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Teologia e teorie economiche nel Medioevo
di Guido Marenco


Nella storia delle idee che gli uomini hanno circa il lavoro, la ricchezza e l'economia, il Medioevo occupa un posto particolare.
Le opinioni sull'economia dipendevano in gran parte da quelle etiche, dettate dalla Chiesa, che da un lato era autorità spirituale, dall'altro era soggetto politico ed economico di grandissima rilevanza, essendo diventata istituzione dotata di proprietà immobiliari, attiva sul piano della conduzione di fondi agricoli e di allevamenti di bestiame.
Nei primi tempi l'insegnamento della Chiesa era particolarmente restrittivo. Il commercio veniva considerato "peccaminoso" quando volto alla ricerca di un lucro, sopportato solo in quanto indispensabile. Tale visione in parte accoglieva una tradizione filosofica, dettata essenzialmente da Aristotele, dall'altra si rifaceva direttamente ai Vangeli ed agli insegnamenti dei Padri della chiesa. Nella valutazione dell'importanza di determinate idee nella storia dell'umanità, si può osservare che il contributo di Aristotele fu determinante sia per contestare il comunismo platonico, sia per definire concetti quali valore d'uso e valore di scambio e l'origine convenzionale della moneta quale strumento di misura dello scambio. Il quale, a sua volta, è un'inclinazione naturale dell'animale politico alimentata dai suoi bisogni essenziali. Tuttavia, non andrebbe dimenticato che si deve ad Aristotele l'importante distinzione tra economia e crematistica. Mentre con il primo termine si designa un comportamento "naturale", ovvero la produzione di beni e lo scambio di essi, con crematistica ci si riferisce ad un comportamento che antepone il profitto ad ogni altra considerazione. Sarebbe da identificare, sostanzialmente con un atteggiamento tipicamente mercantile,moralmente condannabile in individui che aspirino a raggiungere l'eccellenza.
La critica di Aristotele al comunismo dei beni faceva leva in particolare sull'argomento dell' incentivo. Secondo lo stagirita, l'uomo è tendenzialmente portato ad avere più cura per qualcosa di suo che per qualcosa di pubblico e comune. La proprietà comune comporta il rischio di controversie, specie quando si tratta del problema dell'equa distribuzione.
Secondo Aristotele, l'economia si divide essenzialmente in due parti: la scienza dell'amministrazione familiare e la scienza dell'acquisto.
La prima si occupa in particolare dell'amministrazione della famiglia e della comunità, dal villaggio alla polis. La parte rilevante di questa teoria, sotto il profilo storico, è la giustificazione della schiavitù, che tuttavia lo stagirita tende a limitare ai non greci, cioè ai barbari.
Da qualsiasi parte si prenda la questione, è evidente che si tratta di una teoria mirante a legittimare la società del tempo e la divisione del lavoro storicamente affermatasi, con il conseguente diritto del signore alla ricerca di una vita felice, che Aristotele descrive come una vita contemplativa, dedita allo studio ed alla ricerca.
Aristotele vede solo il vantaggio temporaneo che comporta la schiavitù; non concepisce che a lungo andare una società schiavista si fossilizza producendo individui incompleti, individui a cui manca l'esperienza fondamentale della vita, cioè il lavoro pratico, manuale.
E sarà questa una delle ragioni fondamentali del crollo del mondo antico, viziato alle fondamenta dalle rigidità della divisione delle classi..

Evidentemente, ai fini della storia delle idee economiche, la riflessione sulla scienza dell'acquisto costituisce la parte più interessante del pensiero aristotelico.
Il fatto che un paio di sandali possa essere sia calzato che scambiato, ad esempio con un sacco di frumento, acquisendo così un secondo valore (il valore di scambio), è del tutto naturale. Ciò che da questa base naturale, secondo Aristotele, può derivare, ovvero una caccia al profitto, non è però del tutto naturale. Anzi, diventa una deviazione dalla norma. Così facendo si perde di vista la funzione dello scambio che sta nel semplice procurarsi ciò che manca, offrendo ciò che abbiamo.
Il pensiero teologico medioevale trasformò ciò che Aristotele stigmatizzava in modo razionale ed argomentato in "peccato", cioè in una violazione dell'ordinamento divino. Come sempre, quando si perdono le ragioni argomentative, si cade in una sorta di cecità per cui si conosce il divieto ma non il motivo per il quale è stato introdotto. Ed è questa la ragione per il quale, per un periodo piuttosto lungo, non vi fu un vero pensiero economico. Era la materia stessa a puzzare di zolfo.
Ancora nel Trecento e nel Quattrocento, il mercante medioevale e il banchiere rinascimentale dovettero avere qualche problema di coscienza. Che però non andrebbe esagerato. «Si ricorda, ad esempio, il numero spesso rilevante, di messe o il cospicuo ammontare di lasciti pii che i mercanti hanno ordinato in punto di morte. Non si tiene conto però - scrive Alberto Tenenti - che queste pratiche erano entrate nei costumi e che, quando avevano i mezzi, gli ecclesiastici ed i nobili facevano altrettanto per la propria anima. Tali atti di devozione erano diventati delle manifestazioni di prestigio, uno status symbol, ed era naturale che i mercanti agiati non vi sottraessero più degli altri membri dell'élite sociale. In ogni caso non risulta proprio sinora che nell'insieme gli operatori economici, almeno dal Duecento in poi, fossero davvero straziati nella condotta dei loro affari dai divieti ecclesiastici e che fossero quotidianamente preoccupati in modo preponderante dal dissidio inconciliabile tra Dio e Mammona.» (1)

Forse, siamo rimasti suggestionati dal gesto iconoclastico ed estremista di San Francesco (1182 - 1225), che rubò i soldi a suo padre, ricco mercante, per distribuirli ai poveri. Crediamo grossolanamente che un vero cristiano conseguente così dovrebbe comportarsi, quantomeno con i suoi soldi. Al limite, possiamo concepire chi usa il suo denaro un po' meglio di Francesco, dando lavoro stabile e non elemosine. Ma, non dimentichiamo che esiste anche un livello minimo di pronto soccorso ai diseredati. E questo livello minimo è l'accoglienza, il piatto di zuppa, il giaciglio e la coperta.
Francesco, nel suo estremismo, si basava sul Vangelo e nient'altro. Ma la dottrina della Chiesa era già diversa da quella predicata da Francesco. Non solo non c'era un dogma della povertà, ma chi la predicava veniva visto con sospetto.
L'anno in cui morì Francesco, nacque Tommaso d'Aquino, il teologo-filosofo che avrebbe dato alla chiesa una cultura nuova, anche se saldamente ancorata alla tradizione. La produzione tomistica sarà considerata robaccia dai fraticelli; i francescani la guarderanno con disprezzo e timore, e, forse, anche con un pizzico di concupiscenza, come se il sapere e la riflessione sulle cose del mondo fossero roba d'altri da non desiderare, e non patrimonio comune dell'umanità.

Secondo Lionel Robbins (2), le trattazioni scolastiche dei problemi economici hanno scarso significato. San Tommaso si dimostra impacciato e goffo, finisce solo col trattare "i peccati commessi negli scambi" e quindi col condannare chi guadagna troppo, compresa l'usura, con riferimenti che vanno sia al nuovo che al vecchio testamento. Tuttavia, Robbins cita uno studio del De Roover, nel quale, l'autore riconosce al dottore della chiesa il merito di aver abbozzato una teoria del giusto prezzo in un mercato competitivo. Arrivando a dire che il mercante che in tempo di carestia aumenta i prezzi non commette peccato mortale, Tommaso mostrava però un'esagerata inclinazione all'indulgenza che l'insieme della chiesa non faticò ad assorbire. Come se, soprattutto in tempi di carestia, non vi fosse un superiore principio morale (e divino) che obbliga alla solidarietà, al razionamento ed all'equa distribuzione.
In realtà, la posizione di Tommaso, che andrebbe verificata sui testi (mico ho letto tutto!), di fatto apriva un varco ad una riconsiderazione della morale cristiana e del comportamento economico che era davvero in sintonia con lo spirito dei tempi.
Tuttavia Tommaso non volle sentir ragione sul tema dell'usura. « Ricevere un interesse per il denaro dato a prestito -scriveva - è cosa di per sé ingiusta. Poiché ciò facendo si vende quel che non è. La qual cosa rappresenta una palese ingiustizia, nettamente contraria alla giustizia. A dimostrarlo basta pensare che vi son cose il cui uso consiste, puramente e semplicemente, nella loro distruzione. Noi usiamo così il vino nel bere e usandolo, lo consumiamo. Allo stesso modo usando il grano nel cibo, lo consumiamo e lo annulliamo. In tali cose è impossibile considerare e calcolare separatamente l'uso della cosa e la cosa stessa. Di modo che a colui che al quale si concede l'uso di tali cose si concede anche la cosa stessa. Di tali cose, trasferendosi la prestazione, si trasferisce in pari tempo anche il dominio. Che direste di chi volesse vendere, separatamente, il vino e l'uso del vino? Non farebbe che vendere due volte la stessa cosa, e per una volta almeno venderebbe quel che non esiste. E di conseguenza peccherebbe contro la giustizia. Ecco perché commette ingiustizia colui che, dando a prestito del vino o del grano, pretendesse due ricompense: vale a dire la restituzione di una cosa uguale e una seconda ricompensa in forma di prezzo, di quel prezzo che è chiamato interesse. Vi sono altre cose invece che il cui uso non corrisponde alla loro consumazione. Così la casa, il cui uso non equivale alla sua dissipazione. Per tali cose si possono ben richiedere le due ricompense. Chi ad esempio dà ad altri il possesso della propria casa, può però riservarsene l'uso per il tempo che gli convenga. E parallelamente si può dare a qualcuno l'uso della propria casa riservandone però a sé il possesso. Per questo l'uomo può lecitamente ricevere un prezzo per l'uso concesso della sua casa, e oltre a ciò può può anche a buon diritto richiedere la sua casa in ordine. Il che tutto si verifica nei contratti d'affitto delle case. Il denaro, invece, a norma della dottrina aristotelica nel V libro degli Etici e nel primo dei Politici, è stato principalmente escogitato come mezzo di scambio, per cui lo specifico e peculiare uso della moneta consiste nella sua consumazione, vale dire nella sua dissipazione, nella misura in cui viene speso, attraversogli scambi. E per questo è essenzialmente illecito ricavare un prezzo dell'uso della moneta data a prestito, quel prezzo che è chiamato interesse. E come l'uomo è tenuto a restituire tutto quello che ha acquistato ingiustamente, così è tenuto a restituire il denaro ricevuto come interesse di un prestito fatto. » (la citazione è tratta da la Summa Theologica, questione LXXVIII)

Contrario all'usura, Tommaso consente però che il credente si indebiti, pagando anche un interesse. Perché? perché queste son le regole del mercato e le consuetudini sociali. E perché il fine, almeno in questo, giustifica il mezzo. Si può ricorrere a prestiti per fare opere buone. Così dal male può venire un bene.
«Indurre un uomo al peccato è assolutamente vietato - scrive Tommaso - Ma è lecito usare del peccato altrui per uno scopo buono. Anche Dio usa di tutti i peccati per fare qualche cosa di buono.»
Sarà?!
La posizione di Tommaso non è qui all'altezza della sua fama di fine ragionatore. Anche ai suoi tempi vi doveva essere qualcuno in grado di fargli notare che prestare denaro senza applicare un interesse significa rimetterci, almeno quando esistevano le condizioni per impiegarlo meglio. Il problema semmai, consisteva nel regolamentare, nel trovare la giusta misura dell'interesse. E mentre gli scolastici post-tommasiani si arrovellavano astrattamente su cosa è peccato nelle transazioni economiche, il mondo prendeva autonomamente le sue strade e le nuove consuetudini.
Ma, a beneficio di Tommaso, va detto che le sue ristrette idee in ambito economico, si inserivano in una visione della società e della politica molto più ampia e giudiziosa.

Il colpo grosso venne da un altro santo cattolico: Bernardino da Siena, uomo del tardo Trecento, che tuttavia scrisse molte cose basandosi su un eretico condannato e bruciato nel Duecento, tale Pierre Olivi. A differenza di Tommaso, che seguì Aristotele passo a passo, il nostro era convinto dell'utilità sociale del commercio al dettaglio. Adam Smith potrebbe persino essersi ispirato a lui quando scrisse che i consumatori, in un mercato esteso e libero, non faticano ad accorgersi degli imbrogli e che quindi l'onestà rimane il miglior comportamento commerciale.
«Concorda invece con Aristotele contro Platone e il suo comunismo. - scrive Robbins - San Bernardino pensa che le persone hanno maggior cura delle cose se hanno un interesse diretto nel loro uso o le utlizzano per trarne profitto, che non se appartengono a tutti.» (2)
I tardi teologi medioevali, constata Robbins, difendevano a spada tratta il comunismo monastico, ma sembravano piuttosto inclini a tollerare lo spirito mondano di chi pensava soprattutto ad arricchirsi. Fino ad un certo punto, ovvio.

Pressoché contemporaneo di Bernardino da Siena fu il francese Nicola Oresme, che divenne anche vescovo, ma quando scrisse di economia, attorno al 1360, era un semplice prete.
Il merito principale di Oresme fu quello di riconoscere al solo principe sovrano, quale rappresentante della collettività, il diritto di coniare moneta, avvertendo pari tempo che detto sovrano non avrebbe dovuto mai comportarsi da «signore della moneta in circolazione nel suo paese, giacché la moneta è uno strumento legale diretto a effettuare lo scambio delle ricchezze naturali fra gli uomini... perciò la moneta appartiene realmente a coloro che possiedono queste ricchezze naturali.» (3)
La posizione di Oresme è interessante per due motivi. Il primo è di natura più tecnica. Condannando l'esubero di produzione monetaria da parte dell'autorità, egli denuncia il rischio della depravazione del metallo pregiato, che è un attentato alla riccheza dei sudditi, cioè dei cittadini. Il danno procurato dalla svalutazione (depravazione) è peggiore di quello procurato dall'usura. La svalutazione è per Oresme una tassa occulta, una vera e propria frode perseguita dal sovrano disonesto nei confronti del suddito.
Il secondo motivo, data questa impostazione, è di natura più schiettamente politica. Oresme vedeva nel principe una funzione al servizio della collettività, e non un diritto divino al servizio del capriccio e dell'arbitrio del sovrano stesso e del suo codazzo. Seguendo Oresme, la Chiesa avrebbe continuato ad esercitare un reale magistero, senza concedere nulla alle ambizioni smodate dei sovrani, e di conseguenza ai nobili e ai mercanti.
Ma era forse, questo di Oresme, l'ultimo salmo levato ad un Dio di equità e di giustizia sociale.
Quando Lutero impugnò la spada della Riforma, la chiesa vendeva indulgenze ai peccatori, cioè la salvezza dell'anima a imbroglioni, ladri, assassini, stupratori e furfanti, appaltando persino la direzione ed il corso dei lavori a mercanti professionisti quali i Fugger.

1) Eugenio Garin ( a cura di) - L'uomo del Rinascimento - Laterza 1992
2) Lionel Robbins - La misura del mondo - Ponte alle Grazie 2000
3) Eric Roll - Storia del pensiero economico - Boringhieri 1966


gm - rivisto il 7 giugno 2012

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