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Alcune note su Francis Herbert Bradley
(utili alla comprensione della sua influenza su Bertrand Russell)

scheda a cura di Renzo Grassano


Francis Herbert Bradley fu un filosofo idealista.
Poichè in genere si crede che idealista significhi una persona che professa ideali ed utopie, ritengo utile chiarire che in filosofia "idealista" significa qualcosa di diverso; infatti anche se per alcuni filosofi questa definizione "comune" potrebbe ugualmente calzare, la stessa non potrebbe assolutamente adattarsi al filosofo idealista per antonomasia, cioè Hegel.
Hegel fu infatti più realista dello stesso kaiser. Nel suo caso, pertanto, non sarebbe affatto pertinente definire il filosofo come professante degli ideali e propositore di utopie: tutta la sua filosofia si fonda, al contrario, su questo semplice assioma: il reale è razionale. Che è come dire: se è così è perchè deve essere così. Il compito della filosofia è di giustificare e spiegare questo essere così.

Tutte le volte che mi tocca parlare di "idealismo" confesso una certa difficoltà d'approccio perchè mi sembra persino ovvio, se non necessario, cercare di darne una non facile definizione preliminare.
Molti filosofi non idealisti ci provarono, da Leibniz a Wolff a Kant. Ma essi non videro all'opera il vero idealismo moderno, cioè quello tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel.
Quando parliamo di idealismo moderno, pertanto, è soprattutto al pensiero di questi tre filosofi che dobbiamo fare riferimento, anche se, in un certo senso, la definizione di idealista che fornì Kant mi pare possa in generale applicarsi a tutto l'idealismo.
Vi è infatti un idealismo della conoscenza, ovvero come l'io conosce il mondo, compreso il mondo delle idee.
Nell'idealismo lo conosce attraverso una rappresentazione ideale. Una forma di questo idealismo è per esempio il pensiero di Spinoza, il quale muove da un'idea della realtà, rappresentata come unica sostanza e da essa deduce tutta la conoscenza conseguente. Le esperienze individuali attraverso le quali ognuno conosce qualcosa alla sua maniera stanno quindi all'idealismo conoscitivo sempre in forma parziale se non erronea.
In questo tipo di idealismo comunque l'io è sempre posto di fronte alla realtà oggettiva nel suo insieme e solo questo insieme è la realtà, la quale è, dunque, sia percepita, per esempio in Berkeley, sia soprattutto "pensata e rappresentata", mi pare in Spinoza.

Un vero idealismo conferisce senso alla realtà con una intuizione a priori. E' critico nei confronti delle opinioni individuali o non sufficientemente ampie e vicine al senso della realtà fondata dal grande ed intuitivo pensiero della stessa.
Un notevole rovesciamento dell'idealismo tradizionale, che non si tradusse affatto in materialismo o in realismo, ma aprì la via all'idealismo moderno, fu operato da Fichte con la dottrina ipersoggettiva dell'io.
In essa, sulla base di alcune affermazioni kantiane relative all'io che immette nel processo della conoscenza dei fenomeni criteri soggettivi da lui stessi costruiti, senza dunque mai riuscire a pervenire a quell'inconoscibile che è la cosa in sè, ovvero la cosa come è posta al di là di questi criteri e non coglibile con questi criteri, dunque indipendente da noi, Fichte formulò una dottrina nella quale, secondo la stessa testimonianza di Schelling, il soggetto totalmente annichilito da Spinoza, sovrastato cioè dalla infinita sostanza divina presente nel mondo che è il vero ed unico oggetto della conoscenza, viene a sua volta annichilito, se non "domato", dall'io fichtiano. L'inizio della filosofia fichtiana è l'io che conosce il non-io, dove per non-io si intende non il "tu",bensì tutto il resto del mondo. L'io di Fichte sopravanza dunque la riserva kantiana sulla soggettività della conoscenza in un solo grande balzo; il non-io non è più distinto tra ciò che è fenomeno, e che dunque conosciamo secondo nostri criteri, e cosa in sè, è solo altro da sè.
La garanzia che l'io conosca il non-io per com'è davvero dovrebbe essere data dall'io stesso.
Ciò può destare diverse perplessità persino negli stessi idealisti ed infatti la dottrina venne criticata sia da Schelling che da Hegel, oltre che dallo stesso "vecchio" Kant.
Tuttavia è da rilevare che in questo rapporto che è insieme problematico e dialettico, comincia a fare capolino uno dei temi centrali della grande filosofia idealistica degli inizi dell'ottocento, ovvero la dialettica, intesa sia come dialettica tra soggetto ed oggetto, in particolare proprio in Fichte, sia come dialettica dello spirito del mondo, che è la formulazione filosofica hegeliana dell'evoluzione della "mentalità umana" attraverso tutte le sue configurazioni storiche fino alla "coscienza assoluta", che però non è altro da quella assiomatica posizione di partenza per la quale "il reale è razionale".
Ad Hegel sfugge, temo, che ognuno ha diritto alla possibilità e che dunque ognuno cambia se stesso e di conseguenza il mondo anche secondo principi di razionalità pura che nulla hanno a che vedere, p. es., con l'irrazionalità dello spreco del denaro pubblico nello stato assoluto e "dissoluto" in cui viviamo oggidì.
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Non è questa la sede per sviluppi ulteriori sull'idealismo in generale.
Credo che questo sia quanto basti ad intendere grosso modo che si intende per "idealista" in filosofia.
Il primo idealista esplicito fu ovviamente Platone, anche se, sia Pitagora che Parmenide, espressero una visione dell'essere che in qualche modo potrebbe definirsi pre-idealistica.
Il saggio di Marenco , una bella incompiuta che comunque trova la sua originalità nel fatto che non si tratta di uno scritto di tipo accademico od universitario, bensì di un racconto del suo problematico rapporto con Platone, chiarisce in buona parte diverse questioni ed aiuta a comprendere le origini stesse dell'idealismo e quella strana e spesso inesplicabile contrapposizione tra apparenza ingannevole, che per il senso comune è la realtà, e realtà, che per il senso comune è fantasia di filosofi.
Il ragionamento su questo autentico arcano caratterizza spesso l'idealismo, da esso viene intepretato e spiegato, ed è comunque il momento centrale della filosofia di Bradley.

Nella seconda metà dell'ottocento anche in Inghilterra si produsse una reazione idealistica al positivismo, in particolare al pensiero di Spencer e Stuart Mill.
Tra i protagonisti di questa nuova tendenza va ricordato James.H Sterling (1820-1909) che provò a rendere intellegibile al pubblico inglese la filosofia hegeliana attraverso una personale rilettura di Hegel e di Kant nell'opera intitolata "The secret of Hegel".
Il neohegelismo fu introdotto nell'università di Oxford da Benjamin Jowett. (1817-1893).
Un altro importante neoidealista fu Thomas H.Green (1836-1882), critico di Bentham e propugnatore di un'etica non utilitaristica e umanitaria-solidaristica, fondata su principi metafisici.
Green merita la nostra attenzione perchè questa fondazione avviene sul concetto di coscienza assoluta. Ogni nuova conoscenza per Green comporta un progresso, ma queste conoscenze, o meglio, l'oggetto di queste, non viene all'essere nel momento della loro scoperta perchè esse sono già reali nella coscienza assoluta.
Green ha il merito di chiedersi, cosa non frequente in un "idealista", come sia possibile, che questa coscienza "prenda corpo" attraverso l'animale uomo ed i suoi organi anatomici e fisiologici.
Per Green questo rimane un enigma insolubile. Ma noi potremmo intenderlo come un programma di ricerca non infecondo.

In questa rinascita di interesse per le posizioni idealistiche, sulla scia di quel platonismo inglese che già si era affacciato sulla scena in pieno '600 ( i platonici di Cambridge) , si delinea l'importante contributo di Francis Herbert Bradley , nato nel 1846 e vissuto ad Oxford anche se non insegnò nel College.
L'opera principale di Bradley, "Appearence and Reality" si svolse a partire dal vecchio, ma mai pienamente superato, tema platonico dell'esperienza individuale della realtà piena di contraddizioni e nella riaffermazione di una vera realtà costituita dalla coscienza assoluta, cioè unità di soggetto ed oggetto derivata da Hegel.

La vita

Bradley nacque il 30 gennaio 1846 a Clapham nella contea del Surrey. Era il quarto figlio di Charles Bradley, predicatore Evangelico, e della sua seconda moglie Emma Linton.
La sua famiglia, costituita da molti fratelli, dimostrò d'essere una straordinaria fucina di talenti intellettuali.
George Granville Bradley, nato da un precedente matrimonio, fu successivamente Head Master al Marlborough College, Master of University College, Oxford, and Dean of Westminster Abbey; A.C. Bradley, il figlio più giovane del secondo matrimonio, studiò filosofia a Oxford fino al 1881, e, dopo una decisa virata verso studi di tipo letterario, insegnò a Liverpool e Glasgow, rifiutò una cattedra a Cambridge, e divenne il più importante critico di Shakespeare del suo tempo.

Nel 1856 Bradley cominciò a frequentare il Cheltenham College; nel 1861 si trasferì al Marlborough College, che era diretto da suo fratello. Mentre era a Cheltenham aveva cominciato a studiare il tedesco. E riuscì a leggere molte parti della "Critica della Ragion Pura" di Kant, sebbene molti aspetti della lingua tedesca non gli fossero ancora del tutto chiari.
Durante l'inverno del 1862-63 si ammalò gravemente e corse il rischio di morire.

Nel 1865 entrò entrò all'University College di Oxford, come scolaro, ottenendo una buona votazione nel 1867, ma un inaspettato insuccesso in literae humaniores nel 1869.
Alfred Edward Taylor, assai noto per i suoi studi su Platone in un'opera che ebbe fortuna in Inghilterra ("Elementi di metafisica" del 1903) giustificò questo insuccesso di Bradley nella completa incapacità degli esaminatori di comprendere la profondità del nuovo approccio di Bradley agli studi filosofici in Gran Bretagna.

Nel giugno del 1871 Bradley cominciò a soffrire una grave infiammazione renale. Ciò aggravò il suo già precario stato di salute e lo portò a condurre una vita ancora più isolata e riservata, tra ansietà e varie forme di esaurimento nervoso.
Collingwood nella sua autobiografia descrive in parte la riservatezza di Bradley: "Sebbene abbia vissuto a meno di cento yards da lui per ben sedici anni, mai riuscii a posare il mio sguardo su di lui." Questa reclusione aggiunge un elemento di mistero alla sua reputazione filosofica, mistero incrementato dal fatto che alcuni suoi libri risultano dedicati ad una persona identificata solo dalle iniziali E.R.

Sebbene Bradley fosse votato agli studi filosofici, la sua non fu solo un'esistenza trascorsa tra i libri. Per proteggere la sua salute dai tremendi inverni inglesi egli trascorse diversi periodi al mare, sia nel sud dell'Inghilterra che sulle coste mediterranee.
Molti dei suoi libri, specialmente il postumo "Aforismi", non possono essere solo l'opera di un uomo confinato nei suoi studi.

Politicamente fu un conservatore, ma non di tipo dottrinario. Sebbene i suoi scritti rivelino un temperamento religioso, egli confessò in una lettera del 1922, di aver trovato la religiosità evangelica di suo padre esageratamente oppressiva.
Ottenne in vita diversi riconoscimenti ufficiali e nel 1924 re Giorgio V lo insignì dell' Order of Merit: così Bradley fu il primo filosofo ad essere scelto per questo rara ed ambita onorificenza.
Tre mesi più tardi, dopo, pochi giorni di malattia, morì il 18 settembre del 1924 e fu sepolto all'Holywell Cemetery di Oxford.


Queste scarne note biografiche sono un riassunto di un file in inglese reperibile all'indirizzo: http://plato.stanford.edu/entries/bradley/

Filosofia della storia

Il primo sostanziale contributo di Bradley alla filosofia fu la pubblicazione del suo pamphlet "The Presuppositions of Critical History" esprimente un sostanziale scetticismo intorno all'intepretazione dei fatti storici.
Ispirato dalla lettura di certa critica biblica tedesca - critica ai miracoli che violano la legge di natura -Bradley tenta di estendere questa riluttanza alla storia in generale senza tuttavia riuscire ad essere molto convincente.
Il lavoro non fu mai letto e valutato per il suo significato storico, ma come una introduzione al pensiero filosofico di Bradley.
Alcun temi caratteristici delle opere successive compaiono già qui, come quello della fallibilità dei giudizi individuali di persone che non hanno una coscienza sufficientemente ampia e che dunque confondono l'apparenza con la realtà.

I Principi di logica

Nei "Principi di logica" del 1893, lo stesso anno della pubblicazione di "Apparenza e realtà", Bradley cercò di dimostrare che anche il mondo della logica pura, se astratto dalla coscienza assoluta, è solo l'espressione di una coscienza finita e limitata, pertanto contiene le stesse contraddizioni e le stesse limitazioni del finito e dell'apparenza.
Per Bradley il senso della logica sta nel giudizio, il quale va inteso come "qualificazione" della realtà stessa. In altre parole ogni idea contenente un giudizio, per Bradley non è solo un'idea, ma una qualità del reale.
Posto dunque che qualsiasi qualificazione non sia davvero transitoria e accidentale, per cui ad esempio sono stanco adesso, ma ieri sera ero in forma, per Bradley appare evidente che l'essere stanco in generale definisce, p es, una persona "stanca" di natura sotto un profilo, ma attiva e dinamica sotto un altro, e ciò implica contraddizione. Tutto il reale qualificato, pertanto risulta contraddittorio, illusorio e la logica stessa vacilla nell'impossibile impresa di qualificare in modo stabile e determinato la realtà.
Pertanto la molteplicità dei giudizi, pur considerando che essi vengono espressi sotto determinate condizioni e circostanze limitate, porta comunque a contrapposizioni inconciliabili.
Di notevole interesse, a questo proposito, è la seguente riflessione: anche le condizioni e le limitazioni qualificano la realtà a loro volta. Pertanto la contraddizione non è superata, diciamo, dall'ambientazione, ma semplicemente moltiplicata.
Tale impostazione, a mio avviso, potrebbe essere facilmente contestabile dalla semplice introduzione del concetto di "funzione", per cui, p es, un uomo è un "padre", un "marito", un "cittadino" del Regno Unito e un "professore di filosofia" ed ogni giudizio logico deriva la sua stessa fondazione certa, muovendo dal "fatto" della funzione e da quale sia l'aspettativa legata a questo fatto, ovvero cosa ci aspetta da un "padre", da un "marito" e così via.
Ma in realtà, posto che in partenza vi sia una generale intuizione idealistica che trova comunque contraddittorie due affermazioni diverse sullo stesso argomento, emesse, per così dire, prima in veste di "professore" che, seguendo l'etica russelliana, è contrario al matrimonio, e poi in veste di "marito" che , essendosi sposato, è favorevole (ma non troppo) al matrimonio, o di "padre" che spinge sua figlia a cercarsi un fidanzato di qualità, affidabile, e non il primo bellimbusto che le capita a tiro, è inevitabile che Bradley finisca con l'avere ragione. Ovvero il mondo dell'esperienza individuale è contraddittorio e Guglielmo di Ockham ebbe torto a scrivere: l'obbedienza non implica peccato.
Ovvero, svolgendo una funzione, si deve, a volte commettere "peccato" obbedendo alla logica della funzione perchè non si può fare altrimenti. Ad esempio "correggere" un figlio, nel mio caso una figlia, che non apprezza in modo particolare nè la matematica:-)) nè i bravi ragazzi. Oppure rifilare un brutto voto allo studente che non sa spiccicar parola nemmeno sulla concezione del tempo in Agostino che, come si sa, è l'argomento più facile che esista:-)))

Questo rigetto radicale del fantastico mondo della vita e della contraddizione tra funzioni (pensiamo solo al fatto di quali peccati mi dovrei macchiare se fossi anche un politico in cerca di voti) porta Bradley comunque alla definizione di un criterio assoluto di verità, cioè, al riconoscimento che vi è una realtà assolutamente priva di contraddizioni, quindi realmente consistente.
Per Bradley questa realtà non può essere altro che "coscienza" assoluta, perfettamente coerente, e non determinabile da nessuna delle tante facce della coscienza contraddittoria e finita, quindi nemmeno dal pensiero, dalla sensazione, dalla volontà, proprio perchè anche tali qualità, o facoltà, sono in sè contraddittori. Vi possono essere, p es, volontà contrastanti in una stessa persona, e possono darsi sia pensieri contrastanti, che sensazioni contrastanti, come vedere la bellezza di una donna brutta o viceversa l'odio che si annida latente in ogni amore fatale e possessivo respinto o tradito.
Neppure la moralità, scrive ancora Bradley, può essere attribuita all'assoluto.

Difficoltà logiche nel definire la relazione

Per Bradley in generale le relazioni sono inconcepibili e questo mette in crisi il modo realistico di concepire il mondo come una rete di relazioni tra cose e tra le cose e le proprie qualificazioni.
Esamina ad esempio il rapporto tra qualità primarie e secondarie introdotto da Locke e vi scorge diverse contraddizioni, tutte in qualche modo da riportare alla difficoltà fondamentale della ricerca filosofica sulla relazione, ovvero l'identificazione di ciò che è diverso.
Non c'è identificazione che non sia poi contraddittoria, anche perchè ogni relazione comporta una modificazione dei suoi termini relativi, esattamente come un uomo ed una donna sposati non sono più come erano prima di sposarsi.
Ma data questa modificazione - osserva acutamente Bradley - ogni termine della relazione si scinde in due parti, rimanendo quello che era e insieme diventando il nuovo. Queste due parti divise, non possono riunirsi che attraverso una nuova relazione, la quale darà vita ad una nuova scissione, e dunque ad una nuova relazione unificante, e ciò all'infinito.
Perciò la relazione è intrinsecamente contraddittoria e lo stesso "io" non può sfuggire a questa logica inesorabile della scissione, pur essendo al di là di ogni dubbio che esso esista nel mondo quotidiano delle apparenze. La riflessione razionale infatti lo scalza e lo rende persino inconcepibile di fronte alla contraddizione del chi e del cosa "sono io" realmente.
Direi che in questo aspetto viene ad essere ingigantito più il problema della qualificazione che quello della vera e propria identità dell'io. Ma forse in Bradley, questa distinzione che pure è posta, non sempre viene mantenuta lucidamente.
In altre parole se l'identità pura necessita di una qualificazione per ritrovarsi sicura della propria identità, è evidente che la serie di relazioni necessarie alla ricostruzione porta a contraddizioni insanabili. E questo anche tornando al concetto di contraddizione che aveva Aristotele perchè io, posto un concetto di tempo superiore all'attimo, anche se inferiore al quarto d'ora,posso essere sia impegnato a scrivere questo articolo che a pensarne un altro, sia qui a digitare che con la mente a pescare sulle ridenti rive di un ruscello.
Ciò per il semplice fatto che l'individuo non è solo determinato dalla sue relazioni, e anche perchè le sue relazioni con le proprie qualità sono di natura diversa dalle relazioni con gli altri esseri umani, ma perchè un individuo è soprattutto quello che fa e non credo si possa dire che il rapporto tra io e la mia attività sia catalogabile solo come "relazione".
Inoltre il fatto di appartenere ad un sindacato, mettiamo la CGIL scuola, non cambia in modo determinante tutte le altre attività del mio io, e non pone di fatto alcun dubbio sulla mia identità e sulla relazione con altre mie qualificazioni, intelligenza, carattere espansivo e comunicativo, apertura mentale, un fisico da Maciste e così via.
In sostanza Bradley esagera i problemi e finisce con l'occultare questioni ovvie e risolte, tuttavia non si può liquidare con poche battute perchè sotto un profilo veramente razionale il problema della relazione logica esiste ed in quanto tale è stato evidenziato da Bertrand Russel.


Renzo Grassano æ cactus filosofia - 11 ottobre 2000