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1. “Darwin for Dummies”.
di Guido De Pascale
“Il tempo trasforma la natura di tutto ciò che è nel mondo
E ciò che oggi viene alla luce sorge da remote forme scomparse.
Nulla resta mai simile a sé stesso: tutto è instabile,
ed a forza costretto a mutar natura e trasformarsi.
Se infatti qualcosa nel mondo si degrada e dissolve,
grazie alla sua rovina altro fiorirà alla vita.”

Lucrezio
Su Charles Darwin - lo si sa - la storiografia ha la particolare fortuna d’una documentazione amplissima su pressoché tutti gli aspetti della biografia e della vicenda scientifica. S’è detto ‘fortuna’, e tale certamente va considerata, anche se, a giudicare dalla massa di discussioni che egli ancora suscita dopo quasi un secolo e mezzo, ci sarebbe da dubitare che a volte nelle cose umane la fortuna basti. In ogni caso qui ci asterremo dall’accumulare particolari storici e biografici soltanto perché abbiamo un nostro intento assai modesto, e cioè delineare un quadro possibilmente organico ma assai essenziale delle tesi di Darwin. Utilizzeremo così lo spazio risparmiato a divagazioni erudite per non tralasciare nessun passaggio, per quanto banale, e per esplicitare le obbiezioni, magari un po’ ingenue, che possono nascere in chi legge molte delle pagine scritte sul grande Inglese. Vorremmo infatti metter in evidenza, in coerenza col sito che ci ospita, più che questo o quel particolare nella straordinaria messe di risultati scientifici raccolta da Darwin, innanzitutto l’essenziale suo lascito filosofico e seguirne il destino - glorioso, ma certo anche assai combattuto - nel successivo dibattito novecentesco. A molti dei concetti qui esposti contiamo di ritornare nella discussione divulgativa che avvieremo su alcuni problemi della biologia contemporanea, in particolare di tema evoluzionistico, e su alcuni degli autori che maggiormente ne sono protagonisti.
Va da sé che in questo nostro primo intervento introduttivo non intendiamo spacciare la sintesi per oggettività, quasi si fossero riportate le sole idee più generali su cui non v’è più dissenso. All’opposto: praticamente tutte le tesi interpretative che seguono, anche quelle che parrebbero più scontate, così come la loro concatenazione e gerarchia, avrebbero potuto e dovuto esser accompagnate da un gran numero di distinguo e di precisazioni, di apologie e di controattacchi; l’abbiamo evitato per ora e composto candidamente il nostro personale zibaldone darwiniano. Ma è chiaro che l’esposizione delle discussioni e polemiche di cui sono ancor oggi al centro non è che rinviata.

1. La “piccola rivoluzione” di Darwin.

In genere la teoria dell’evoluzione appare legata innanzitutto al concetto di ‘adattamento’; concetto che, seppur ancor oggi al centro di una vera e propria guerra filosofica, sembra – nella sua accezione più generica - del tutto banale: che le specie viventi abbiano le proprie forme e attitudini allo scopo di poter sopravvivere e riprodursi nei diversi ambienti naturali e che esse vengano trasmesse di generazione in generazione, non si direbbe di per sé né una scoperta né una teoria, ma un ovvio dato di fatto. Come tale è in effetti sempre stato tenuto, integrandosi senza difficoltà anche nelle teorie creazioniste tradizionali; in quest’ultime, anzi, la condizione di adattamento delle specie animali e vegetali ha rappresentato a lungo una delle maggiori prove dell’esistenza di un Dio benevolo che, nel creare le forme di vita, le provvede dei mezzi fisici necessari per prosperare nell’ambiente.
Una prima significativa problematizzazione di questo quadro si ha quando lo sguardo scende ad un diverso ordine di fatti, dotati magari di minor immediata evidenza, ma anch’essi del tutto incontestabili. Essi fanno pensare che lo stato di adattamento che constatiamo per tutti gli organismi viventi, possa non essere una condizione stabile e definitiva, ma piuttosto il risultato di un processo che si è sviluppato nel tempo, che è ancora in atto e che verosimilmente è destinato a non trovar mai conclusione. E’ esperienza comune che la prole spesso mostra caratteri non riscontrati in nessuna delle generazioni precedenti; caratteri che non possono essere giudicati come semplici accidenti individuali, poiché molti di essi, una volta comparsi, sono trasmessi alle successive generazioni e possono a fissarsi nel tempo. Questo fatto aveva rappresentato una fondamentale risorsa degli allevatori, si può dire, dalla rivoluzione neolitica in poi. Un’altro importante indizio logicamente coerente col precedente, è la presenza di numerose testimonianze fossili che mostrano l’esistenza nel passato di una flora e di una fauna del tutto diverse rispetto a quelle attuali.
Fatti di questa natura, come s’è detto, sono stati sempre disponibili all’osservazione; essi tuttavia si manifestano in modo piuttosto diradato tanto nel tempo che nello spazio e quindi nell’esperienza comune non riescono a contrastare l’impressione che la generazione abbia come sua unica finalità quella di replicare i genitori nella prole in modo fedele e non innovativo; “iuxta genus suum”, come s’esprime la Genesi. I fenomeni di trasformazione furono a lungo considerati come eventi superficiali, se non aberranti e patologici, insufficienti ad inficiare la regola generale di immobilità. Così, se una sotterranea corrente ‘trasformista’ non è mai stata assente lungo i secoli della filosofia europea (fortunatamente mai del tutto priva di menti spregiudicate), nondimeno fino almeno alla seconda metà del XVIII° secolo non se ne diede alcuna seria elaborazione teorica ed il tradizionale ‘fissismo’ dominò incontrastato.
Con la grande fioritura scientifica dell’Illuminismo settecentesco, con una metodologia scientifica pienamente matura e con la gran messe di dati osservativi oramai a disposizione, quel paradigma tradizionale non poté più a lungo celare le proprie contraddizioni. Una famosa disputa, seguita con passione dal pubblico colto del tempo, contrappose Georges Buffon e Karl Linné proprio sulla possibilità di classificare rigorosamente il mondo degli organismi, sia animali, sia (particolarmente) vegetali, in presenza di tante forme intermedie, varietà regionali, ibridazioni, etc. La natura vivente, affermò il naturalista francese, non ammette classificazioni e “ci stupisce più per le sue eccezioni che per le sue leggi”. “Varietates laevissimae non curat botanicus” fu lo spirito della replica di Linneo, nella cui grande opera, però, tutt’altro che lievi erano stati i compromessi necessari per dare al creazionismo biologico un’assetto accettabilmente preciso.
Proprio ad un discepolo di Buffon, Jean-Baptiste Lamarck, si dovette, al passaggio fra XVIII° e XIX° secolo, il coraggio e la spregiudicatezza intellettuale per una prima elaborazione teorica della “biologia”, come egli la battezzò, che facesse della trasformazione delle specie animali non più un fenomeno accessorio e deviante nel mondo vivente, ma un suo fondamentale carattere costitutivo.
Il mezzo secolo che separa la ‘Filosofia zoologica’ di Lamarck dall’’Origine delle specie’ di Darwin non costituì altro - su questo generalissimo piano - che la maturazione necessaria per passare da quel primo gesto iconoclasta, ancora venato di suggestioni ed evocazioni di sapore metafisico, ad un lavoro di pretto stampo scientifico, del tutto alieno da generalizzazioni incaute e ricolmo di rigorose osservazioni sul campo. Ma la generale intuizione di fondo che la trasformazione fosse stata la matrice stessa del mondo animale e non un accidente secondario, era di per sé non troppo lontana quella che a suo tempo un Cicerone aveva potuto leggere nelle pagine di Lucrezio. Lo stesso Darwin ne era cosciente e non mancò di aggiungere alla IIIa edizione dell’Origine delle Specie, un elenco della lunga serie di “precursori” che l’idea di evoluzione – nella sua accezione più generale - poteva vantare nel corso dei secoli.
Accanto a questa fondamentale tesi - di per sé tutt’altro che originale ma che solo con Darwin prese definitivamente il sopravvento sui paradigmi concorrenti - l’’Origine delle specie’ aggiunse altri notevolissimi risultati collaterali, formulando e dimostrando non pochi nuovi “teoremi” derivabili direttamente da quel primo assioma. Tra di essi centrali furono quello della ‘moltiplicazione delle specie’ e quello della ‘discendenza comune’.
Per Darwin infatti è stata proprio la trasformazione incessante, lungo intervalli di tempo verosimilmente enormi, ad aver prodotto la straordinaria diversità biologica che constatiamo nell’oggi e che i fossili ci mostrano, moltiplicandone gli ordini di grandezza, anche per le epoche più antiche. Questo processo può avvenire sia per trasformazione nel tempo di un’unica linea, sia per la biforcazione di questa a seguito del frazionamento della popolazione di ogni singola specie a causa, in genere, di eventi geologici. Le specie dunque non solo si trasformano nella loro “qualità”, ma si moltiplicano nella loro “quantità”, secondo lo schema di un albero che nel corso del tempo continuamente produce nuovi rami, divenendo sempre più grande e complesso.
Dalla visione del mondo vivente sin qui delineata, nasce inevitabilmente l’idea che tutte le specie siano imparentate e che, discendendo col nostro pensiero lungo i rami verso il tronco, si debbano ipotizzare per il passato forme sempre più semplici e in numero più ridotto, sino ad un ipotetico ‘antenato comune’ di tutti i viventi. All’interno di questa concezione anche la specie umana deve essere fatta rientrare, rappresentando essa null’altro che uno dei rami più recenti ed ancora verdeggiante.


2. La grande rivoluzione di Darwin.

I teoremi, lo si sa, costituiscono degli importantissimi incrementi di conoscenza, ma sono anche deduttivi, e quindi sostanzialmente “impliciti” negli assiomi da cui derivano. Così, a non voler concedere proprio nulla alla nostra grande ammirazione per Darwin, anche l’importantissimo ed originale gruppo di idee che abbiamo esposto sinora, e che non a caso Ernst Mayr ha definito come “prima rivoluzione darwiniana”, pur costituendo un carniere formidabile di risultati scientifici, forse ancora non meriterebbe l’evocazione enfatica di Copernico o Einstein. E questo è forse dimostrato anche da un particolare di ordine psicologico: i funerali di Darwin. Subito dopo la sua morte infatti, la cerchia dei suoi amici ottenne facilmente dall’opinione pubblica, dalle istituzioni e dalla stessa Chiesa anglicana, il consenso ad inumarne le spoglie nella cattedrale di Westminster, accanto a Newton. E’ ben difficile pensare che delle ipotesi scientifiche (in questo caso oltretutto non sorrette dalla cogenza di dimostrazioni matematiche, e attinenti a questioni controverse e coinvolgenti direttamente il mondo umano) potessero essere consacrate così rapidamente ed incondizionatamente, come non più suscettibili di smentita, se radicalmente rivoluzionarie: ventitrè anni sarebbero stati veramente pochi per passare dalla taccia di eretico temerario alle volte solenni di Westminster.
In realtà le idee che abbiamo esposto finora, e che sono quelle che gli meritarono tanto onore, rappresentano parte importante del lascito di Darwin, ma non sono il vero cuore “acido” della sua teoria. Nemmeno – lo si noti – l’idea secondo cui l’origine dell’uomo sia puramente animale. Che l’”uomo discendesse dalla scimmia”, fu affermazione che poté riscaldare i salotti e ispirare sapide caricature sui giornali satirici, ma era tutto fuorché una novità in un’Europa che aveva già conosciuto e in buona parte metabolizzato la lunga stagione dello scientismo materialista sei-settecentesco; ne avevano già scritto (fra quelli che non finirono sul rogo, come Giulio Cesare Vanini) tanto Erasmus Darwin, quanto Lamarck.
Insomma, la “lotta per la sopravvivenza” che il gruppo delle idee darwiniane - fin qui esposte - dovette affrontare, fu in realtà breve e quasi incruenta e, come ha scritto Ernst Mayr, già “dopo quindici anni dalla pubblicazione dell'Origine, sarebbe stato difficile trovare un biologo degno di questo nome che non fosse ormai diventato evoluzionista.” (1)
Il fatto è che una volta imposta così efficacemente l’idea che le specie animali sono soggette a mutamento, che in questo processo esse si diversificano e moltiplicano e che nessun organismo vivente, nemmeno l’uomo, eccepisce a questa vicenda universale, Darwin - e questo è certo il segno della sua grandezza intellettuale - fu ben lungi dal ritenersi appagato. Una simile sensazione poteva ben darsi nel più largo pubblico che d’un tema così complesso riteneva solo le linee generalissime, ma in realtà Darwin, sin dalla sua prima conversione al trasformismo, fu cosciente che per quanti dati d’osservazione avesse accumulato, le sue idee sarebbero rimaste sempre voltate in aria se egli non avesse trovato, per così dire, un “principio-guida” al processo evolutivo.
Un mutamento di per sé può procedere in ogni direzione: può configurarsi come un reale adattamento ma può costituire anche un handicap o magari non essere definibile né in un senso né nell’altro e conferire semplicemente un andamento caotico ad un’incontrollabile moltiplicarsi di forme. In natura, invece, il mutamento a lungo termine sembra sempre indirizzarsi verso soluzioni che appaiono positivamente finalizzate. Se a questo carattere non si fosse trovata una convincente spiegazione “interna”, cioè immanente e naturale, il passaggio dal fissismo al trasformismo sarebbe stato un ben modesto guadagno e avrebbe reclamato nuovamente il ricorso alla consueta divinità trascendente: come prima per spiegare l’adattamento efficace stabilizzato ab aeterno, così adesso per spiegare la capacità di realizzarlo in un processo diluito nel tempo. Suggestioni ed accenni, se non chiari precedenti, non sarebbero mancati anche a cercare nella più antica letteratura cristiana; in specie Sant’Agostino, condizionato dalla tradizione filosofica greca, aveva già mostrato una qualche difficoltà nel riformulare teologicamente l’arcaico mito biblico di un’istantanea e arcana cristallizzazione della Volontà onnipotente; così più volte ricorre ad espressioni platonizzanti ed aristotelizzanti che alludono all’atto creativo, pur con molta prudenza, come all’avvio d’un processo in divenire (2).
Proprio in questo tipo di suggestioni – sia detto per inciso - si cercò sin da subito soccorso, nei primi decenni della diffusione delle idee darwiniane in Europa, per scongiurare che la teoria apparisse come un nuovo, ennesimo avallo della scienza all’auge materialista e atea. Ed ancor oggi, di fronte ad un evoluzionismo in pieno rigoglio e sempre più incontenibile, in non pochi settori del pensiero cristiano e cattolico in specie, si conserva l’illusione d’un compromesso di tal natura, in apparenza abbastanza indolore: accettare la realtà del processo evolutivo come descritto dalla scienza, ed attribuirne l’innesco iniziale, così come il disegno finalistico generale, alla mente del Creatore. (3)
Ad un medesimo passaggio, mezzo secolo prima, s’era già ritrovato Lamarck ed anch’egli, come poi Darwin, aveva cercato evitare il ricorso semplicistico ad un Principio intelligente di carattere divino. Per il naturalista francese, com’è noto, il mutamento che si trasmette alla prole è della stessa natura di quelle trasformazioni che otteniamo nel nostro organismo attraverso l’esercizio, l’abitudine, l’allenamento. Quale sia il principio che guida intelligentemente un processo di tal natura è ben evidente: se ci prepariamo per ottenere una certa prestazione, noi stessi organizzeremo il nostro allenamento in modo finalizzato e razionale, curando i muscoli e gli organi che più ci sono utili per essa, provando e riprovando con metodo i movimenti necessari. La medesima cosa Lamarck pensava per tutti gli altri organismi animali: anch’essi si muovono nel loro ambiente a ragion veduta ed allenano e fortificano proprio quegli organi che sono utili e nel modo che è più utile; la giraffa (si perdoni l’esempio usuratissimo) ha sviluppato la morfologia particolare del suo collo perchè essa ha l’intelligenza sufficiente per conoscere il suo ambiente, localizzare il cibo, rendersi conto della minor competizione presente per quello situato più in alto, etc. Dunque in Lamarck l’evoluzione delle specie è guidata da un principio ‘sapiente’, ancorchè immanente e puramente terrestre, e cioè quella che può esser definita l’intelligenza degli animali e la loro conoscenza corretta dell’ambiente e delle proprie esigenze vitali.
Una simile teoria, oltre alla fondamentale rinunzia ad argomentazioni basate sulla fede religiosa, sembrava avere anche altri notevolissimi pregi. E’ infatti evidente che se le modificazioni acquisite da un animale si trasmettono alla sua prole, questa avrà fatto sin da subito tesoro del lavoro e dello sforzo del suo genitore, a cui magari potrà cumulare il suo proprio. Questo consente di attribuire all’evoluzione un passo notevolmente spedito ed evita di ipotizzare processi troppo lunghi nel tempo, cosa che ha costituito (e in parte costituisce ancora) un problema notevole per il darwinismo. Così le soluzioni di tipo lamarckiano sono sempre state, anche per lo stesso Darwin, una “tentazione” ricorrente di fronte alle difficoltà (4).
Com’è ben noto, tuttavia, la teoria darwiniana rappresenta un’alternativa netta e irreconciliabile rispetto al lamarckismo. Perchè dunque Darwin cercò su questo punto una soluzione di tipo essenzialmente diverso? In prima battuta ad una tale questione potrebbe venir data la risposta più semplice: il fondamentale assunto di Lamarck non è confortato dai dati d’osservazione. (5) Se infatti è indubbio che ogni singolo animale conosce un qualche individuale processo di “adattamento lamarckiano”, cioè perfeziona durante la propria esistenza gli organi e gli schemi comportamentali che costituiscono la dotazione ricevuta dai propri genitori, è altrettanto evidente che nulla di quel peculiare guadagno trova un riconoscibile riflesso nei caratteri della prole. Un simile dato di fatto era evidente anche in un campo d’osservazioni che Darwin predilesse sempre ed a fondo indagò: la selezione domestica o artificiale, cioè quella particolare evoluzione che alcune specie animali e vegetali hanno subito sotto il parziale controllo dell’uomo. Non c’è assolutamente nulla (millanterie a parte) che un allevatore possa fare perché la prole di un animale, o il risultato di una semina presenti caratteristiche nuove in una determinata direzione da lui per qualunque motivo immaginata o desiderata. Addestrare sistematicamente il proprio cane durante tutta la sua vita a dare la caccia alla selvaggina da tana non varrà assolutamente in nulla ad ottenere da esso una cucciolata di “proto-bassotti” con zampe più corte. Così, nella Russia stalinista solo la falsificazione dei dati permise al neolamarckiano Lysenko di far credere che la sistematica esposizione dei cereali al freddo in breve tempo avrebbe fatto verdeggiare di messi gli immensi spazi della Siberia. Un mutamento positivo, in qualunque senso lo si intenda, è un dono che (a meno di non disporre delle attuali tecnologie dell’ingegneria genetica) l’allevatore non può né meritare né demeritare: “egli non può applicare la selezione se prima la natura non gli offre almeno una piccola variazione” (6), in quanto “le variazioni chiaramente utili o piacevoli per l’uomo compaiono solo occasionalmente” (7). Così, tutto ciò in cui consiste la sua abilità, una volta che gli sia capitato, è quello di cercare di fissarlo, sfruttando il fatto che, una volta apparso per caso, esso molto probabilmente ricomparirà nelle successive generazioni. (8) Darwin dunque, pur nella totale ignoranza che al suo tempo si aveva circa i meccanismi microscopici che presiedono alla riproduzione degli esseri viventi, rimase sempre convinto (tranne nella parentesi infelice della sua ipotesi della ‘pangenesi’) che tali mutamenti, quale che ne sia l’origine, appaiono in modo del tutto casuale e indipendente rispetto alla loro funzione adattiva; devono avere cioè, per dirla in termini aristotelici, una causa efficiente (per quanto ancora ignota) ma certo mostrano di non avere alcuna causa finale.
Una tale convinzione, però, se valeva ad eliminare il tipo di ‘principio-guida’ additato da Lamarck, lasciava irrisolto il problema di fondo, anzi l’aggravava. E la stessa selezione domestica rappresentava in questo senso un’ulteriore fonte di perplessità. Se infatti il manifestarsi di mutamenti è per sua natura casuale, tuttavia nell’allevamento e nella coltivazione v’è pur sempre il soggetto umano che decide, sia pure in seconda battuta, quali variazioni propagare e quali eliminare. In natura un tale selezionatore non è presente; eppure non solo la selezione si verifica egualmente, ma appare anzi ben più previdente e oculata. Gli allevatori amano spesso fissare delle caratteristiche semplicemente perché le giudicano belle, o solo strane, o magari decisamente grottesche; non di rado l’organismo che ne deriva col tempo non è nemmeno più in grado di sopravvivere senza l’intervento umano. Il destino particolarissimo della specie Canis lupus, frazionata dall’uomo in numerosissime razze, alcune delle quali ridotte a forme bizzarre, rimaneva una bella prova della casualità delle mutazioni, ma certo eleggere il capriccio di certe signore per i cagnetti stravaganti a modello del principio “intelligente” dell’evoluzione non sarebbe stato un gran risultato. Di fatto la reale vicenda evolutiva in natura ha ben altri caratteri di drammatica serietà; qui la moltiplicazione capricciosa delle forme è del tutto sconosciuta e anche quelle che possono sembrare più singolari mostrano sempre (si perdoni questo ingenuo peccato “panglossiano”) una meravigliosa efficacia nel contribuire alla sopravvivenza. Dunque con ancor maggiore forza si riproponeva, in questa accettazione del carattere casuale della mutazione, la necessità di reperire un principio ‘intelligente’ che frenasse e guidasse la moltiplicazione potenzialmente caotica delle forme (9). Esso non poteva essere una divinità trascendente, concetto non più accettabile; non poteva essere, come in Lamarck, la volontà e l’intelligenza dei singoli animali perchè era un’ipotesi smentita dall’esperienza ed inapplicabile al mondo vegetale; né, infine, nulla di analogo all’allevatore umano. Doveva essere, in altre parole, un principio tanto efficace quanto privo di qualsiasi carattere antropomorfo; doveva produrre gli effetti di un Soggetto agente e intelligente, rimanendo del tutto cieco ed impersonale. Era un tale concetto logicamente possibile?
E’ qui che finalmente troviamo il vero contributo originale di Darwin, l’idea scandalosa su cui non si finisce di discutere e che una parte della nostra cultura si rifiuta di accettare, cercando in tutti i modi di aggirarla, riformularla, ridimensionarla; sia detto sin d’ora che la gran parte del dibattito novecentesco sull’evoluzione ruota in un modo o nell’altro attorno al concetto di ‘Selezione naturale’ ed alle sue profondissime implicazioni filosofiche.


3. Un Reverendo di dubbia fama elimina il proprio Dio.

Il carattere scabroso e indigesto del concetto di ‘Natural Selection’, cioè il “Principio intelligente” che riuscì a sostituirsi al Padre burbero ma amorevole della religione tradizionale, lo si ravvisa sin dalla genesi che esso ebbe nella mente di Darwin. Come egli ricordò, la soluzione dell’enigma gli venne dall’opera di un reverendo anglicano studioso di economia che già ai suoi tempi godeva di una fama sinistra e che è stato anche in seguito considerato sempre come espressione di una cultura reazionaria, antiegualitaria, ipocritamente bigotta: Robert Malthus. Sulla statura scientifica di questo economista i pareri sono a tutt’oggi discordi; c’è chi lo considera una figura secondaria e un plagiario, c’è chi lo ritiene al contrario una delle più significative nella storia delle dottrine economiche e l’antesignano della moderna teoria dell’’ecosostenibilità’. Anche per quel che riguarda l’influenza su Darwin, assai spesso s’è ritenuto di sottovalutare il significato della lettura di Malthus, giudicandone il ruolo come inessenziale o “euristico” (come curiosamente s’esprime un noto autore. 10) Spesso, anzi, per non star troppo sul vocabolario, non lo si nomina neppure: nelle 1343 pagine di ‘The Structure of Evolutionary Theory’ di Stephen Jay Gould, per esempio, il nome di Malthus è del tutto assente. (11) Ad avviso di chi scrive (e di molti altri) il ruolo di questa teoria economica nel presente nodo concettuale fu invece del tutto essenziale, come si tenterà ora di spiegare.
Le teorie malthusiane sono ben note nella loro originale veste economica: la crescita della popolazione, per il modo stesso in cui tutti gli esseri viventi si riproducono, tenderebbe ad avere il passo d’una progressione geometrica, laddove quella dei beni disponibili in natura può cercare nel migliore dei casi di seguire, e non indefinitamente, una ben più modesta progressione aritmetica; dunque è essenziale per la stabilità delle società umane che la crescita demografica sia raffrenata e non divenga economicamente insostenibile. Nella società tradizionale, di struttura molto semplice e stabile, questo tende ad avvenire in modo spontaneo, a meno che – e questo era il problema d’attualità su cui Malthus interveniva – delle leggi di protezione sociale, in particolare all’interno dei più complessi contesti urbani, non intervengano a migliorare dall’esterno le condizioni economiche dei più indigenti. Incoraggiare in tal modo l’incremento demografico di questi ultimi lasciandoli prima o poi al di fuori del circuito di un lavoro realmente produttivo, e della relativa crescita anche intellettuale e morale che comporta (e che li indurrebbe a non volere più figli di quanti ne possano nutrire ed educare), non vuol dire per Malthus migliorare la società ma renderla via via più complessa sino ad innescare un’inarrestabile spirale di squilibrio. La sanzione per chi crede ingenuamente di anteporre la buona coscienza al buon senso, sarà in ogni caso un ritorno all’equilibrio, ma un ritorno traumatico e catastrofico, fatto di epidemie, carestie e guerre. I richiami biblici ed evangelici con cui il reverendo accompagnava queste idee, dando a quei fattori quasi una valenza provvidenziale e quindi “positiva”, non ne hanno favorito la fama presso i democratici dei tempi successivi. Noi resisteremo alla tentazione di notare quanto puntualmente le pur spiacevoli leggi malthusiane siano quotidianamente in azione sotto i nostri occhi in molte parti del nostro pianeta e ci spostiamo invece sul piano biologico cercando di vedere l’ispirazione che ne ricevette Darwin.
Abbiamo accennato al ruolo che in Malthus hanno eventi come carestie, epidemie e guerre. Tralasciamo gli aspetti emotivi ed etici di questi fenomeni e consideriamoli in modo del tutto astratto; il carattere che li accomuna è uno solo: l’incontrollabilità. Si tratta cioè di processi che, nel modificare profondamente la situazione iniziale e nel ricondurla ad una condizione di sia pur precario equilibrio, mostrano, per così dire, di “autoalimentarsi”. Con questo termine non si intende che tale processo non sia - come in effetti è - determinato esclusivamente dal modo in cui tutti i singoli agenti coinvolti si atteggiano in esso e dalle circostanze fisiche oggettive in cui si collocano, ma semplicemente che nessun singola soggettività, né all’interno né dall’esterno, è in condizione di conoscere tutti i fattori coinvolti e quindi di prevedere e controllare lo svolgersi dell’intero processo come tale. Nella visione malthusiana, dunque, se un’autorità politica avveduta vuole evitare tale esito “self-organized” e conservare un certo controllo della convivenza umana, deve accuratamente evitare qualsiasi azione (come una modificazione degli equilibri demografici) che ne incrementi la complessità sino ai limiti in cui, divenuta non più controllabile, essa inneschi un processo catastrofico di riequilibrio, senza più nessun riguardo per i costi umani e i danni collaterali; deve, in termini più espliciti, “conservare” la società nella sua semplice struttura tradizionale (12).
Lo schema economico e politico malthusiano presentava evidenti analogie col più generale problema biologico che interessava Darwin, tranne che per un punto essenziale: l’impossibilità anche solo teorica di una qualsiasi soluzione “conservatrice”, cioè di una stabilizzazione nelle condizioni di vita degli organismi. Se anche infatti immaginassimo per assurdo un mondo organico “conservatore” in cui tutte le specie animali e vegetali si riproducono ad un tasso di sola sostituzione e che nel riprodursi non conoscono variazioni di sorta, vi sarebbe egualmente un continuo aumento della complessità a causa dei processi di trasformazione geologica che, come Darwin, allievo di Lyell, ben sapeva, sono un fenomeno perenne ed ineliminabile. L’adattamento dei viventi all’ambiente fisico terrestre ipotizzato per un determinato momento, diventerebbe nel tempo sempre più problematico e soggetto senza scampo ad un progressivo degrado. Piuttosto che analoga allo schema di un albero vigoroso, la vicenda del nostro pianeta sarebbe stata simile ad un gorgo in cui progressivamente sono destinate a sprofondare tutte le forme di vita.
Se allora la risorsa costituita dal “conservativismo” era da escludere in radice, la condizione di equilibrio poteva esser prodotta solo con il secondo strumento immaginato da Malthus: quello del riequilibrio catastrofico auto-alimentato. Diveniva allora finalmente comprensibile il perché di quella incontenibile tendenza all’aumento della complessità, tanto in senso quantitativo (in virtù dell’alto tasso di riproduzione in tutte le specie animali e vegetali) come in senso qualitativo (in conseguenza dell’apparizione continua di modificazioni e variazioni nel succedersi delle generazioni) che appare caratteristica così precipua e singolare del mondo vivente e che era stata motivo di sconcerto per tanti filosofi e teologi. Essa – in mancanza dell’assistenza divina e di uno sviluppo sufficiente dell’intelligenza animale - è di fatto l’unica risorsa di cui la vita può disporre per fronteggiare il divenire incessante che caratterizza l’ambiente terrestre. La vita - per così dire - può rispondere alla Casualità imprevedibile a cui deve sopravvivere, soltanto per mezzo della Casualità altrettanto imprevedibile delle perenni sue trasformazioni. Solo nell’immensa complessità che ne deriva, vi sarà sempre una ragionevole probabilità che qualche nuovo equilibrio sia possibile; che qualche forma vivente, magari in precedenza marginale e irrilevante, possa, nelle nuove condizioni, mostrare fortuitamente una maggiore adattabilità e divenire protagonista d’una nuova era.
Era questo il vero motivo per cui la soluzione ipotizzata da Lamarck (e tutte quelle che ad essa in qualche modo s’imparentano) era improponibile in radice: i singoli organismi, a cui farebbero capo le scelte evolutive, non conoscono di fatto che una porzione infinitesima di quel problema ipercomplesso che è la sopravvivenza della vita in un ambiente in perenne trasformazione. Sono attori quasi del tutto ciechi e seguire quel po’ di luce che intravedono nelle immediate vicinanze consente loro di conservarsi e riprodursi per qualche tempo, ma non varrebbe in nulla ad attrezzarli ai grandi mutamenti che si preparano lontano da ogni loro capacità di previsione e di conoscenza. Nell’immensa lotteria che ne consegue solo la continua apparizione di nuove soluzioni evolutive casuali può dare una ragionevole garanzia che una risposta efficace sarà comunque disponibile. Va da sé che un siffatto processo è tanto più efficace quanto maggiore è il numero di “biglietti” venduti e più vasto, dunque, il campo dei perdenti. Così, tanto più la vita riesce a trovare le sue vie per diffondersi e prosperare, quanto più alto è il costo di sofferenze e di distruzioni che lascia dietro di sé.
Era proprio questo il grande paradosso: l’idea indecente del reverendo Malthus secondo cui la Provvidenza si serve delle carestie, delle epidemie e delle guerre per ristabilire l’ordine nella società umana, in realtà doveva - ed è proprio questo il significato filosofico di fondo del darwinismo - semplicemente esser guardata allo specchio: non è l’ Essere onnipotente e misericordioso, che per i suoi fini di bontà si serve incomprensibilmente di un mezzo come il ‘bellum omnium contra omnes’, ma è piuttosto quest’ultimo, con tutta la sua brutalità, l’unico principio realmente in grado assumere il ruolo di Dio e di simularne la provvidenziale bontà. La primazìa ontologica del Bene sul Male, se ancora questi concetti hanno un senso (13), veniva così rovesciata. L’angosciato quesito agostiniano “si Deus est, unde Malum?” riceveva finalmente una singolare risposta: “ex Malo Bonum”.
(1). Ernst Mayr, One long Argument, tr. it. Torino 1994, p.37.
(2) “In secondo luogo fu creato il firmamento, con cui comincia il mondo materiale, in terzo luogo la natura del mare e della terra, e nella terra - per così dire - potenzialmente la natura delle erbe e degli alberi. Così infatti la terra, conforme alla parola di Dio, produsse le piante prima che fossero germogliate, ricevendo tutti gli impulsi dello sviluppo potenziale degli esseri ch'essa avrebbe dovuto manifestare nel corso del tempo secondo i loro caratteri specifici.” S.Agostino, De Genesi ad Litteram, V, 5.14. “La materia informe che Dio aveva creata dal nulla fu dunque chiamata dapprima "cielo e terra" e [la Scrittura] dice: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, non perché ciò esistesse già, ma perché poteva esistere, dato che [la Scrittura] dice pure che il cielo fu creato in seguito. Allo stesso modo che, se consideriamo il germe di un albero, potremmo dire che in esso sono le radici, il tronco, i rami, i frutti e le foglie, non perché vi siano già, ma perché nasceranno da esso.” De Genesi contra Manichaeos, I.7.11.
(3). Scrisse per es. il romanziere Antonio Fogazzaro che si occupò con qualche profondità della questione: “È strano che quando non si sapeva immaginare come si fossero prodotte le varie forme organiche, si ammettesse l'opera d'un Creatore, e che poi, quando fu scoperta la loro origine dall'Evoluzione, questo Creatore figurasse posto da banda. (…) quando la scienza, adempiendo l'ufficio suo, ci discopre in parte il metodo col quale sono state fatte le specie viventi, essa non altro discopre che il lavoro sincero e serio d'Iddio. Chi contempla la natura a questa nuova luce prova un piacere intellettuale più squisito e più intenso, rende a Dio un culto più intelligente, più degno.”, Ascensioni umane (1899); Milano 1977, p. 78-9. Sulla medesima traccia anche Giovanni Paolo II non ha avuto problemi a predicare che “E’ possibile (...) che il corpo umano, seguendo l’ordine impresso dal creatore nelle energie della vita, sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri viventi antecedenti. (...) Evoluzione presuppone creazione; la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo – come una creatio ontinua.” Parole sull’uomo, a cura di Angelo Montonati, Milano 1989, p.204.
(4). In generale è piuttosto difficile chiedere alle pagine di Darwin enunciazioni solenni e cattedratiche di dogmi o principi “fondamentali”; così non è difficile trovare nella sua opera anche passi di sapore più o meno lamarckiano (cfr. per es.: “secondo me, attualmente le condizioni di vita, dato che agiscono sull'apparato riproduttore, sono tra i fattori più importanti nel produrre la variabilità. […]. La variabilità è governata da molte leggi sconosciute, e in particolare dalla correlazione dello sviluppo. Qualche effetto può essere attribuito all'azione diretta delle condizioni di vita. Altri effetti possono dipendere dall'uso e dal disuso. Ecco perché i risultati finali sono estremamente complessi., Origine delle specie, (1859), tr.it. Roma, 2004, p. 68). In realtà colui che per primo rifiutò completamente il lamarckismo, esprimendo in maniera rigorosa quello che Crick avrebbe definito il “dogma fondamentale” del darwinismo, cioè l’idea che il patrimonio genetico non può in nessun modo esser modificato in conseguenza diretta delle pressioni adattive sperimentate dai singoli animali – ma solo indirettamente attraverso il meccanismo “a posteriori” della selezione naturale, fu il biologo tedesco August Weismann (1834-1914), che per questo è considerato il vero rifondatore del darwinismo. La successiva biologia molecolare l’avrebbe poi espresso nel suo linguaggio: “Non si è mai constatato, e d'altronde non sarebbe concepibile, un trasferimento d'informazione dalla proteina al DNA. Questa nozione si basa su una serie di osservazioni oggi complete e sicure e le sue implicazioni, soprattutto nella teoria dell'evoluzione, sono molto importanti tanto che essa si deve considerare uno dei principi fondamentali della Biologia moderna. Ne consegue che l'unico meccanismo possibile attraverso il quale la struttura e le prestazioni di una proteina potrebbero venire modificate e tali modificazioni trasmesse, anche parzialmente, alla discendenza, è quello che deriva da un'alterazione delle istruzioni contenute in un segmento della sequenza del DNA. Non si può, invece, concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione o informazione. Tutto il sistema è, quindi, interamente e profondamente conservatore, chiuso su se stesso, e assolutamente incapace di ricevere un'istruzione qualsiasi dal mondo esterno.” Jacques Monod, Il Caso e la Necessità, (1970), tr.it. Milano 1974, p. 111.
(5). La teoria di Lamarck aveva inoltre il gravissimo limite di non essere applicabile alle piante, le quali sono soggette ad evoluzione non meno degli animali, ma non hanno alcuna capacità di interazione intelligente coll’ambiente. Un ulteriore serie di dati osservativi che indebolivano l’ipotesi lamarckiana fu da Darwin ritrovata all’interno dei suoi taccuini di viaggio; più volte egli aveva notato che specie animali strettamente imparentate avevano avuto evoluzioni notevolmente divergenti pur vivendo in ambienti del tutto simili; secondo l’ipotesi di Lamarck, invece, a partire dalla medesima forma animale, di fronte a necessità adattive simili era prevedibile si verificassero trasformazioni evolutive simili.
(6) Origine delle specie, (1859), tr.it. Roma, 2004, p. 65.
(7) Op. cit., p. 67.
(8). “Nelle opere sull'orticoltura troviamo espressioni di estrema sorpresa per la mirabile perizia dei frutticultori che sono riusciti ad ottenere risultati splendidi partendo da materiali di base così miserevoli. Però io sono sicuro che la loro arte è stata semplice e, per quanto riguarda il risultato finale, è stata applicata quasi inconsciamente. Essa è consistita nel coltivare sempre la miglior varietà conosciuta, seminandola e, allorché compare una varietà dotata casualmente di caratteristiche superiori, selezionando questa, e così di seguito” Origine delle specie, (1859), tr.it. Roma, 2004, p. 64.
(9). Proprio il carattere non dilagante delle va­riazioni e l'assenza di una proliferazione caotica di forme intermedie fra le singole specie era stato uno degli argomenti più forti con i quali l’illustre creazionista Georges Cuvier aveva contestato le idee trasformiste di Lamarck e Geoffroy Saint-Hilaire.
(10). Scrive Ghiselin: “Darwin si limitò ad usare il malthusianesimo come un aiuto euristico — poiché suggeriva un tipo di meccanismo che poteva essere il responsabile dei fenomeni osservati. (...) Malthus fornì esclusivamente un sistema o modello concettuale, non le basi di una proposizione empirica, ed il suo contributo è principalmente di natura psicologica o storica.” M.T. Ghiselin, Il trionfo del metodo darwiniano (1969), Bologna 1981, p.96. Il significato del termine euristico in questo caso è per chi scrive un vero mistero: per “aiuto euristico”, utile solo psicologicamente e quindi storicamente, si intende in genere l’analogia che, mentre si sta riflettendo su di un particolare ordine di problemi, si fa in via del tutto provvisoria e limitata con una fattispecie del tutto diversa, che casualmente sembra presentare sviluppi e passaggi analoghi a quelli su cui si sta ragionando; li si segue così per un breve tratto, con molta cautela, per vedere se possono innescare qualche idea nuova. Ma allora certamente non era euristico un “aiuto” che “suggeriva il tipo di meccanismo che poteva essere il responsabile dei fenomeni osservati “. Strano oltretutto che un processo puramente “psicologico o storico”, i quali come anche il nostro Benedetto Croce ci insegna, sono irripetibili e ineffabili, si sia sorprendentemente replicato tal quale nel co-scopritore della teoria della selezione, Alfred Wallace, il quale seguì il medesimo itinerario di pensiero ammettendo anch’egli il proprio debito verso Malthus. In realtà questo non è che un piccolissimo esempio, fra i tanti possibili, del vano tentativo di certa biologia ‘politically correct’ di escludere o ridimensionare perlomeno l’odioso Malthus dall’albero genealogico di una teoria come quella darwiniana, di cui, ahimé, non si riesce a fare a meno.
(11) Naturalmente in altri scritti di Gould il nome di Malthus è presente; ma certo la sua totale esclusione dall’ultima ciclopica sintesi - dove si può trovare veramente di tutto - non può non fare impressione.
(12) In verità Malthus non negava la possibilità di un certo sviluppo della società e, in questo ambito, di un lento incremento demografico; ma non v’è dubbio che nella sua concezione si avverte il ripiegamento pessimistico dell’epoca della Restaurazione e la sfiducia, condivisa da tutto il filone tradizionalista post-rivoluzionario, nelle capacità del potere politico di controllare la complessità dei rapporti umani.
(13) E’ questa la conclusione che l’attuale neodarwinismo, da Monod a Dawkins, predilige: la biologia non ha necessità di drammatizzazioni filosofiche; essa si limita ad affermare che i concetti di Male e di Bene sono puramente psicologici e che la natura è totalmente inconsapevole di essi.
GDP - gennaio 2006