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Deleuze e la politica
Un po' di possibile, sennò soffoco


di Guido Marenco

Nessun filosofo del Novecento ha saputo spiegarci il mondo, le società umane e chi "siamo noi" in due parole, o quantomeno sobriamente. Ma Deleuze ha sfondato il limite, usandone (e inventandone) troppe, civettando con concetti ambigui raddoppiati (cosa c'è di più ambiguo di un "doppio"?), costruendo e decostruendo, demistificando e rimistificando, trovando ed evidenziando relazioni di importanza secondaria, ignorando quelle che avrebbero potuto avere un vero rilievo pubblico. Il mio potrebbe sembrare un giudizio personale, ma è evidente che ho un altro concetto del lavoro filosofico, e da questo muovo. Il filosofo deve semplificare e non complicare, anche se la sua funzione primaria rimane quella di seminare dubbi (sulle cose dubbie) e non istigare a fedi o certezze.
Non sto pensando a popolarizzare il filosofo e volgarizzarne l'impegno; sto solo dicendo che per stare in mezzo alla gente, ai giovani, occorrono modestia e chiarezza, e che sono queste le qualità che danno il carisma.
Gilles Deleuze ci ha (mi ha) indubbiamente complicato la vita, filosofica e non solo, per qualche tempo. Mi ha anche fatto sbadigliare, ma questo accade anche quando rileggo i miei scritti e quindi non ha rilevanza. In larga parte mi ha anche deleuze, pardon, deluso, ma siccome in certi momenti mi ha anche sorpreso, parlerò solo di questo, considerando che rimanere sorpresi non implica altra forma di condivisione che il riconoscimento del problema sollevato.
«Un po' di possibile, sennò soffoco.» (1)
Con questo richiamo kierkegaardiano, dopo aver negato che il 'possibile' esiste, e dopo aver affermato che esiste, ma non arriva mai, ecco che lo reclama con una battuta che finalmente lo rende umano. OK, ci siamo passati tutti. Anch'io, pessimista di natura spessa e radicata, aspetto ancora un possibile che non arriva mai. Ma questa faccenda riguarda moi, non l'evoluzione della specie o lo sviluppo sociale, territori in cui il 'possibile' è sempre già in parte realizzato per un verso o negato per l'altro. Deleuze, al contrario, ragiona sul 'possibile' sotto un profilo politico, senza cedere, si badi, ad una qualsiasi tentazione volontaristica.
Anzi, nell'èpuisé, sembrava affermare che l'esaurimento del 'possibile' era una cosa molto buona, invitando persino a smetterla di pensare che sotto al secondo strato di realtà esistessero riserve di 'possibile'. Penserete che il 'possibile' non è come il petrolio, il quale finirà tra alcuni decenni e comunque costerà sempre un po' di più. No, non ci avete preso. Il 'possibile', per Deleuze era già finito! Questo, senza specificare che cosa avrebbe dovuto essere 'possibile', l'utopia di chi, la speranza di chi altri, quale forma sociale nutrisse dall'interno il sogno. Deleuze confusionario ed ingenuo non meno di noi (quelli di noi che ci hanno creduto un po' di più). Ora, è questo che fa incazzare nei filosofi 'continui' e chiacchierosi. Diamogli un nome a questo 'possibile' ma un nome che capiscano tutti: era Paradiso Terrestre? Sì, funziona, così ci capiamo. Beh... non c'è, non esiste, non c'è mai stato un paradiso terrestre se non nella testa di quel satanasso che riscrisse una parte di Genesi sovrapponendosi ad uno scritto anteriore. Non c'è mai stato e non è possibile in quella forma peraltro contraddittoria, che solo menti confusionarie potevano ammettere, di corpi spirituali ed immortali immersi in un mondo naturale percorso da unità di carbonio. Ci fu un profeta che immaginò di fare del lupo un vegetariano, ma questa era una metafora sull'uomo, anche quello caratterialmente più simile al lupo. Hobbes, che era un agnello, pensò bene di mettere fine alla faccenda inventandosi uno 'stato' nel quale si vende la libertà in cambio di sicurezza, e diede un bel colpetto all''utopia, dicendo che nient'altro è 'possibile'.
Abbiamo sognato ,alla faccia di Hobbes, una società più giusta, meno disguaglianze, pace. Era 'questo' il 'possibile', e lo è ancora. Ma nell'ottica minoritaria del gauchisme di Deleuze, né leninista, nè spontaneista, ma, come dire, e come vedremo, un po' bordighista ed un po' taoista, 'possibile' era un evento in grado di liberare altri eventi in una catena di eventi, rispetto ai quali meno si progettava, meno si rilasciavano intenzioni e meglio era.
C'e, per Deleuze, (c'era negli anni '80 e suppongo ci sia ancora...ehm) una sinistra che non credeva più nel 'possibile'. Il che, detto in altre parole significa che non credeva più nell'utopia e nemmeno nella speranza. Del resto bastava guardare la faccia di Breznev per capire che non c'era più speranza, 'quella' speranza. Bisognava che tutto finisse affinché tutto potesse ricominciare, magari da un'altra parte. Ma in questo, per Deleuze, stava il buono. Dove stava il 'buono' e dove stava Deleuze?
Lo spiega bene Françoise Zourabichvili in un saggio su Aut Aut: «Sulla scia di Bergson... [...] il possibile non lo avete in anticipo, non lo avete prima di averlo creato. Il possibile consiste nel creare del possibile. Si passa qui a un altro regime di possibilità, che non ha più nulla a che vedere con l'attuale disponibilità di un progetto a realizzarsi o con l'accezione volgare del termine "utopia"... [...] Il possibile accade attraverso l'evento e non viceversa; l'evento politico per eccellenza - la rivoluzione - non è la realizzazione di un possibile, ma un'apertura di possibilità ...» (2)

E qui, tanto vale passare alla citazione diretta: «In fenomeni storici come la Rivoluzione del 1789, la Comune, la Rivoluzione del 1917, vi è sempre una parte d'evento, irriducibile ai determinismi sociali, alle serie causali. Gli storici non amano molto questo aspetto: essi restaurano delle causalità a cose fatte. Ma l'evento stesso sgancia o rompe tutte le causalità: è una biforcazione, una deviazione rispetto alle leggi, uno stato instabile che apre un nuovo campo di possibilità.» (3)

Qui la questione è finalmente tematizzata in modo chiaro: sono gli eventi a determinare la possibilità, cioè 'quel' tipo di possibilità auspicato da Deleuze. Il succo potrebbe essere: possiamo fare ben poco per determinare eventi di quel genere, ma quando questi si presentano, molto è possibile. Ai più avveduti questa potrebbe sembrare la scoperta dell'acqua calda, perché sia Marx, che soprattutto Engels, per non dire di Lenin, avevano già messo la questione su questi binari. Invece no, non è proprio così semplice. Nei progetti che si fondano sulle intenzioni (termine che introduco arbitrariamente per chiarezza espositiva) non c'è mai la sufficiente apertura al 'nuovo', al 'diverso', a ciò che abbiamo pensato e scartato come 'impossibile'. Il progetto di ingegneria sociale nasce vecchio, 'superato' ed inadeguato per definizione. Applicato in tal guisa alla realtà, diviene ideologico al primo stormir di fronde, chiude le porte a molte opportunità, finisce col realizzare solo una piccola parte del 'possibile' prima di essere eroso, mangiato e ridotto in cenere dalla realtà stessa.
Quindi, gratta gratta, il senso della possibilità che sembra emergere dagli scritti di Deleuze non si discosta molto da quella idea dinamica del comunismo descritta da Marx e da Engels nell'Ideologia tedesca. Non una nuova struttura, o, non solo, una nuova struttura, non uno stato da edificare, nemmeno l'elettrificazione più il potere ai soviet meno la bolletta, ma l'abolizione del potere e della bolletta, più qualcosa d'altro che potrebbe voler dire la comunanza, l'insorgere del concetto di comunità vivente ed insieme l'individuo libero di fare il cacciatore al mattino, l'artigiano al pomeriggio ed il filosofo alla sera. Tutto questo riporta ad un'oggettività della storia, non ad un soggettivismo volontaristico, non ad esempi di buona volontà, né tantomeno ad imposizioni di tipo totalitario e dittatoriale. In Marx, tutto ciò è deterministico: deve accadere, accadrà in forza di leggi storiche precise. In Deleuze l'abbozzo è più probabilistico, anzi non c'è verso di prevederlo, si può solo auspicare.
Ma c'è un altro lato, non meno importante, rispetto al "che fare?". Deleuze non sta né con Lenin e l'organizzazione, né con lo spontaneismo, il quale sarebbe nient'altro che che una deleteria percezione inconscia del fine.
La non via indicata da Deleuze è la via di Lao Tsu, un lasciare che le cose accadano, senza più pretendere di sottomettere il reale con progetti cartesiani di ingegneria sociale. La volontà non precede più l'evento e non deve precederlo. E' il nulla di volontà e questo è un fatto del tutto post-moderno. Se Nietzsche lo aveva diagnosticato e Dostoevskij lo aveva anticipato in alcuni suoi personaggi, ora si tratta di applicarlo. Nel frattempo sulla scena, erano apparsi dei guru che insegnavano che il mondo è nelle nostre mani quando si cessa di desiderarlo. Ma questa è un'altra storia, che poco o punto c'entra con Deleuze. La sua speranza è tutta giocata sulla parola-chiave dell'intollerabilità.
Toccheremo un punto, sembra dire, in cui le situazioni si faranno intollerabili, e ciò creerà il tipo di eventi che possiamo aspettarci. Nel frattempo bisogna rompere con la logica dei cliché, che è il difetto ed il limite del gauchisme. Nel far ciò; Deleuze chiama ad una rottura degli schemi senso-motori (addirittura!) che sono in Piaget, che perdurano nello strutturalismo. Una nuova visione, una nuova pazienza (termine che introduco io) si acquisisce rivoluzionando gli schemi senso-motori.
Ho una brutta impressione, anzi, ne ho due, la prima è che Deleuze non si rese ben conto che lo schema senso-motorio di Piaget risponde a criteri talmente oggettivi da risultare inconfutabile. Secondo natura? Yes, secondo natura. La seconda è che tutta questa pazienza sia ancora viziata da un ideologismo che imputa al sistema ciò che va imputato all'uomo singolo, preso nella sua chiarissima specificità. Se il mondo fa schifo, non è la società, non è il sistema, ma è l'uomo, anzi, un certo tipo di uomo ( e donna, ovviamente), il responsabile, ed indicandolo nel 'machiavellico' credo di essermi spiegato. Molti dei nostri desideri sono realmente innocenti, non tutti, ci mancherebbe, ma è il modo in cui tentiamo di realizzarli che fa orrore ad una coscienza limpida, una coscienza che consideri l'altro, chiunque esso sia, un essere da rispettare e non uno strumento da usare. Sarà il sistema che ci costringe a questo? Tutti i sistemi, finora sì, ci hanno spinto, ci hanno condizionato, ma non ci hanno costretto se non in casi eccezionali. L'uomo morale, perché libero, ha sempre trovato linee di fuga, compresa la diserzione. E allora, rimarrebbe da dire solo che la pazienza necessita di un orientamento: non ci aspettiamo, non vogliamo un nuovo sistema, vogliamo un individuo meno 'machiavellico', vogliamo una politica meno meschina e calcolante, vogliamo relazioni pulite. Tutto questo richiede pazienza, tanta, ma anche volontà. La volontà di non sostenere chiunque agisca in senso contrario.
Si da poi il problema del governo, questione che non tocca Deleuze perché gauchiste, gruppettaro per vocazione, destinato ad opporsi sempre e comunque. Una volta arrivati al potere, invece di preoccuparsi di come mantenerlo in un'ottica 'machiavellica', occorrerà assumersi responsabilità e dare risposte. Ci avete mai pensato?
Che si fa domani? Possiamo lanciare i dadi come auspica Derrida? Possiamo aspettare fino a sera, come consiglia Deleuze ( a quale sera? Di quale anno?)


note:
1) Gilles Deleuze - L'immagine-tempo Cinema 2 - Ubulibri, 1989
2) Françoise Zourabichvili - Deleuze e il possibile (sul non volontarismo in politica) - in Aut Aut 276, novembre-dicembre 1996
3) G. Deleuze e F. Guattari - Mai 68 n'a pas eu lieu - "Les Nouvelles" 3-9 maggio 1984