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La filosofia di Giuseppe Capograssi
Lo stato come moderamen
di Daniele Lo Giudice
La filosofia del diritto che Capograssi deriva dalla sua lettura del moderno non è filosofia seconda, ma primaria. Essa arriva al cuore dell'essere allo stesso titolo con cui vi arrivano Aristotele e gli scolastici, con la sostanziale differenza che nel diritto e mediante la riflessione sul diritto, il centro dell'essere non si trova nella metafisica della conoscenza, ma nell'azione. La filosofia dell'azione mette in luce la vita concreta del soggetto, e trova in Blondel il suo vero padre. Ma tra Blondel e Capograssi esiste uno scarto qualitativo: per Capograssi, non c'è filosofia dell'azione che non sia anche filosofia dell'azione giuridica. Essa non va cercata, o costruita, perché esiste già. E' la filosofia del diritto. E proprio in quanto questa filosofia conosce l'azione nel suo vero essere, spogliando l'azione stessa dal suo carattere accidentale, essa è anche filosofia attiva, persino filosofia di salvezza e redenzione. Questa filosofia salva l'uomo costringendolo a ridursi all'essenziale.
L'uomo non ha, come gli animali, una guida sicura nell'istinto, ed è questo che lo rende libero. Ma esistenzialmente la libertà crea un senso di vertigine. Tutti gli individui pronti ad agire si trova di fronte ad un bivio: realizzarsi seguendo ciò che è più profondo in sé stesso, oppure seguendo la via del male, che è un tradimento del sé profondo. In questo suo agostinismo, Capograssi può così affermare che l'azione giuridica è «l'azione umana rivelata nella sua sostanza» e sviluppata «in tutto il movimento delle sue esigenze e dei suoi fini vitali, in tutta quella perenne spinta del soggetto verso la comunione e l'unione con tutte le realtà, che la coscienza ha scoperto con la conoscenza concreta. La vera opera dell'imperativo giuridico è proprio questa formazione di esperienza.» (1)

La presenza del male nel mondo umano, la presenza concreta di individui concreti che non seguono la voce del sé profondo, rende lo stato «l'ultima posizione giuridica dell'azione», ovvero «l'affermazione dell'azione nella sua verità come oggetto di tutto lo sforzo e il travaglio della vita, e quindi l'affermazione di un oggetto e di un fine nel quale tutte le volontà e tutte le vite necessariamente comunicano.» Abbiamo così che lo stato diviene il «limite» all'infinito proliferare di soggetti senza limite e capacità di autolimitazione, di ascolto del sè profondo.
Lo stato è così «il massimo sforzo di salvare l'azione, in quanto è l'azione pratica dell'imperativo giuridico diventuto principio effettivo e totale di vita e di azione, vale a dire principio di vera formazione dell'esperienza giuridica.»
Lo stato è dunque l'espressione più alta della coscienza in azione, la coscienza giuridica. La sua razionalità sta nella «creazione di una esperienza il cui fine è essenzialmente comune a tutte le vite ed in cui tutte le vite debbono ugualmente partecipare al lavoro di creazione.» Cè dunque, ci dovrebbe essere, un rapporto intimo tra stato e società civile perché lo stato non è altro dalla formalizzazione giuridica di rapporti civili. «Quella fitta trama di bisogni e di scambi che costituiscono la società civile, quella comunanza di condizioni fisiche, di territorio e di stirpe, di lingua e memorie, di fede e storia da cui risulta la personaltà storica di una gente, tutto questo insieme di condizioni interesse e fine dell'azione quando entra nella formulazione della volontà comune e del comune lavoro dello Stato.»
Riscopriamo così il senso dello stato, la sua esigenza razionale e la necessità che vi sia una scienza giuridica a sua volta razionale. L'esperienza giuridica trova in questo riconoscimento la sua verità. «Anche quando la scienza ha professato rigidamente la dottrina della legge dello Stato come la sola legge giuridica, se questa era l'opinione dello scienziato, non era questa la verità implicita nella posizione stessa della scienza.»
Commenta in proposito Pietro Prini: «La positività del diritto è tale da svelarsi come la razionalità implicita dell'azione, la razionalità dell'esperienza comune. E' questa una convinzione ben radicata nel pensiero di Giuseppe Capograssi, al di là di ogni immaginabile attrattiva (anche e specialmente da parte di qualche istituzione o corrente cattolica del suo tempo) del rinato giusnaturalismo. Ma tale convinzione è stata messa ad una prova difficile dai grandi sconvolgimenti della società, del diritto e dello Stato tra le due guerre mondiali e nelle loro conseguenze ancora oggi in gran parte indominabili.» (2)

Gli scritti degli anni 40'-50', come Ilsignificato dello Stato contemporaneo (1942), Il diritto dopo la catastrofe (1950), L'ambiguità del diritto contemporaneo ed altri, affrontano il problema della crisi e della degenerazione dello stato nel totalitarismo, costringendo Capograssi ad una rielaborazione profonda. L'avvento dei totalitarismi aveva spezzato il rapporto tra società e stato in modo inaudito e demenziale. «Alterando il rapporto tradizionale tra società e Stato, per cui lo Stato veniva nel movimento della storia a coronare la società a a dare al suo processo l'ultima mano, lo Stato contemporaneo si pone come il creatore del mondo sociale. Lo Stato moderno era tipicamente conservatore; lo Stato contemporaneo ha per intima essenza la rivoluzione, perché per rifare tutto non deve accettare nulla. [...] Lo Stato anteriore era essenzialmente rappresentativo: rispecchiava gli itinerari che la spontaneità della vita sociale disegnava; lo Stato contemporaneo si impianta nel mezzo del mondo concreto come intelligenza e disegna i piani della storia.» (3) Capograssi avvertiva, su questa linea di rflessione, tutta la profonda differenza tra lo stato moderno e quello contemporaneo degenerato nel totalitarismo. Nello stato moderno, l'organizzazione "era una macchina delicata ed efficace, che raccoglieva e depurava le volontà sociali trasformandole dallo stato grezzo nel prodotto finito delle leggi". Ora, nel totalitarismo, lo stato si è arrogato il compito di essere "creativo", sopprimendo la creatività individuale. Come sottolinea Prini, «Individuo e società sono diventati il materiale grezzo, amorfo e passivo degli arbitri infiniti di una macchina impazzita che ne fa quello che vuole in funzione del sogno di potenza illimitata di chi l'ha costuita. Ma la domanda più inquietante che il Capograssi si pone è se si sia trattato di un evento che ha potuto o poteva essere eliminato da quelle stesse catastrofi che esso inevitabilmente produceva, o se invece le sue radici fossero ben più profonde e da cercare in quel "medesimo mondo di ieri", dove "il diritto era la forma che lo Stato riempiva del suo contenuto".» (4)
La risposta stava nella seguente riflessione: «Se crisi è mancata consapevolezza dei disordini segreti che compongono l'ordine apparente della realtà, quel mondo era in crisi. Ed effettivamente in quel mondo tutto tendeva a farsi astratto... Il mondo di ieri era un mondo più di pensiero che di volontà. Malgrado le religioni dell'azione, il mondo di ieri si teneva più all'idea dell'azione che all'azione. E perciò i pochi volevano e gli altri seguivano. Gli altri, tutti gli altri, vivevano nella vita privata. Il diritto pubblico viveva all'ombra del diritto privato.»

Analisi senz'altro lucidissima, perché porta a considerare la necessità di una dialettica democratica, politica e civile assieme, sempre elevata. La crisi del vecchio mondo cominciava allora proprio in un allentamento della tensione tra società civile e stato. Il vuoto di relazione veniva così riempito dalle potenze di immense forze elementari, «che sono queste terribili affermazioni o slanci di volontà, che si può dire non hanno altra legge che sé stesse... » Lo stato di diritto vede così sorgere sul suo territorio milizie private, veri e propri eserciti che deprivano lo stato del monopolio della forza. Tali eserciti si chiamano col vecchio nome di partiti, ma sono qualcosa di diverso,anche perché "arrivano addirittura a impersonarsi, a puntualizzarsi in individualità storiche, e cioè a trasferirsi nella puntuale volontà di un individuo che vuole per tutti e dà così alla volontà di tutti il massimo di unità".

Ripensare la crisi significa ripensare la storia. Capograssi riapre il capitolo "Vico". Egli comincia a considerare che l'uomo desidera l'ordine sociale e politico, ma ad un certo punto comincia a sentirsi oppresso dall'ordine e vuole anche il disordine. Negli individui umani vi è sempre una latente esigenza di disordine che fa il paio con la volontà di ordine. E' "la volontà che possiamo chiamare di arbitrio, cioè di liberazione dall'ordine, dal già fatto, dal già composto, dal già esistente, che è anch'eesa inesauribile e presiede anch'essa a tutti i movimenti della storia." «La guerra - scrive Capograssi - è la prova che i popoli a un certo punto sono assaliti da quella terribile cosa che è la noia dell'ordine.» Volontà di ordine e bisogno di disordine "sono tutt'e due positive", esprimono "le profonde vocazioni e le profonde spinte verso non si sa che (perché effettivamente le vocazioni dell'uomo sono spinte verso l'infinito) che fanno tutta la realtà della vita umana". Ma, affinché ordine e disordine possano vicendevolmente combattersi occorre il "terzo fatto" vichiano, il "potere". Ad ogni potere corrsponde "un sistema di obbedienza". L'obbedienza è un bisogno strutturale dell'esperienza umana che tuttavia non riesce mai a sopprimere "la tendenza all'illimitato, la tentazione a non avere limiti". In ciò sta il lato "demoniaco del potere". Il potere non è un fatto tecnico. Esso strega l'uomo perchè l'individuo vede nel potere una forza che genera ebbrezza, in grado di segnare profondamente il destino degli altri e l'esperienza di tutti. «E corrispondente a questo profondo e singolare bisogno, c'è un altro profondo bisogno che hanno pure gli uomini, di essere guidati, di non pensare al proprio destino, di avere altri che segni e tempi per il proprio destino. E' un bisogno s'inserisce nell'altro, si addentella nell'altro, e tutti e due costituiscono questo fatto del potere.»

Capograssi giunge così a vedere nello scenario della secolarizzazione realizzata al suo estremo una dialettica a tre voci tra ordine, disordine e potere. Il potere non è solo la conquista della propria libertà, ma diventa immediatamente il potere di inventare il destino degli altri.
In tale scoperta, nella coscienza consapevole del potere non può non sorgere «una specie di colpa, in colui che si arroga il potere di inventare il destino degli altri e in colui che accetta da un altro bello e fatto il proprio destino. Quasi per un oscuro sentimento, una specie di istinto della propria profonda vocazione all'autonomia nel senso pieno della parola, di avere nelle mani il proprio destino, quasi presi da una profonda idea della loro natura, che ha la propria libertà e dignità nel governare se stessi, agli uomini è sempre parso oscuramente, istintivamente, qualche cosa di negativo, una infelicità da redimere, questa necessità dell'assoggettamento dell'uomo all'uomo.» Il "potere" porta in sé qualcosa di ingiusto. Per questo le grandi utopie che hanno tentato di legittimarne l'assolutezza - osserva Prini - si attendevano dallo stesso carattere di assolutezza del potere la fine delle schiavitù. In realtà, accadde che «la pura aspirazione del potere come arbitrio puro, come fonte di atti gratuiti, la cui osservanza è paradossalmente obbligatoria per gli altri, è una delle maggiori ferite che la dignità degli uomini possa ricevere, e il terribile è che spesso all'atto del potere come puro arbitrio risponde l'obbedienza come puro automatismo di esecuzione, per cui l'esperienza minaccia di perdere ogni umanità e quindi ogni energia vitale.»
La politica è la forma del potere, il suo ambito di esercizio. Nell'azione politica confluiscono le esigenze di ordine e disordine, quivi il potere si realizza come mezzo e come fine. Come attività atta a perpetuare il proprio potere o cederlo agli altri. Comunque sia, nel loro mutuo relazionarsi attraverso il confronto dei rispettivi poteri, le tre distinte volontà che hanno fini diversi e contrari, trovano nello stato un equilibrio provvisorio proprio perché l'attività politica si oppone di per sé ad ogni conclusione. In tutto ciò sta un «orribile pericolo» che «riassume tutti i pericoli». Esso fu osservato, ad esempio, da Machiavelli, ma questi si fece abbacinare dalla figura di Cesare Borgia, e perse così la possibilità di vedere «l'uomo nella la sua umanità». Di fronte agli esiti catastrofici della lotta per il potere nella prima parte del Novecento, la riflessione di Capograssi mira così ad evidenziare quanto si sia ormai lontani dalla «profonda razionalità» del Politico moderno. «Gli abissi di irrazionalità della storia politica del Novecento - osserva Pietro Prini - sono stati davvero una svolta del pensiero verso un nuovo mondo.» (5) «E' ormai chiara ed ineludibile - continua Prini - la "perfetta e globale insecuritas" in cui gettano il mondo umano le "spinte selvagge, verso l'ordine perfetto, verso la libera creazione di esperienze gratuite, verso la assoluta affermazione del potere." Per l'accesso al diritto come essenza dell'azione non basta più l'esercizio partecipativo del pensiero come amore, se l'azione è attraversata da tentazioni irrazionali che tentano di accompagnarne la struttura eidetica e di fatto oscurano il senso della totalità dell'esperienza. Il metodo del verstehen, del "comprendere" si implica in una dialettica recuperatrice che deve operare remove prohibens per ritrovare "questa cosa preziosa che è la vita nel suo delicato e fragile equilibrio di ordine, di libera creatività, di potere, nella sua sostanza sempre informe sempre formata di libertà che si ordina nella ragione e di ragione che si alimenta della libertà"» (6) Capograssi ha dunque l'indubbio merito di aver esplorato la grande crisi della razionalità contemporanea non per lasciarsi cadere in essa senza nemmeno replicare, ma per salvare alla luce del pensiero raziocinante ciò che la crisi stessa avrebbe potuto trascinare irrimediabilmente con sè, nel suo stesso baratro. «La forza della sua dialettica - continua Prini - sta nel riconoscere che senza l'azione che spinge l'individuo - l'individuo primitivo che è in noi - alla formazione del mondo umano, ossia senza le ragioni che contrassegnano l'originaria sacralità della sua vita, nessuna di quelle tre direttive trascendentali di senso potrebbe mai sorgere e valere.
Ebbene - continua Prini - l'istituzione che impone obiettivamente a noi tale riconoscimento è proprio, secondo il Capograssi, quella in cui l'azione dell'uomo, nella sua virtualità di esperienza comune ed esperienza giuridica, viene "salvata" da quella forma di volontà di potere che è essenzialmente lo Stato, comunque tenda a sfigurarne il volto l'attività politica che mira a farne l'assoluto del potere

Lo stato garantisce il diritto all'azione e l'azione è sia costruttiva e produttiva, sia distruttiva e negativa. L'azione è il potere realizzato, sia di distruggere che di creare. Non c'è azione che non abbia influenza e potere sul destino proprio e altrui. Le azioni più rilevanti sono quelle che investono lo stato. «Lo Stato è il momento nel quale gli uomini condotti dalle loro azioni di ordine, di arbitrio creativo, di potere si fermano per così dire e si rendono conto, prendoono coscienza del problema semplice della salvezza e della difesa della vita che tutte le loro vocazioni suppongono. Che avvenga questo momento di riflessione, di presa di coscienza, di sosta nell'immenso lavoro di costruzione e di distruzione che è il lavoro da cui nasce il mondo umano della storia, è una delle più gravi meravigliose cose della storia dell'azione, è una delle più potenti manifestazioni della profonda spiritualità, della profonda sostanza di pensiero che è il nucleo più segreto della vita umana.» ()
Lo stato, nel pensiero ultimo di Capograssi, non è più inquadrabile in una visione tomistica. Non è più conseguenza dell'azione individuale, non è più l'annuncio di richiesta di ordine che ogni agire individuale comporta. L'adesione di Capograssi al pensiero agostiniano supera le riflessioni tomistiche. E, come in Agostino, e anche in Lutero, gioca un ruolo decisivo una attività politica che prende coscienza di sé liberandosi dell'autoritarismo dogmatico del tomismo. Nelle Considerazioni sullo Stato, Capograssi ipotizza che "forma" riassuma nel linguaggio politico contemporaneo il significato antico di peras, cioè "limite". Il "limite" che rappresenta lo stato frena gli slanci assolutistici dell'esigenza di ordine, della volontà dell'arbitrio e dell'ambizione al potere tendenzialmente illimitate. «Lo Stato non è che questo sistema di moderazioni che subiscono gli slanci costruttivi e distruttivi della realtà sociale. E' questa organizzazione di limiti, questo sistema di moderamen, nato e portato, dentro questi stessi slanci, dentro queste stesse volontà che incessantemente cercano di soddisfare le loro spinte verso l'illimitato. In questo senso appunto lo Stato, quell'insieme di sforzi che si chiama lo Stato, è uno dei più mirabili atti di virtù che fanno gli uomini, perché il moderamen portato nel pieno dell'impeto costruttivo o distruttivo della realtà, è limite portato nello slancio illimitato delle volontà volte verso l'appagamento delle proprie tendenze assolute. Lo Stato non ordine né arbitrio creatore né potere, ma è proprio e quasi si direbbe l'opposto di questi grandi slanci, è il tentativo continuo e riflesso che fanno gli uomini per riportare a termini umani, cioè limitati da tutti i limiti che nascono dalle strutture stesse della vita, questi slanci.» (7)

(1) G. Capograssi - Analisi dell'esperienza comune - in Opere - Giuffrè 1959
(2) P.Prini - La filosofia cattolica italiana del Novecento - Laterza 1996
(3) G.Capograssi - Il significato dello Stato contemporaneo - 1942, ora in Opere - Giuffrè 1959
(4) citato in P. Prini - La filosofia cattolica italiana del Novecento - Laterza 1996
(5) idem
(6) idem
(7) idem
DLG - ottobre 2006