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Speranza nell'eslstenza di Dio




Speranza nell'esistenza di Dio
di Guido Marenco
E quando dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
Io lo vedrò a me favorevole
lo contempleranno i miei occhi, non quelli di un altro
Il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
(Giobbe 19 26,27)
Sono stato cortesemente invitato a spiegare perché nell'introduzione ad Ateismo e religione tra Cinquecento e Settecento (vedi) affermo di sperare nell'esistenza di Dio. Proverò a dare una risposta, sapendo in partenza che non può essere universalmente condivisa.

Sull'esistenza di Dio non ho alcuna certezza e quindi non posso predicare la sua esistenza senza sentirmi onestamente a disagio. Sono però transitato dal "chissà se è vero?" al "però sarebbe bello se fosse vero!". Ciò, pur avendo diverse cose da rimproverarmi e da nascondere per pudore. A differenza di Giobbe che si trovò incolpevole. Chissà quanti capi d'accusa troverebbe il Giudice supremo, posto che esista. Ciò nonostante non mi tiro indietro. Temo il giudizio, ma lo auspico. So di non essere stato un "santo inappuntabile" e nemmeno aspiro ad esserlo nel senso di qualche perfezione da manifestare. Mi basterebbe un posto in ultima fila, passando l'esame per il cosiddetto "rotto della cuffia". Oltre a ciò non ci sarebbe altro da spiegare, anche perché non voglio fare l'originale a tutti i costi. E' un pensiero semplice, che non mi è costato alcuna fatica del procedere. Essendo diventato un pessimista su tutto quanto è di competenza di una riflessione morale sulle storture dell'umanità, mi è diventato indispensabile mantenere aperta una finestra sull'ottimismo per non cadere in una depressione profonda ed irreversibile.

Sempre ragionando onestamente, dovessi trovarmi ad assistere un malato terminale, un amico od un'amica colpiti da male inguaribile, mi sentirei pressoché obbligato ad incoraggiare la fiducia nell'al di là, come fossi un prete cattolico, un pope ortodosso, un pastore di chiese riformate, un rabbino, un teologo islamico di ampie vedute umanistiche. Non è questione di doppia verità; è questione di coscienza. Ad un giovane arzillo e in buona salute si possono presentare i propri dubbi e conseguentemente le proprie speranze di soluzione. Ma ad un agonizzante non si può negare una parola forte di incoraggiamento. "Affronta la morte con fiducia, ti attende un'altra vita". Aggiungerei: "non mi interessa conoscere le tue colpe, ma se parlare ti allevia la pena, parlami".

La speranza nell'esistenza di Dio davvero nessuno me la può togliere. I motivi sono due. Il primo è dichiaratamente egoistico. Non desidero dissolvermi nel nulla e mi piacerebbe esistere in eterno. Non trovo alcuna necessità in una credenza cieca nella morte come fine dell'esistenza individuale. L'argomento di Epicuro non solo non placa la mia fame di esistere, ma trascura in modo vistoso la dimensione del dolore e della sofferenza. Prima della morte viene spesso la malattia e questa rischia di diventare una estenuante agonia che si trascina giorno dopo giorno in un'angoscia crescente che stringe il cuore ed impietosisce chi vi assiste, posto che abbia un cuore e non una pompa di cinismo.

Il secondo motivo mi sembra più nobile. Non si dovrebbe credere nella possibilità di farla franca. La morte non azzera le responsabilità delle azioni compiute in vita. Spero che così sia e che pertanto ognuno venga chiamato a rispondere dei crimini commessi, senza spirito di rivalsa o di vendetta, senza il rigore della tolleranza zero che spesso si reclama nei confronti degli altri, ma del quale ci si dimentica quando si passa a parlare di se stessi. Per quanto mi riguarda, oso anche sperare che l'inferno concepito come eterna dannazione non esista e che sia possibile uscirne dopo aver scontato le pene appropriate per il tempo appropriato. Rispetto a ciò, sotto il profilo dottrinale resta un problema pesante come un macigno: chi bestemmia lo Spirito Santo non sarà perdonato, come recita il Vangelo di Matteo. Forse, l'ammonimento vale solo per i credenti che sanno, forse no. Non lo so, mi auguro che chi per errore, immaturità od ignoranza si sia macchiato di questa colpa, venga comunque perdonato.

Questa ragionevole speranza impone di considerare il Dio in cui spero con almeno due qualità stabili e non sottoposte a cambiamenti di umore: giustizia e misericordia. Ma non è da saggi vivere fidando nella misericordia e quindi agendo con spregiudicata disinvoltura. Quando si compiono azioni malvagie sapendo che sono malvagie, contare sulla misericordia e il perdono costituisce davvero una sfida, la più oltraggiosa alla verità. E' comprensibile che infanti ed adolescenti facciano conto sull'amore incondizionato di genitori permissivi. Ma col passare degli anni tale attitudine potrebbe diventare superbia consolidata e durevole. Ciò in cui spero è il ridimensionamento degli arroganti e non la loro esaltazione.

Dopo di che sarebbe necessario parlare dell'Antico Testamento biblico, evidenziando il suo carattere di "racconto ed esaltazione degli orrori". Ciò è quanto, sotto il profilo dottrinale, spetterebbe allo Spirito Santo che scese sugli Apostoli e li mise in condizione di parlare le lingue e di spiegare il senso delle scritture. Mi sono imbarcato in un'impresa simile forse troppo presto, senza attendere pazientemente e con fiducia la poderosa azione illuminante che scende dal cielo. Ma mi sono ben guardato dal considerarmi Spirito Santo. Senso critico, certo. Probabilmente è un dono dello Spirito Santo, ma non è la sua piena realizzazione. Preferisco parlare come Giobbe, da uomo a Dio, da uomo a uomini e donne, e non da Dio all'uomo.

gm - 1 agosto 2014

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