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Profilo di René Descartes

 


Onde la lunghezza di questo discorso vi sia meno noiosa, ho deciso di svilupparne una parte inventandola come una favola, attraverso la quale - spero - la verità non mancherà di apparire sufficientemente, e non meno gradevole che se l'esponessi affatto nuda. (A. T. - XI)

Un orfano di madre dopo aver studiato dai gesuiti va a scuola dai calvinisti. Successivamente torna a combattere tra i cattolici.
René Descartes nacque a Le Haye in Touraine il 31 marzo del 1596. Rimase quasi subito orfano di madre e, a nove anni, entrò nel collegio dei gesuiti a La Flèche, una delle istituzioni educative più prestigiose dell'epoca, per tanti aspetti una scuola d'avanguardia, anche se confessionale. Dopo avervi compiuto gli studi primari e secondari, Descartes ottenne il baccellierato in diritto canonico e civile all'Università di Poitiers, la stessa frequentata da Francis Bacon che ivi si era diplomato nel novembre del 1610.
Da allora iniziò una vita avventurosa. Si arruolò in uno dei due reggimenti francesi aggiunti all'esercito di Maurizio di Nassau-Orange, protestante, che in Olanda affrontava gli spagnoli (in un periodo di lunga tregua); successivamente fu al seguito del Duca cattolico Massimiliano di Baviera. Un passaggio da un campo all'altro che potrebbe apparire, a dir poco, disinvolto. Alcune perplessità trovano soluzione se si considera che l'esercito calvinista olandese non era solo "una scuola di guerra" nel vero senso della parola, ma un centro studi di ingegneria militare, nel quale insegnava, ad esempio Simon Stevin, uno dei più importanti scienziati dell'epoca. Una seconda ragione è di ordine più generale. I francesi appoggiavano gli olandesi in funzione anti-spagnola. Le due potenze cattoliche curavano con la massima spregiudicatezza i propri interessi nazionali in evidente contrasto. Pertanto, si potrebbe concludere con un'assoluzione per Descartes rispetto all'accusa di incoerenza, se non di tradimento: era al servizio del proprio paese e non aveva combattuto contro il cattolicesimo in quanto tale, ma contro la strumentalizzazione del cattolicesimo da parte dell'imperialismo spagnolo. Dispute infinite si potrebbero aprire sulla reale universalità del cattolicesimo ai tempi di Descartes, sul ruolo effettivo giocato dalla Chiesa, e quindi dai singoli Pontefici. Qui l'argomento non si può trattare che per accenni, ovvero come parte della questione Descartes, delle esperienze che concorsero a formare la sua coscienza più matura. Sicchè, una volta compreso che il giovane filosofo apparteneva a quel tipo di individui che non si arrestano davanti ad un confine e si propongono di andare risolutamente avanti sulla via della conoscenza, si è già detto molto di quanto occorre sapere sulla biografia del filosofo. Il giudizio sulla Chiesa di quegli anni, l'istituzione che condannerà Galilei, e che nel 1663 metterà all'indice anche le opere di Descartes, non può che sfumare in una serie di valutazioni articolate e distinte, come avrebbe detto lo stesso Descartes. La curia romana non era esattamente un'istituzione puramente spirituale. Seguiva di volta in volta particolari convenienze, logiche di potere ed esigenze diplomatiche. Le chiese nazionali non obbedivano a Roma, le chiese locali non obbedivano a quelle nazionali, fra ordini religiosi esistevano continui motivi di disputa e la disputa stessa era sorta all'interno della Chiesa come metodo di confronto ed accoglimento di un minimo di pluralismo nell'oscuro Medioevo. All'interno del cattolicesimo francese si fronteggiavano diverse correnti. L'itinerario filosofico e spirituale di un contemporaneo di Descartes, Blaise Pascal, fu segnato dal giansenismo almeno quanto il primo era stato segnato dall'educazione gesuitica. Il lettore dev'essere avvisato del fatto, tuttavia, che al tempo di Descartes e Galilei, i margini stessi del pluralismo si erano alquanto ristretti. D'altra parte, quand'era in vita, Descartes fu violentemente attaccato dai riformati olandesi. Nel periodo 1642-43 subì la censura del senato accademico di Utrecht che vietò l'insegnamento della sua filosofia, a seguito di attacchi provenienti soprattutto dal teologo Gisbert Voetius. Gli anni dal 1640 in poi furono i più duri nella vita di Descartes. Dalla Francia erano pressochè contemporaneamente partiti attacchi non meno severi da parte dei gesuiti, molto preoccupati per la messa in discussione dei principi della filosofia scolastica. Il filosofo si trovò stretto tra due fuochi, nessuno dei quali poteva definirsi amico. Per capire le ragioni di questa "sfortuna", nonostante la buona volontà mostrata dal filosofo, bisogna passare al setaccio, se non tutta la vita di Descartes, almeno alcuni passaggi cruciali.

La mia filosofia è una favola
Mentre si trovava acquartierato ad Ulm nel novembre del 1619, cioé a soli 23 anni, Descartes scoprì quelli che egli stesso definì "i fondamenti di una scienza mirabile" e ricevette in tre sogni la conferma che si trattava di un dono divino e di una missione da compiere. Ne parlò in un manoscritto intitolato Olimpyca, che non venne pubblicato in vita e quindi non faceva testo all'epoca della grande crisi degli anni '40.
A Descartes venne in chiaro che esistono nella mente umana pochi principi dai quali è possibile ricavare tutte le scienze concatenate in modo da formare una "scienza universale". Questa potrebbe la chiave per comprendere la tensione essenziale che animò Descartes fino alla fine dei suoi giorni. Tuttavia, si può accogliere, almeno in parte, l'opinione di Nicola Abbagnano quando scrisse: «Il problema che domina l'intera speculazione di Cartesio è quello dell'uomo Cartesio. Il procedimento di Cartesio è essenzialmente autobiografico anche quando (come nei Principi) ha la pretesa di esporsi in forma oggettiva e scolastica. Il suo precedente e il suo esempio è Montaigne.» (1) Abbagnano richiamava qui un passo del Discorso sul metodo, pubblicato in Olanda nel 1637 e presentato al pubblico in lingua francese, come opera di autore anonimo: «Il mio scopo non è d'insegnare il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la propria ragione, ma soltanto di far vedere in qual modo ho cercato di condurre la mia.» (2) Che fosse finta modestia? Può darsi; ci sono molti modi di rendersi interessanti ed un filosofo che non riesca a rendere attraente il proprio pensiero rischia di non raggiungere la fama, oppure guadagnare facilmente l'oblio prematuro. Epperò, si dovrebbe porre attenzione al passo successivo: «Quelli che si prendono la briga di dare precetti debbono ritenersi più abili di coloro ai quali li danno; e se sbagliano nella più piccola cosa, vanno perciò biasimati. Ma, siccome propongo questo scritto solo come una storia, o se preferite come una favola, nella quale, accanto ad alcuni esempi che si possono imitare, se ne troveranno forse molti altri che a ragione non verranno seguiti, spero che riuscirà utile ad alcuni, senza essere di danno nessuno, e che tutti saranno soddisfatti della mia franchezza.» Non probo sed narro. In un certo senso una storia romanzata della propria filosofia e delle avventure della propria coscienza che, anziché far ricorso al dialogo con altri come in Platone e nelle opere essoteriche di Aristotele, si sviluppa sul dialogo con se stesso. Considerando che il modello di trattatistica filosofica precedente era, al contrario, il saggio mutuato dal modello esoterico di Aristotele e cresciuto in modo esponenziale, con poche eccezioni - si pensi alle Confessioni di Agostino, o anche al De consolatione di Boezio - nella tarda antichità e nel Medioevo, e oltre ancora, non vi può esser dubbio: quella di Descartes fu una rivoluzione copernicana in filosofia. Che, tuttavia, ebbe uno scarso seguito in quanto modello formale. La trattatistica vinse la partita nei secoli a venire. Gli stessi cartesiani seguirono quel modello.

I rosacroce, l'alchimia, l'astrologia: la favola continua con una rivoluzione
Attenzione, però: non probo sed narro era stato il motto di numerosi maghi ed alchimisti. Il retroterra degli studi cartesiani era molto più denso di quanto generalmente compaia nei trattati di storia. Non solo filosofia scolastica e precetti gesuitici ma, anche indagini nelle scienze occulte, frequentazione di maghi, alchimisti, seguaci dei Rosacroce. E' parte della favola, forse la più intrigante, che meriterebbe di essere narrata e che, purtroppo, possiamo solo linkare, avvertendo che tra quella ricostruzione e la verità storica potrebbe correre qualche distanza, anche riconoscendo che un conto erano i Rosacroce, un altro maghi ed alchimisti di varia ed oscura provenienza, e così via distinguendo e ricordando uno dei pochi proverbi contenente un valore di validità universale: non è l'abito che fa il monaco. Ovvero, Descartes avrebbe potuto incontrare individui intellettualmente onesti in ogni raggruppamento. Mentre si trovava ad Ulm, venne effettivamente in contatto con un personaggio straordinario: Johannes Faulhaber, provetto matematico, costruttore di compassi, di tendenze misticheggianti e sicuramente legato agli ambienti rosacrociani. Fu una conoscenza importante, indubbiamente, ma gli storici assegnano giustamente una importanza assai maggiore, se non decisiva, alla figura di Isaac Beeckman, conosciuto durante la prima permanenza in Olanda. Questi gli suggerì indirizzi di ricerca assai più prossimi al nucleo paradigmatico della scienza moderna, con un occhio privilegiato alla tecnica ed alle attività artigianali e proto-industriali. Traendo immenso profitto dal rapporto, anche epistolare, con Beeckman, quando Descartes abbandonerà risolutamente il campo delle scienze e delle spiegazioni occulte, dovrà anche ringraziare la provvidenza (o la casualità) di quel fortunato incontro.

L'irrequietezza spinse Descartes in vari luoghi. Abbandonò la vita militare, viaggiò in Italia, e sicuramente si sa che non incontrò Galilei, in Germania ed in Francia. A Parigi conobbe e strinse amicizia con Padre Marino Mersenne, religioso dell'Ordine dei Minimi e successivamente fu incoraggiato dal cardinale Bérulle a dedicarsi alla riforma della filosofia e a rinforzare gli argomenti per la fede. Nel 1629 tornò in Olanda, che allora era il paese economicamente più progredito e culturalmente più aperto d'Europa anche se le tensioni religiose e politiche non mancavano nemmeno qui. In seno al calvinismo esistevano due correnti ferocemente ostili. Il filosofo politico Hugo Grotius era stato incarcerato e riuscì ad evadere nascosto in un baule.
I libri di "scienze curiose rare" quali testi di magia ed astrologia vennero abbandonati.

Da quel momento l'esistenza di Descartes si fece più stabile ed ordinata perchè ora pensava ad osservare soprattutto se stesso. Si ritirò in una vita solitaria di studi, letture,meditazioni . Fu in quei momenti che egli volse recisamente le spalle alle scienze occulte. Inoltre, secondo R. S. Westfall, molto dell'atteggiamento filosofico assunto da Descartes si spiegherebbe con la motivazione di combatterle: «con il suo rigoroso dualismo mente-corpo intendeva purgare la filosofia naturale dall'infezione ermetica». (3) C'è un passo nel Discorso sul metodo che descrive con chiarezza il pensiero di Descartes dopo la rivoluzione interiore. «Infine, per quel che riguarda le scienze bugiarde, pensavo di conoscerne già abbastanza il valore per non correre il rischio di venir ingannato né dalle promesse di un alchimista, né dalle predizioni di un astrologo, né dalle imposture di un mago, né dalle frodi o vanterie di chi va dicendo di sapere più di quanto non sappia.» (Discorso parte prima)
Nella tranquillità olandese Descartes cominciò a lavorare all'abbozzo del suo pensiero scrivendo il Traitè du monde che rinunciò a pubblicare quando venne a sapere che la chiesa cattolica aveva condannato Galilei nel 1634. Il testo conteneva già molti punti ormai definiti della visione scientifica di Descartes e, quando nei difficilissimi anni '40 deciderà di scrivere, ultimare e pubblicare i Principia Philosophiae, riprenderà sostanzialmente le tesi elaborate nei primi anni '30 con poche, anche se importanti modifiche.
Nel 1637 egli pubblicò invece il Discorso sul metodo che comprendeva altri 3 trattati (La diottrica, Le meteore, e La geometria. Testo, quest'ultimo, che riveste grande importanza in quanto sviluppa i principi della geometria analitica)
Nel 1641 pubblicò le Meditationes de prima philosophia che contengono sia la sua metafisica, sia le obiezioni rivolte ad essa da parte di alcuni filosofi ai quali l'aveva sottoposta, (Hobbes, Gassendi, Arnauld, Padre Mersenne) che la replica di Descartes.
Nel 1644, pubblicò, come s'è anticipato, i Principia philosophiae..
Queste due opere ricevettero una fredda accoglienza e suscitarono le critiche dei professori protestanti delle università olandesi di Leida e di Utrecht.
Per questo Cartesio, indubbiamente amareggiato, decise di lasciare l'Olanda e riparare in Svezia presso la regina Cristina che lo aveva invitato a corte già dal 1646, grazie agli stimoli ed ai buoni uffici dell'ambasciatore Pierre Chanut. Così nacque un rapporto espistolare che culminò con la richiesta di una copia delle sue Meditazioni metafisiche e l'invito, ripetuto più volte, di recarsi in Svezia. Descartes giunse a Stoccolma il 4 ottobre 1649, dopo un mese di navigazione, ed ebbe certamente qualche problema nell'assoggettarsi alle curiose abitudini della regina, che esigeva lezioni di filosofia alle cinque del mattino. A causa del clima, Descartes fu colpito da polmonite e di questa morì nel 1650, dopo una breve agonia. Si è parlato di avvelenamento da parte di cortigiani invidiosi e religiosi inviperiti ma, un'ipotesi scartata dagli studiosi che vanno per la maggiore. Gli storici della filosofia hanno spesso trascurato di indagare i rapporti tra la regina e Descartes. Le cronache del tempo, tuttavia, offrono un quadro colmo di luci ed ombre. Atea, di costumi molto liberi, ironica e sprezzante nei confronti della religione (in primo luogo quella protestante a cui era stata educata), Cristina sembrava richiamare un'altra figurra importante nella vita di Descartes: Maurizio di Nassau. Questi sul letto di morte, col massimo della calma e tra lo sconcerto dei religiosi presenti, aveva dichiarato di credere solo "che due più due fa quattro". Sulla regina occorre aggiungere che successivamente cambiò vita, abbandonò la Svezia e si convertì al cattolicesimo.

Donne e sentimenti nella vita di Descartes: le passioni dell'anima
Oltre a Cristina di Svezia c'erano state almeno altre due donne capaci di stimolare in Descartes un supplemento di meditazioni: la dotta ed intelligente Anne-Marie de Schurmann ed Elisabetta del Palatinato. La prima, filologa e poliglotta, perse l'affetto ed il rispetto di Descartes a causa di un cedimento alle seduzioni della teologia di Voetius, giudicato poco più di un ciarlatano; la seconda divenne partner di amore intellettuale e platonico, dettato da una spontanea simpatia-empatia reciproca. Trovandosi di fronte ad un evidente caso di depressione, dovuta alle penose circostanze della vita di Elisabetta, Descartes dapprima reagì squadernando le più classiche "ovvietà" del sapere filosofico tradizionale. Cominciando dalla Vita beata di Seneca e dal modo stoico di affrontare l'esistenza con il "distacco" del saggio. Nei casi di depressione, quello che la psicoanalisi freudiana auspicherà è il disinvistimento dalle cause del dolore ed un nuovo investimento affettivo più promettente ed adeguato alla situazione. E' più facile dirlo che farlo, ovviamente, perché nulla di ciò che sembra "più garantito e sicuro" può durare all'infinito. Gli antichi avevano già visto che l'unico investimento appagante è la trascendenza. Tuttavia, come spesso accade tutt'ora, fu sufficiente a Descartes dare la sensazione di "prendersi cura" di Elisabetta in modo del tutto speciale e dedicato, per dar corso ad un rapporto umano intenso, terapeutico, e benefico in entrambe le direzioni. Indubbiamente, lo stesso Descartes, più o meno emotivamente coinvolto dalle sofferenze psichiche di Elisabetta, fu costretto ad assumere "un volto umano", pur conservando l'abito del filosofo distaccato e stoico, che affronta le circostanze della vita cercando di razionalizzare le situazioni. Il rapporto con Elisabetta offrì al filosofo la grande opportunità di scrivere il trattato sulle Passioni dell’anima, dedicarlo esplicitamente a lei, recarlo successivamente in omaggio a Cristina di Svezia. Iniziò a comporlo nel 1645, ma era maturato molto tempo prima. In esso, Descartes sostenne che le passioni sono di per sé emozioni utili, perché stimolano l’anima a ricercare il bene. Da un lato la paura, per esempio, predispone l’uomo a schivare il pericolo, dall'altro, il coraggio a fronteggiare le situazioni difficili. La curiosità stimola a intraprendere la via della conoscenza. Capita che molti uomini, non esercitando mai la propria volontà, non si mettano veramente alla prova e, quindi, non si conoscano veramente. Al contrario, conclude Cartesio, quanto più si sapranno controllare le cattive passioni - ossia le passioni distruttive e divoranti - tanto più si riuscirà a contrastare la sfortuna con la forza della ragione e si potrà riconoscere la propria moderata soddisfazione.
Descartes visse almeno una relazione "non platonica". Quella con una domestica del suo affittuario olandese, Hélene Jans. Nel 1635, dal rapporto nacque Francine, di cui il filosofo si prese gran cura. Purtroppo, la bambina morì nel 1640. Esiste qualche dubbio sul fatto che i rapporti con Hélene siano proseguiti oltre quella data. Da allora in poi, solo amori platonici?

Cogito, ergo sum. Ma è spezzata l'unità mente-corpo
Non c'è soluzione migliore, per spiegare Descartes, che lasciare la parola al filosofo stesso. «Non so se debbo riferirvi le prime meditazioni che ho fatto qui; perché sono tanto astratte e tanto insolite, che non saranno forse apprezzate da tutti. Tuttavia, perché si possa giudicare se sono abbastanza solidi i fondamenti che mi son dato, mi trovo in qualche modo costretto a parlarne. Avevo notato da tempo, come ho già detto, che in fatto di costumi è necessario qualche volta seguire opinioni che si sanno assai incerte, proprio come se fossero indubitabili; ma dal momento che ora desideravo occuparmi soltanto della ricerca della verità, pensai che dovevo fare proprio il contrario e rigettare come assolutamente falso tutto ciò in cui potevo immaginare il minimo dubbio, e questo per vedere se non sarebbe rimasto, dopo, qualcosa tra le mie convinzioni che fosse interamente indubitabile. Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di chiunque altro esposto all'errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni. Infine, considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo.» E' inutile obiettare che per assicurarsi della propria esistenza reale «può bastare un pizzicotto». Descartes seguì un percorso alternativo ai pizzicotti, separò mente e corpo, e poi scelse di fidarsi principalmente del pensiero. I suoi «fondamenti» sono diversi da quelli della maggior parte degli individui e degli stessi filosofi precedenti e seguenti. Si dovrebbe semmai apprezzare che fossero ancora considerati «fondamenti» e che il filosofo non abbia smesso di cercarli. La sua fu una via individualistica, espressione di una diffidenza nei confronti dei pensieri culturalmente e socialmente dominanti, maturata mediante esperienze dolorose. Nulla vieta una lettura psicologistica di Descartes, un giovane privato di affetti materni e paterni, ma molto vieta di esagerarne l'importanza. L'autore del Discorso si rivela individuo sicuro di sé, in pieno possesso delle proprie facoltà e consapevole del proprio potere limitato nel consorzio umano, filosofico e scientifico del tempo.
A conferma di quel dualismo mente-corpo denunciato da molti critici come intollerabile e nefasto, si legga quesro passaggio successivo.
«Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è.»

Un ruolo attivo nello sviluppo di arti, tecniche e mestieri: scuole di formazione professionale
Il "Discorso" sul metodo voleva rapprentare in forma accessibile a lettori non eruditi la possibilità di potenziare la propria padronanza delle tecniche e delle scienze. Alle parole seguirono i fatti, o meglio, alcune iniziative volte a sviluppare l'istruzione tra artgiani, apprendisti, imprenditori e mercanti. Questo impegno cartesiano per saldare istruzione e lavoro, offrire nuovi sbocchi professionali, è stato generalmente minimizzato, se non omesso, dagli storici. In realtà si trattò di un impegno costante, motivato dalla convinzione che scienze e tecniche siano un bene comune a cui dovrebbero avere libero accesso tutti gli esseri umani, comprese le donne.

Precedenti di Descartes
L'idea che i filosofi particolarmente originali non abbiano precedenti è sicuramente ingenua e si lega strettamente alla insopprimibile tendenza di alcuni umani a mitizzare la figura, onde renderla oggetto di culto più che occasione per meditare. Descartes si può riportare a Platone, agli scettici, a pezzi di stoicismo, nonchè a diversi pensatori di epoche più recenti. In Soggetto e fondamento, Salvatore Natoli (5) provò ad isitituire un rapporto diretto con Aristotele molto stimolante, portando alla luce particolari determinanti sfuggiti ad altri studiosi. Il neoscolastico Etienne Gilson suggerì di cercare negli scritti di Avicenna, il filosofo medioevale arabo Ibn Sina. Sono tutte operazioni giustificabili, specie se si contrappongono alla mitizzazione, e in epoca più recente, alla demonizzazione - si pensi a come Heidegger trattò Descartes. A noi è parso saggio offrire in questa sede una rassegna parziale dei tentativi di contrastare la mitizzazione. Sulla lotta alla demonizzazione, speriamo si comprenda che il nostro è un primo modesto contributo.

Avicenna
, un probabile ispiratore
«La logica di Avicenna - scrisse Gilson - poggia come quella di Aristotele, sulla distinzione fondamentale del primo oggetto dell'intelletto, che è l'individuo concreto (intentio prima) e il suo oggetto secondo che è la conoscenza stessa del reale (intentio seconda). L'universale è una seconda intenzione, ma Avicenna la concepisce in modo diverso da Aristotele. Per lui ogni nozione universale definisce una specie di realtà mentale che si chiama l'essenza; ciascuna essenza si distingue dalle altre per delle proprietà definite. Le essenze esprimono esattamente il reale da cui il pensiero le astrae. La conoscenza logica ha dunque una portata fisica e anche metafisica, non nel senso che la realtà sarebbe fatta di idee generali, ma perchè la generalità logica degli universali e la loro stessa predicabilità esprime questa proprietà fondamentale che ha l'essenza di essere una e medesima, qualunque sia l'individuo che la possiede. Da ciò deriva che, nell'ordine delle essenze, tutto ciò che si può pensare a parte e distintamente è realmente distinto da ciò a parte del quale lo si pensa. Questo principio trova nella filosofia di Avicenna numerose ed importanti applicazioni.
Per esempio, un'anima unita ad un corpo, ma che non ricevesse alcuna sensazione esterna nè interna, sarebbe ancora capace di conoscere sè stessa, di pensare e di sapere che pensa. Un'anima può dunque concepirsi distintamente senza riferimento al corpo; di conseguenza l'essenza dell'anima è diversa da quella del corpo, e l'anima è realmente distinta dal corpo.» (6)
Nulla vieta di credere che Cartesio conoscesse il pensiero di Avicenna in modo superficiale e riassuntivo, oppure lo conoscesse profondamente. Gli storici del pensiero non sempre dispongono di tutti i dati necessari a formarsi un'opinione fondata. Tuttavia, è palese che muovendo da Avicenna si poteva arrivare ad una riflessione filosofica di tipo cartesiano. Resterebbe da vedere quante volte il nome di Avicenna ricorre nei testi cartesiani. Non sembra ve ne sia traccia, al momento.
Nicola Abbagnano, dal canto suo, individuò in Agostino e in Tommaso Campanella due approcci vicini a Descartes. La tesi di Abbagnano non ha la medesima finezza di quella di Gilson, ma occorre prenderla in considerazione.

Analogie e differenze: Agostino e Campanella
«Cartesio - scrisse Abbagnano - ha indubbiamente ripetuto (se consapevolmente o no, è impossibile dire) un movimento di pensiero che rimonta a S. Agostino, che da S. Agostino è passato nella Scolastica, ed stato ripreso da Campanella quasi contemporaneamente a Cartesio. Ma non c'è dubbio che come Cartesio stesso affermò. S. Agostino si era servito del cogito per fini assai diversi dai suoi. Egli mirava al riconoscimento della presenza trascendente di Dio nell'uomo; e nella tradizione medievale il cogito agostiniano conserva lo stesso valore. Quanto a Campanella, si è visto che il principio vale per lui unicamente come fondamento di una teoria naturalistica della sensazione. Ma ciò che rende il distacco radicale che c'è tra i precedenti storici del cogito cartesiano siano il cogito stesso, è che tra essi manca il carattere problematico che in virtù del cogito viene ad assumere ogni realtà diversa dall'io. Per la prima volta Cartesio ha fatto valere il cogito come rapporto dell'io con se stesso, quindi come principio che rende problematica ogni altra realtà e nello stesso tempo consente di giustificarla. Soltanto Cartesio ha realizzato il pieno valore del cogito [...]» (7) In realtà, se si segue Gilson, "il pieno valore del cogito" fu conseguito da Avicenna.

Precedenti nel metodo
Anche focalizzando l'attenzione sul metodo si possono incontrare antecedenti. L'elenco è molto lungo e si dubita, giustamente, che un non specialista trovi il tempo di verificarlo con ricerche e letture dedicate. Tuttavia, dato che siamo in possesso di una documentazione parziale, non c'è ragione di nasconderla. In epoca recentissima, ovvero nell'anno 1600, era stato pubblicato postumo De Methodo libellus, composto da Adrien Turnebus (1512-1565), sul quale sappiamo assai poco. Di metodo avevano parlato in epoca rinascimentale Rodolfo Agricola, Jean Louis Vives, Melantone, Johann Sturm, Pierre de la Ramée, Giacomo Aconcio e Iacopo Zabarella.

La rivoluzione cartesiana

Per comprendere il pensiero di un filosofo - non passi per banalità - bisogna leggerlo. Sintesi perfette non esistono. In questa sede, più che a tentare il solito "bignami" ultrariassuntivo, si preferisce offrire qualche spunto per ulteriori ricerche. Si potrebbe parlare di una teologia cartesiana, di una metafisica, di una fisica, di un'etica, e persino di un'estetica (Descartes scrisse giovanissmo anche un trattato di musica). Il vero problema posto dai testi del filosofo di Le Haye, alla luce degli svolgimenti successivi della filosofia e della vita culturale e scientifica, sembra essere quello della liberazione del soggetto umano dalla tutela e dall'oppressione delle "pedanterie" degli scolastici. Il "gesto" cartesiano fu anti-autoritario. Non portò ad un azzeramento del sapere, ma spinse innumerovoli individui ad usare la propria testa, il proprio cogito, il proprio ingegno (ed anche la propria ignoranza) in modo molto più libero. Nonostante tutte le prudenze e gli accorgimenti tattici messi in campo, l'impatto eversivo di Descartes e del Discorso sul metodo fu colto da più parti, con diverse sottolineature e con una variegata tipologia di reazioni. Anche un convinto cartesiano come Malebranche, ad esempio, si accorse che il dualismo mente-corpo poteva alimentare l'ateismo. Di più: fare di Dio l'unico garante della ragione, quando si ammetta che la ragione stessa è l'unica garante dell'esistenza di Dio, sembra trascinare in un paradosso vizioso. Solo il filosofo, notava Malebranche, è in grado di comprendere gli argomenti cartesiani nella loro complessità, la gente comune si può solo illudere di aver compreso. Ecco che il potenziale liberatorio presente nel pensiero di Descartes viene neutralizzato, se non esorcizzato, da Malebranche.
Leggendo Descartes, chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a fare filosofia senza conoscere la storia della filosofia. Possibile? Sulla linea di riflessioni di Malebranche si collocò un grande della psicodinamica contemporanea come Pierre Janet, il quale individuò l'origine delle psicosi nell'ignoranza e nelle credenze superstiziose. D'altra parte, la lettura di Descartes è un pezzo, per nulla trascurabile, della storia della filosofia. In tale ordine di considerazioni finì anche Kant, in modo assai meno primitivo di Descartes e con alle spalle letture non solo di antichi e medievali, ma anche di moderni come lo stesso Descartes, Newton, Leibniz, Hume e Rousseau. Il filo che lega Descartes a Kant non è tenue: per quest'ultimo l'illuminismo sarà l'uscita da uno stato di minorità, ovvero portare il maggior numero di esseri umani a ragionare con la propria testa. In fondo, la stessa causa propugnata da Descartes, e prima di lui da Comenio, il paladino dell'insegnare tutto a tutti. Ma come si fa ad insegnare tutto a tutti se le capacità di ciascuno sono limitate in primo luogo dalle differenze ambientali e sociali, e poi dalle capacità e dall'intelligenza singolare? Proprio dell'intelligenza occorre parlare.

Descartes logico non sillogico?
Uno dei tanti paradossi cartesiani sui quali occore attirare l'attenzione è riformulabile come rigetto del sillogismo. Senza correre immediatamente a cercare analogie con Bacon, altro storico avversario della deduzione sillogistica, si può tornare a riflettere sull'insegnamento cartesiano, aprendo gli armadi che lo custodiscono e scoprendo non già scheletri, ma messaggi chiari e distinti. Nelle Regulae ad directionem ingenii, opera rimasta inedita fin dopo la morte, anche perché volutamente incompletata, erano abbozzate una prima teoria dell'immaginazione, la concezione delle nature semplici, una traccia della teoria della percezione, la riduzione della corporeità a mera estensione, la divaricazione - forte e traumatica - tra estensione e pensiero, una inquietante anticipazione del cogito ergo sum, formulata in modo invero sorprendente: Sum ergo Deus est. Roba da manicomio se espressa da individuo ignorante, anche ai giorni nostri, pregiatissima proposizione filosofica se sparata sul pubblico dei dotti da un dotto capace di meravigliare. Non fu sparata. Descartes era consapevole del pericolo di paragonarsi, se non a Cristo, quantomeno allo Spirito Santo. Insomma, Descartes non era pazzo, ma assai saggio ed accorto nella gestione delle proprie pubblicazioni e nella divulgazione del proprio pensiero. Tuttavia, egli conservò le Regulae in cassetto ed oggi possiamo leggerle. Sicuramente confidava nel fatto che un giorno qualcuno le avrebbe comprese, pubblicate, rilanciate e spiegate. Come del resto è successo. L'intuito è il grimaldello in grado di aprire molte serrature, ma come si fa ad aprire l'ultima serratura se non si dispone dell'intuito per aprire il concetto di intuito? Si è escluso trattarsi del nous aristotelico (e anassagoreo), forse con troppa precipitazione.
Ettore Lojacono ha contribuito a ridesignare la questione. «Accanto all'intuito, la deduzione: secondo atto conoscitivo, fonte però di non pochi equivoci, ché rari sono stati gli studiosi del pensiero cartesiano che come Clark 1982), hanno avvertito che all'inizio del XVII secolo l'arco semantico di deducere/déduire era assai ampio, sì da comprendere vari significati. Fra questi, il trarre da, il raccontare a lungo, lo svolgere argomenti, il narrare, il dimostrare e anche, ovviamente, altri più prossimi alla logica, quali lo stabilire illazioni da un termine a un altro o il "moto ininterrotto del pensiero che trascorre da singola cosa a singola cosa, tutte perspicuamente intuite, sino a costituire una serie compiuta ove il primo con l'ultimo elemento appaiono congiunti
", arco semantico che il filosofo ha utilizzato nella sua interezza.» (8) Nelle Regulae, la deduzione, secondo Lojacono, è impiegata in termini prossimi alla logica antica, ma assai distanti dai procedimenti attuali, nonché dalla logica sistemata dagli scolastici nelle quattro figure e nei diciannove modi del sillogismo. «Nella inferenza cartesiana il passaggio da un elemento all'altro rimane pertanto garantito di volta in volta da atti dell'intuito, sì che nella essenzialità la "sua" deduzione sembra non essere altro che una successione più o meno ampia di rapporti concatenati, di folgorazioni intuitive garantiti dall'attenzione e dalla memoria.» Un elogio del nous cartesiano, il quale, tuttavia, bisognerebbe dimostrare realmente diverso da altri nous, ad esempio, quello di Francis Bacon, che lo aveva di non poco preceduto sulla strada della rivalutazione del soggetto conoscente, in condizione di relativa autonomia intuitiva, ossia non pesantemente condizionata dalle dottrine tradizionali insegnate nelle Accademie, nelle Università, nei circoli esoterici. Il nesso Bacon-Descartes, a questo punto, potrebbe diventare più evidente. Comune atteggiamento "spirituale"? Quantomeno, una notevole affinità nel considerare i risvolti pratici dell'attività derivante dalla "sapienza di chi fa" e non si limita alle chiacchiere. In fondo, entrambi mirarono a smascherare l'insipienza e la pochezza inconcludente del puro ingegno speculativo. In entrambi, il richiamo alla sapienza capace di operatività diventò a sua volta operativo.

Ordinare il sapere con metodo, usare il metodo per intuire
Che il metodo serva ad ordinare il sapere, e insieme a preparare la scoperta di nuove informazioni da rielaborare e ordinare in nuovo sapere, al giorno d'oggi e dopo tonnellate di irrazionalismo novecentesco, non è affatto scontato. Probabilmente, occorre prender atto che esiste più di un metodo e che nessuno è in grado di stabilire quale sia quello più valido se non tornando a se stessi, cominciando da un resoconto delle proprie intenzioni, dei dubbi sorti sia in relazione alla via migliore da seguire per soddisfare l'intenzione conoscitiva.
«Per metodo intendo regole certe e facili, grazie alle quali chiunque le avrà rispettate in modo esatto non assumerà mai il falso come vero e senza stancare la mente con sforzi inutili, ma sempre aumentando per gradi il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte le cose di cui sarà capace.» (A.T. , X, 372)
Il metodo è concepito come via per eliminare il pregiudizio e per concentrare l'attenzione. E' un modo sicuro per evitare percezioni caotiche e seguire impulsi di pura curiosità, destinata a perdersi nel caos. Ricorrendo al mito di Teseo, accennò al filo d'Arianna. Si entrà nel labirinto delle conoscenze mirando dritti all'obiettivo. Si tiene saldamente il filo e si sa come uscirne. Se inferire significa trarre con successivi atti intuitivi argomento da argomento, oggetto da oggetto, relazione da relazione, la deduzione stessa non si può che ricavare dal sintagma ordine/disponere, che è il più ricorrente nelle Regulae. Bisogna trovare i criteri. Ettore Lojacono osservava: «Tali criteri convergono sulla precedenza da accordare all'"assoluto", cioè alle cose determinabili autonomamente, a ciò che è sciolto da ogni precedente condizione, insomma a quel che è primo di una serie possibile, sul "relativo", cioè su quelle cose la cui conoscenza non è immediatamente intuibile, perché appunto dipendenti dal primo termine di una relazione, come per esempio il composto dal semplice, l'effetto dalla causa, il difficile dal facile. L'ordine, dunque, è la nozione chiave, spesso identificata con il metodo, che il filosofo stesso stima come il maggior segreto dell'arte.» (9)

Conseguire certezze oltre la matematica, in barba alla matematica
Descartes fu convinto della possibilità di conseguire certezze. Concentrato sul tema, che è "parola" ed insieme situazione psicologica, arrivò ad enumerare, ovvero a fare un elenco dei modi per arrivare a certezze. Considerò anche l'impulso, ma solo per circoscriverlo, essendo estraneo al metodo della ragione. Puntò sulla deduzione, nella forma assai libera che si è vista, e considerò la congettura. Questa si può ritenere un procedere speculativo che, tuttavia, non inganna a condizione che la si tenga nella sfera del probabile. Un esempio di congettura venne offerto dal modo di considerare il lavoro degli astronomi. «Interessa poco se [certe cose] non vengono considerate più vere di quei cerchi immaginabili con i quali gli astronomi descrivono i loro fenomeni: è sufficiente che con il loro aiuto si distingua quale cognizione possa essere vera e quale falsa.» (A. T., X, 417) Considerazione che, tuttavia, andrebbe letta in contraddittorio con quanto affermato in precedenza: «gli astronomi che, pur muovendo da supposizioni quasi tutte false o poco sicure, tuttavia, dato che queste si riferiscono a diverse osservazioni da essi fatte, non mancano di trarne molte conseguenze verissime e certissime.» (A. T., VI, 83)
E' notevole che Descartes non abbia preso posizione nei confronti delle teorie di Tycho Brahe, di Kepler, di Galilei se non in questa forma assai distante e priva d'entusiasmo. E' altrettanto notevole che abbia considerato le loro procedure, nel complesso, assai poco affidabili e, allo stesso tempo, abbia riconosciuto il loro valore euristico. E' molto probabile - anche questa una sarebbe una congettura, ma robusta - che il vero pensiero di Descartes fosse nutrito di diffidenza nei confronti del metodo degli astronomi. La matematica in sé da certezze, ma la matematica applicata alla fisica non aggancia la realtà del mondo nella sua complessità. Dopo il 1629, sembra pressoché certo che Descartes abbia abbandonato gli studi matematici. La sua "fisica" sarà una fisica priva di matematica, e susciterà l'avversione di Newton e dei suoi seguaci, giù fino a Voltaire, Laplace e Fourier, il quale, in certo senso, si può considerare come il campione di un atteggiamento anti-cartesiano. Una delle ipotesi avanzate, agganciata alle Meditaitones, è che Descartes si fosse convinto che la matematica potesse dare solo certezze psicologiche e non certezze di assoluta evidenza rispetto al cogito. (10) A proposito della III meditatione, Sergio Landucci notava: «E tuttavia, di qui concludere che allora neppure le verità matematiche sarebbero dubitabili, sarebbe anche questo in contrasto con tutte le Meditazioni.
A leggere con attenzione, il senso è invece che le verità matematiche sono sì indubitabili, però esclusivamente dal punto di vista psicologico, e niente affatto dal punto di vista epistemologico, di fondazione della conoscenza.»

La scienza di Descartes non era quella di Galilei e di Newton
Sicché ci si trova a considerare il paradosso. Quello che si è considerato il filosofo meccanico per eccellenza, in realtà non condivise, se non in parte e con le riserve che abbiamo visto, il principio fondamentale della meccanica, ovverossia quello della calcolabilità dei movimenti fisici. La "fisica" cartesiana non ebbe che un successo relativamente effimero. Furono Newton e Roger Cotes a darle un colpo mortale e i filosofi non newtoniani non si sentirono quasi mai attratti dalla vertiginosa profondità speculativa della fisica e della metafisica cartesiane. Si ebbe un ritorno a Descartes solo con Edmund Husserl, il quale, tuttavia, non mancò di elevare una critica alla mancata sottrazione dell'ego cogitans cartesiano alla signoria del mondo della vita. Come a dire che un ego che sprofonda nell'anima è solo un'anima (una mente) che riflette superficialmente su se stessa e poi si rigetta a giudicare il mondo, e non l'io puro cercato da Husserl con una prolungata sospensione del giudizio mediante l'epoché scettica.

Il meccanicismo cartesiano ed i suoi discendenti, autentici ed a mezzo servizio
Rispetto all'uomo Descartes, indubbiamente un individuo "fuori del comune", si può solo dire ch'egli fu sia consapevole che parzialmente inconsapevole, di quanto stava realmente vivendo in termini di armonia e conflitto con i massimi principi definiti dalla filosofia e dalla teologia, nonché dall'ulteriore e più preoccupante contrasto di come si dovrebbero comportare le guide spirituali in base ai principi ed invece no. Ai tempi dell'avventurosa esplorazione del mondo reale, era certamente meno consapevole e più entusiasta. Successivamente, si fece più saggio e prudente. In ogni caso, si potrebbe dire che egli fu protagonista, ed insieme spettatore, di esperienze estreme e contraddittorie.
La più controversa di tali esperienze portò il pensatore alla contrapposizione secca tra res cogitans e res extensa. Gli esseri umani pensanti da una parte, tutto il resto del vivente e del non vivente dall'altra. Negando l'esistenza di una vita vegetativa e, soprattutto, di una psicologia animale non automatica, Descartes violò apertamente un sistema di credenze che non apparteneva solo ai dotti, ma al senso comune, agli amanti dei cani da compagnia, ai letterati che accarezzavano i micetti nel proprio studio, a quegli stallieri che si prendevano cura giudiziosa dei puledri affidati loro, ai giardinieri che assegnavano un'anima ed un'essenza ad ogni fiore. Riducendo ad automi meccanici tutti gli esseri viventi, ad eccezione di uomini e donne, Descartes si rese responsabile di un duplice sconvolgimento. In un certo senso fu osannato in quanto tentò di rendere tutti gli umani simili a Dio perché dotati di intelletto e ragione. Dall'altro fu attaccato per le medesime ragioni: l'uomo non è simile a Dio perché è marchiato dal peccato originale. Ciò è il massimo impedimento alla realizzazione della conoscenza assoluta: impossibile. Per questo occorre aver fede nella rivelazione.
Nel corso del Novecento alcuni autori si scagliarono contro Descartes. Si cominciò a prenderlo come bersaglio cui tirare, a considerarlo come responsabile di tutte le disgrazie, della riduzione della natura a cosa. Una tiritera infinita, ed ormai assai noiosa ed inconcludente, almeno tanto quanto lo erano state le filosofie scolastiche ai tempi di Descartes. In mezzo a tante esagerazioni, c'è sicuramente una critica più fondata e giustificata delle altre. Descartes utilizzò la teoria della circolazione del sangue sostenuta da William Harvey (Discorso - parte V) per dimostrare che anche il corpo umano è un meccanismo. Oggi si sa che non è così, che esiste una stretta relazione tra le attività dell'anima - o se si preferisce - della mente e quelle del corpo. Ma i residui di una terapeutica "cartesiana" si annidano ancora nel corpo stesso degli apparati sanitari, nella logica dell'industria farmaceutica e così via. Ciò non è del tutto sbagliato, anche se desta, in questa luce, sensate preoccupazioni. Se con i trapianti si è aperta una via nuova alla sopravvivenza è perché si è convinti che le parti del corpo sono sostituibili. Se si fabbricano protesi è perché, molto giustamente, si sostiene che un arto artificiale può aiutare a vivere l'handicap in modo migliore. Se ci sono parti del corpo che possono essere trattate meccanicamente; come si può dar torto a Descartes su tutta la linea?

Giunti a questo punto, crediamo si sia offerto più di uno spunto per incrementare la domanda su Descartes. La nostra offerta è al momento limitata. Ulteriori approfondimenti verranno prossimamente e seguiranno una logica pià specialistica, del tipo "la fisica di Descartes", "la metafisica di Descartes","l'etica di Descartes e la sua morale provvisoria" e così via. A partire da una critica rivolta ad Hobbes, potrebbe anche apparire una scheda su "Descartes e la politica". Nel frattempo ci auguriamo che la semina procuri un buon raccolto e che giungano contributi sia su Descartes che su temi ed autori che in vario modo si possano connettere a Descartes, come ad esempio Isaac Beeckman, i Rosa-Croce, le scuole gesuitiche, la pedagogia protestante, Riforma e Controriforma, i conflitti nazionali, i filosofi francesi di scuola cartesiana, la critica di Voltaire a Descartes, eccetera.

Note:
1) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - volume IV - TEA edizione 1997
2) René Descartes - Discorso sul metodo - Editori Riuniti 1982
3) citazione di seconda mano. Proviene da: Paola Zambelli - L'ambigua natura della magia - Il Saggiatore 1991
4) Frances A. Yates - L'illuminisimo dei Rosa.croce - Einaudi 1972
5) Salvatore Natoli - Soggetto e fondamento - Antenore 1969, poi rivisto, e ristampato da Feltrinelli.
6) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - 5° ristampa Laterza 1990
7) Nicola Abbagnano - idem
8) Ettore Lojacono - Cartesio La spiegazione del mondo fra scienza e metafisica . prima edizione ne I quaderni de Le scienze n° 16 - ottobre 2000
9) idem
10) si veda in proposito l'intelligente e documentata introduzione di Sergio Landucci alle Meditazioni metafisiche - Laterza 1997

moses - febbraio 2013
«Ci accingiamo ora a chiarire realmente il senso unitario dei movimenti filosofici moderni, nell'ambito dei quali verrà presto in luce il ruolo svolto dallo sviluppo delle nuova psicologia. A questo scopo dobbiamo rivolgerci all'originario genio fondatore della filosofia moderna nel suo complesso: Cartesio»
Edmund Husserl, da La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale

Il collegio di La Flèche
Nel 1594 i gesuiti erano stati espulsi dalla Francia per ragioni politiche legate all'attentato al re Enrico IV, che tuttavia era sopravvissuto. Cadrà infatti vittima di un altro attentato nel 1610. I gesuiti poterono dunque rientrare e nel 1603, "sotto stretta sorveglianza statale", diedero vita al Collège, importando dal Portogallo un sistema pedagico-didattico redatto e corretto da Claudio Acquaviva. L'insegnamento prevedeva nove anni di studi. I primi quattro dedicati alla grammatica, il V e il VI alla retorica, gli ultimi tre alla filosofia, ossia alla logica, alla fisica, alla metafisica e alla morale. Si studiava su testi aristotelici, letti e commentati in base all'interpretazione offerta dal Collegio di Coimbra. Quei commentari, molto aggiornati, costituivano, insieme alla Summa quadripartita di Eustachio di San Paolo e ai manuali di logica di Antonius Rubius e Abra de Raconis, il severo percorso formativo che ogni allievo doveva seguire. Nella Ratio studiorum gesuitica era prevista la possibilità per gli studenti più dotati e curiosi di accedere ad insegnamenti supplementari. Fu così che, quasi sicuramente l'adolescente Descartes venne a conoscenza della Perspectiva di Witelo (XIII secolo), il più significativo trattato di ottica del tempo, e godere dell'insegnamento di alcuni matematici come Christophorus Clavius. Questi non si limitava all'insegnamento di Euclide, ma aveva introdotto le Collectiones mathematicae di Pappo alessandrino.
Un punto essenziale dell'esperienza giovanile di La Flèche, che non è sfuggita a numerosi studiosi, fu l'esercizio spirituale secondo le indicazioni di Ignazio di Loyola. Le meditazioni cartesiane, in effetti, furono stimolate da questa abitudine al ritiro interiore, anche se poi presero tutta altra strada.

Isaac Beeckman
Qualche informazione è reperibile qui. Ma il materiale è insufficiente (leggi)



I sogni di Descartes
Interpellato da uno studioso di Descartes,, anche Freud incontrò qualche problema nella loro interpretazione. Si limitò ad osservare che sembravano sogni assai prossimi al pensiero cosciente. Leggi

La bestia nera di Descartes: Gisbert Voetius (leggi)
Descartes come rappresentante della teologia filosofica
«Appare problematico se e in quale nisura il pensiero di Descartes debba essere definito una teologia filosofica. Con questo autore si è soliti far iniziare la filosofia moderna, nel senso che con lui il tema "uomo" subentra al tema "Dio" che domina la filosofia medioevale. In effetti avviene qualcosa di simile. L'uomo, il soggetto, diviene, nell'epoca moderna, argomento d'indagine in misura crescente e con ciò oggetto della problematica filosofica in modo particolare. Questo però non può essere inteso come un processo lineare. In ogni caso, per quanto lo concerne, Descartes è a pieno titolo un esponente della teologia filosofica, malgrado il suo intenso sforzo di giungere a una certezza di sé dell'io, e lo è in tale misura da poter degnamente collocarsi a fianco dei grandi teologi medioevali.»
(da Il Dio dei filosofi di Wilhelm Weischedel)

Cartesiani contro Cartesio
Jacques-Bénigne Bossuet: «Io vedo [..] prepararsi una grande battaglia contro la Chiesa sotto il nome della filosofia cartesiana. Vedo nascere dal senso di questa e dai suoi principi, a mio parere malintesi, più di un'eresia, e prevedo che le conclusioni scaturitene contro i dogmi osservati dai nostri padri finiranno per renderla detestabile, facendo perdere alla Chiesa tutto il frutto che poteva sperarsene per fissare nell'animo dei filosofi l'idea della divinità e dell'immortalità dell'anima..
Un altro terribille flagello, derivante da quei principi male interpretati, attanaglia sensibilmente gli animi, giacché, col pretesto che si deve ammettere solo quanto è inteso con chiarezza, quanto, entro certi confini, è assolutamente veritiero, ciascuno può prendersi la libertà di affermare: io intendo questo, ma non quello, e su questo solo fondamento, si approva o rifiuta tutto , e ciò senza immaginare che, oltre le nostre idee chiare e distinte, ve ne sono pure di confuse e vaghe, tali da nom consentire di infirmare verità così essenziali che, una volta negate, tutto risulta rovesciato. Si introduce, con questp pretesto, una libertà di giudizio, che, senza alcun riguardo alla tradizione, permette di affermare tutto quanto si pensa;; mai un tale eccesso si è verificato, io credo, prima dell'affermazione del nuovo sistema...» (da Lettre à un disciple du pére Malebranche, citato in Storia dell'ateismo di Georges Minois - Editori Riuniti 2000)



Leggi di natura
Malgrado gli storici abbiano opinioni diverse sulla genesi delle scienze moderne, moltissimi concordano nell'attribuire a Descartes il merito e la responsabilità di aver dato un significato preciso al termine "legge di natura", quello che è ancora di uso corrente. La qual cosa fu di straordinaria importanza, soprattutto per la scienza fisica e la relativa egemonia da questa esercitata nei confronti della chimica e della biologia. Galilei ed altri prima di lui erano stati molto più parchi e misurati, parlando a volte di regulae, ratio e proportio, altre di dettati divini e ordine dell'universo. Tra gli antecedenti si potrebbero citare Francis Bacon - che parlò di "leggi del moto" e di "leggi d'azione" -, Kepler, lo stesso Copernico. In qualche trattato, il termine "legge" aveva già fatto il suo ingresso, tuttavia era evidente, soprattutto da parte di Galilei, una certa tendenza ad evitare di mescolare questioni di fisica e questioni di teologia. Curiosamente, sia la legge scoperta da Galilei sulla caduta dei gravi, sia le tre leggi scoperte da Kepler, non erano state definite come tali nei rispettivi trattati.
Nella V parte del Discorso sul metodo, caddero tutte le resistenze e Descartes fece apertamente ricorso al termine "legge". Nei Principia Philosophiae, dopo opportuna attribuzione a Dio della «causa primaria e universale» di tutto il moto presente nell'universo, Descartes aggiunse: «Noi conosciamo anche che è una perfezione di Dio non solamente di essere immutabile nella sua natura, ma anche di agire in un modo che egli non cambia mai [...] donde segue che, poiché ha mosso in molte maniere differenti le parti della materia, quando le ha create, e le mantiene tutte nella stessa maniera e con le stesse leggi ch'Egli ha fatto osservar loro nella creazione, conserva incessantemente in questa materia un'eguale quantità di movimento.» (1a) Un Dio che non è soggetto a cambiare, dunque, autorizza a credere che «noi possiamo pervenire alla conoscenza di certe regole, che io chiamo le leggi di natura, e che sono le cause seconde dei diversi movimenti.» (2a) Nessuno fu più chiaro ed esplicito prima di lui.
Da questi passi si può facilmente inferire che Descartes considerava le leggi naturali come immutabili e necessarie (non può essere altrimenti) e con validità universale. Ciò nei secoli a venire renderà più chiara e distinta la via della ricerca scientifica rispetto a quella della metafisica, ma non sarà grazie a Descartes. I cartesiani uscirono infatti sconfitti dal confronto con i newtoniani e non se la passarono troppo bene nemmeno nel rapporto con Leibniz e i suoi sostenitori.

1a) la citazione è tratta da I Principi della filosofia di Eugenio Garin - Laterza 1967
2a) idem

La mathesis universalis...impossibile
«Per una breve stagione della sua esistenza, che ha coinciso con la stesura dei primi materiali utilizzati nelle Regole, Descartes aveva intravisto - ispirato forse da una tradizione che affondava le proprie radici nel neoplatonismo - di poter comunicare la sua conoscenza del mondo ricorrendo a una scrittura formalizzata, puramente matematica-geometrica, di assegnare quindi statuto di scientificità alle sole cose trascrivibili secondo i parametri dell'ordine o della misura, scrittura che, con nome antico, chiamò "mathesis universalis

«Tale progetto lo ha portato a pensare la propria concezione epistemica in una dimensione assolutamente utopica che, sul piano strettamente teorico, non ha mai ricusato, in quanto scienziato, impegnato nella ricerca di filosofia naturale, ha dovuto però presto abbandonarla. Ed è proprio qui nelle regole (A, T. X, 393-394) che, riflettendo sulla forma della lente necessaria alla costruzione del cannocchiale (l'anaclastica), è portato a precisare che nell'ambito della fisica non si può rinunciare al linguaggio ordinario, cui d'altronde non aveva rinunciato nessun artefice della rivoluzione scientifica....»
(da Ettore Lojacono - Cartesio / La spiegazione del mondo fra scienza e metafisica . prima edizione ne I quaderni de Le scienze n° 16 - ottobre 2000)



Su Cartesio e i rosacroce


La regina Cristina di Svezia

Discorso sul metodo (testo integrale)

La fisica di Descartes

Sistema di riferimento cartesiano

Retta nel piano cartesiano




Estetica cartesiana?
«La musica ha lo scopo di divertire e di suscitare in noi diversi sentimenti. Si possono comporre melodie tristi e ciò nonostante piacevoli, senza che così gran contrasto ci provochi meraviglia: per cui elegiaci e tragici riscuotono tanto maggior successo quante più lacrime ci fanno piangere.» (René Descartes dal Compendio di musica scritto a vent'anni e dedicato ad Isaac Beeckman)
Definire la musica? E perché? Cartesio vi rinunciò, molto coscienziosamente, andando subito al sodo, cioè a quella che, secondo lui, ed anche secondo moltissimi altri, era la funzione sociale della musica, descritta in modo tanto conciso quanto efficace e non privo di ironia. Purtroppo, anche sbrigativo. Se oggi guardiamo a tale scelta con relativa insoddisfazione, non è perché ci manchi la definizione, visto che tutti sappiamo cosa sia la musica in generale, e cosa sia per ognuno di noi in particolare. . Qui basta rammentare che far musica è un'arte particolare, e che la musica è espressione di quell'arte, il risultato concreto del lavoro di individui in grado di padroneggiarla mediante strumenti.
Se siamo insoddisfatti della descrizione cartesiana non è perché sia risultata innegabilmente falsa. Semmai incompleta e parziale. La maggior parte degli individui che ascolta musica, tuttavia, potrebbe ripetere pari pari le parole del filosofo. «La musica mi diverte e mi rilassa; a volte mi fa piangere.»

Da sapere
Il termine "barocco" derivò da un sillogismo aristotelico, il più complesso: baroco


Pierre de la Ramée
Jacopo Zabarella
Filippo Melantone



Husserl e Descartes
«La conoscenza filosofica è secondo Cartesio assolutamente fondata; essa deve basarsi su un fondamento conoscitivo immediato ed apodittico, che, nella sua evidenza, escluda qualsiasi dubbio possibile. Qualsiasi passaggio mediato dalla conoscenza deve giungere appunto a una simile evidenza. Uno sguardo d'insieme alle sue precedenti convinzioni, quelle che egli ha ereditato e assunto, basta a fargli rilevare che ovunque si presentano dubbi e possibilità di dubbio. In questa situazione, è inevitabile che egli, come chiunque voglia diventare seriamente filosofo, cominci con una specie di epoché scettica che pone in questione l'universo di tutte le sue precedenti convinzioni, che evita di usarle in modo qualsiasi nei giudizi, che sospende qualsiasi presa di posizione rispetto alla loro validità o non-validità. Ogni filosofo, almeno una volta nella vita, deve procedere così, e se non l'ha fatto, anche se già dispone di una propria filosofia, bisogna che lo faccia. Questa sua filosofia anteriore all'epoché deve dunque esser considerata alla stregua di un pregiudizio qualsiasi.»

[...] «se io sospendo le prese di posizione rispetto all'essere o al non-essere del mondo, se mi astengo da qualsiasi validità d'essere che si riferisca al mondo, con quest'epoché non mi è negata qualsiasi validità d'essere. Io, io che opero l'epoché, non rientro tra i suoi oggetti, piuttosto se la opero in modo realmente radicale ed universale - sono escluso di principio dal suo ambito. Io sono necessariamente perché sono colui che la opera.Proprio per questo trovo quel terreno apodittico che cercavo, e che esclude assolutamente qualsiasi dubbio. Qualunque sia portata del mio dubbio, e anche se cerco di pensare che nulla è, né nel dubbio né nella verità, resta assolutamente evidente che io, in quanto dubito, in quanto nego, sono. Un dubbio universale si risolve necessariamente da sé.»

«Ma rimane da aggiungere una cosa, una cosa particolarmente sorprendente. Mediante l'epoché io mi sono spinto fino a quella sfera d'essere che precede di principio tutto ciò che può essere per me e le sue sfere d'essere, in quanto è la loro premessa assolutamente apodittica. Oppure, il che per Descartes è lo stesso: io, l'io operante dell'epoché, sono l'unico elemento che escluda assolutamente qualsiasi dubbio, qualsiasi possibilità di dubbio. Tutto ciò che si presenta altrimenti come apodittico, ad es. gli assiomi della matematica, lascia aperta la possibilità del dubbio, e quindi può essere pensato come falso -; la possibilità della falsità viene esclusa...»

«Cartesio non è qui per caso dominato preliminarmente dalla certezza galileana di un mondo universale ed assoluto di corpi e dalla distinzione di ciò che rientra nella sfera dell'esperienza meramente sensibile e di ciò che, in quanto matematico, è oggetto del pensiero puro? Secondo Cartesio non è per caso ovvio che la sensibilità rimanda a un essente in-sé ma può ingannare, e che quindi deve esistere una via razionale per giudicarla e per conoscere razionalmente e matematicamente l'essente in-sé? Ma tutto ciò, e persino in quanto possibilità, non è forse stato messo tra parentesi mediante l'epoché? E' evidente che, già in partenza, Cartesio mira a un fine predeterminato, malgrado il radicalismo, malgrado l'assenza di presupposti che egli esige; e la localizzazione di quest'"ego" non è che il mezzo a questo fine. Egli non si avvede che già la convinzione della possibilità di un fine e di un mezzo equivale a un abbandono del suo radicalismo. Con la mera epoché, con l'astensione radicale da tutte le pre-datità, da tutte le pre-validità mondane, non si è ancora fatto nulla; l'epoché dev'essere attuata seriamente e deve persistere. L'ego non è un residuo del mondo, è bensì la posizione assolutamente apodittica, che, che è resa possibile soltanto dall'epoché, dalla "messa tra parentesi" di tutte le validità del mondo, l'unica che da essa sia resa possibile.Ma l'anima è il residuo di un'astrazione preliminare del puro corpo: dopo questa astrazione essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro corpo. Ma (e ciò non deve essere trascurato) quest'astrazione non risulta dall'epoché; essa è un prodotto dell'atteggiamento del naturalista o dello psicologo che operano sul terreno naturale del mondo già dato, ovviamente essente.»

(Edmund Husserl, da La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale)