osservatori. Inoltre esso conteneva la premessa teorica della celebre formula E = mc2, ovvero l'affermazione che una piccola massa può produrre una grande energia.
Successivamente, Einstein non fu più sostenuto dalla folgore divina di cui ha parlato Emilio Segré, ma dovette faticare per anni prima di arrivare al suo capolavoro, cioè l'enunciazione della teoria della relatività generale. Lottò con essa come Giacobbe lottò con Dio in quella celebre notte in riva al fiume. Ma ci vollero anni per vincere. Toccò il limite del collasso fisico e neurale. Si riprese solo quando l'amico matematico Marcel Grossman gli porse finalmente le equazioni "giuste" per sostenere la relatività generale. Non ho idea al momento in cui scrivo come l'amico Amich cercherà di spiegarla. Io ho cercato di leggere l'articolo di Einstein sui fondamenti della relatività generale e mi sono bruscamente interrotto di fronte alle difficoltà matematiche dei tensori, che non sono decisamente il mio forte. Se ad Einstein ci vollero anni per districarsi, mi consolo col fatto che a me basterà il prossimo mezzo secolo. Ho ripiegato sull'Esposizione divulgativa e tutto quello che so viene di lì, oltre che ovviamente, da altri testi divulgativi.
Una spiegazione del campo gravitazionale è quanto di meglio possa augurarmi per chiudere questo pezzo ed andare a cena.
L'idea di Einstein è semplicemente fantastica e sono convinto che lo sia perché inizialmente non pensò in formule, se non in rapporto alle cosiddette asimmetrie tra la meccanica newtoniana e le teorie dell'elettrodinamica.
La teoria della relatività generale è una teoria completamente nuova della gravitazione, la quale non viene più considerata come una forza che si esercita tra corpi, ma come una proprietà dello spazio. Lo spazio si incurva per la presenza di materia come un telo per la presenza del ginnasta. I corpi meno massivi seguono nel loro moto le lineee di minor resistenza lungo le curvature provocate da quelli più pesanti. Il tic tac degli orologi è alterato dalla gravitazione, oltre che dal moto uniforme studiato dalla relatività ristretta. Le aste graduate e rettilinee vengono sostituite da"regoli molluschi", cioè strutture deformabili come una corda, e definite da Einstein come un corpo di coordinate gaussiane arbitrariamente scelto. La semplice geometria euclidea dello spaziotempo della relatività ristretta è abbandonata a favore di una struttura più complessa, simile ad una buccia d'arancia stirata in più punti e piegata in altri. Persino la luce subisce la forza dei campi gravitazionali e si propaga in linea curva, ad esempio, devia di 1,7 secondi in prossimità del sole. Einstein tenne a precisare che questo risultato non inficiava la teoria della relatività ristretta, e commentò: «Possiamo solo concludere che la teoria della relatività ristretta non può avere la pretesa di possedere un dominio illimitato di validità: i suoi risultati sono validi soltanto finché possiamo trascurare le influenze dei campi gravitazionali sui fenomeni (per esempio la luce).» (5)
In realtà, nemmeno la luce va esente dall'influenza dei campi di gravitazione.

Dopo la grande impresa della relatività generale, nella quale Einstein aveva spremuto il meglio delle sue risorse intellettuali, diede ancora contributi rilevanti alla fisica, ma si impegnò molto sia in politica (per il disarmo, la pace, il diritto all'esistenza dello stato d'Israele), sia in veste di animatore di dibattiti filosofico-scientifici.
Fu attorno al 1935 che egli mutò il suo atteggiamento circa la meccanica quantistica. Di questo aspetto della storia da ampio resoconto il file di Amich Einstein - Bohr: il dissidio. Qui vorrei solo evidenziare che Einstein reagì all'idea che la scienza debba limitarsi a descrivere, anziché spiegare la realtà. E avanzò la pretesa che uno schema teorico deve consentire l'elaborazione di una visione consistente e oggettiva (nel senso che non risulti logicamente dipendente dal nostro ruolo di esseri "coscienti"). Tale posizione, non preconcetta e nemmeno dogmatica, semplicemente, direi, esortativa, raccolse pesanti critiche di molti fisici, e si imputò ad Einstein una paradossale "chiusura mentale".
Anche in virtù di questi esiti, che indubbiamente presentavano aspetti dolorosi e umani, Einstein si isolò - relativamente: è il caso di dirlo - dalla comunità internazionale dei fisici, pur continuando a cogliere onori e meriti ovunque si recasse.
Il nostro impegno era quello di raccontare e spiegare la sua storia e l'influenza delle sue idee sul corso del mondo. In parte ci siamo riusciti, in parte vedremo di riuscirci in futuro.
note:
(1) Albert Einstein e Leopold Infeld - L'evoluzione della fisica - Bollati Boringhieri 1965
(2) Albert Einstein - Autobiografia scientifica - Bollati Boringhieri 1979
(3) citato in Abraham Pais - Einstein è vissuto qui - Bollati Boringhieri
(4) citato in Jeremy Bernstein - Einstein - Il Mulino
(5) Albert Einstein - idem come (1)