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Breve biografia di Norberto Bobbio (parte 4)
Ecco che il mulo cocciuto si ferma e non vuole più andare avanti
di Renzo Grassano

"Il mio disaccordo politico con Craxi ebbe vari modi di manifestarsi. Soprattutto da quando potè esercitare una leadership inocontrastata all'interno del partito, in pratica a partire dal XLII Congresso, a Palermo nel 1981, dove venne approvata l'elezione diretta del segretario (che quindi non può essere sostituito se non in un altro congresso). «Non ho simpatia per Craxi e il suo entourage -scrivevo all'inizio di quell'anno a un amico americano, il politologo, Joseph La Palombara, professore alla Yale University - perché ritengo sia un gruppo di potere che mira soltanto al potere, e per averlo è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo.» Nella sua risposta, La Palombara mi informava di come in America, invece, l'immagine di Craxi fosse in ascesa, dato che lì il problema principale era quello di mantenere lontani dal potere quelli delle Botteghe Oscure, cosa del resto di cui non avevamo mai dubitato. Fra le copie delle mie lettere ai socialisti ne ho trovata una che reca la data del 20 agosto 1982 - quindici giorni dopo che il Psi aveva fatto cadere il primo governo Spadolini, con il rischio di andare a elezioni anticipate -, indirizzata a Claudio Martelli, vicesegretario di Craxi,, che è rimasta non spedita, forse perchè aveva un tono troppo duro. «Vi rendete conto che cosa significa elezioni anticipate in un paese che va a rotoli e che aveva finalmente trovato in Spadolini un presidente del Consiglio capace, autorevole ed irreprensibile sul piano morale? Disapprovo nel modo più energico il vostro modo di condurre le battaglie politiche a colpi di scena, con attacchi personali e facendo sempre la voce grossa; temo (e non sono il solo) le vostre smisurate ambizioni, mi preoccupo del vostro comportamento di attaccabrighe.» Vedevo emergere, giorno per giorno, una questione morale, in cui i socialisti erano invischiati: la moralizzazione della vita pubblica costituiva il problema stesso del buon governo, e la ragione della democrazia. Perciò respinsi l'invito di Craxi a collaborare per le elezioni politiche del 26 giugno 1983." (1)

Così Bobbio rievocava quei giorni nell'Autobiografia. Egli non criticava il Psi per la ricerca di un'autonomia, stretto com'era tra due fuochi. Ma prendeva recisamente le distanze dai metodi di lotta politica. "... il guaio è che con la vostra pratica spregiudicata nell'esercizio del potere state diventando sempre meno credibili. Anche le vostre buone intenzioni appaiano sempre più come quelle di cui sono lastricate le vie dell'inferno." (1) Così scriveva a Bettino, ricusando la sua richiesta di partecipare attivamente alla campagna elettorale.
Dopo la rielezione di Craxi al Congresso di Verona (11-13 maggio 1984) Bobbio scrisse un articolo per La Stampa intitolato La democrazia dell'applauso.
"L'elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica ... L'acclamazione, in altre parole, ... è un'investitura. Il capo che ha ricevuto un'investitura nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a sé stesso e alla sua missione...
Nell'acclamazione si esprime l'opinione, ma sarebbe meglio dire il sentimento, lo stato d'animo, la reazione immediata, puramente emotiva, non del singolo individuo, ma della massa informe in cui l'individuo singolo conta non per se stesso ma come parte di un tutto che lo trascende, la massa appunto."
Ricevette il plauso di Sandro Pertini, che gli telefonò a casa da Presidente della Repubblica, ma anche la risposta di Carlo Tognoli, allora sindaco di Milano. Questo sosteneva che un partito palesemente unito attorno al suo capo non ha bisogno di un atto formale come un'elezione a scrutinio segreto. Forse. Ma anche in quel caso il formalismo di Bobbio non rispondeva solo a criteri procedurali, andava alla sostanza e coglieva magistralmente il mix di fanatismo (moderato, diciamolo, niente a che vedere con quello smodato praticato, almeno fino ad oggi, attorno al lider maximo di Forza Italia) e di interessi privati che costituiva il quasi unanimismo attorno a Craxi. Un mix formidabile, da un lato intimamente alimentato dall'odio di un anticomunismo viscerale ( e non razionale come invece quello di taluni democristiani e di molti liberali) e dall'altro sostenuto apertamente dal gruppo di interessi che era andato costituendosi attorno a Craxi.
Ma sarebbe limitato e parziale ridurre la questione morale, grande nodo irrisolto della politica italiana ad un problema circoscritto al Partito Socialista. Le pratiche clientelari erano maturate all'insegna della DC ed il sistema delle mazzette veniva da molto lontano: praticamente era iniziato non appena la Prima Repubblica aveva preso vita. Tuttavia, bisogna rendere il merito a chi ce l'ha, è solo con l'avvento di Craxi che l'intero sistema politico degenerò in un intreccio di affari e politica senza precedenti. E' solo con Craxi che avviarsi alla carriera politica non significava più seguire un'orizzonte di gloria, una passione, una vocazione, ma semplicemente diventava una prospettiva di guadagno di molto denaro e prestigio sociale.
Al tempo di questi fatti ero ancora molto giovane ed ero un appassionato di storia romana. In Craxi e nel suo entourage mi pareva di vedere la reincarnazione di quei personaggi, da Caio Mario a Lucio Silla, da Pompeo a Cesare, fino a Marco Antonio che fecero insieme la grandezza e la rovina della grande Roma repubblicana. Grandi e miseri insieme, corrotti ed eroici, comunque un pessimo esempio morale e politico. Fu allora che compresi che in un'Italia priva della grandezza e della potenza di Roma antica, lungi dal portarci ad una riedizione di quel passato, ci avrebbe calato rapidamente in grossi guai, purtroppo nello stesso clima "antico-romano"di guerra civile, unicamente mitigato dalla modernità. E' sempre stato nel repertorio dei demagoghi l'abile stratagemma di suscitare passioni irrazionali e dare un volto riconoscibile, il volto dell'odiato "nemico" demonizzato,all'avversario da abbattere, in genere proprio i ragionevoli ed i veri moderati.
Fu su questo aspetto in particolare che Bobbio insistette, proseguendo la sua battaglia contro Craxi (che in realtà era una lotta a fondo anche contro la demagogia e la degenerazione politica, contro tutti i fanatismi) al tempo del sorgere del sole di Silvio Berlusconi.
La storia è nota: spazzato via dall'inchiesta di Mani Pulite, il vecchio gruppo dirigente del centro-sinistra di allora organizzato sulla strana alleanza del Preambolo di Craxi e Forlani (segretario della DC) non esisteva più. Partiti storici come PSI e DC si sfasciarono. Governi tecnici diretti a più riprese da Ciampi e Giuliano Amato e sostenuti da schieramenti parlamentari di unità nazionale e d'emergenza, riuscirono nell'impresa di fermare l'emorragia dei conti pubblici e ridare fiato e credibilità internazionale all'Italia. Ma all'appuntamento elettorale che seguì, il partito di Occhetto, leader sciagurato e sfortunato quanto pochi altri, fu infilzato come un tordo allo spiedo dall'improvvisa discesa in campo di Silvio Berlusconi, forte peraltro di un grosso equivoco: lui con l'Italia di tangentopoli non avrebbe avuto nulla a che fare, mentre i comunisti (che mai erano stati al governo) erano i soli responsabili del disastro economico, sociale ed istituzionale.
Bobbio fiutò l'inganno con ammirevole tempestività. Ma di questi ulteriori sviluppi ci occuperemo nella prossima puntata.
Dobbiamo fare un piccolo passo indietro, per ultimare il quadro. Il Presidente Pertini aveva voluto nominare Norberto Bobbio senatore a vita, certo non per partigianeria. In lui aveva visto giustamente sia il fiero distacco dell'intellettuale dalla bassa cucina della politica che l'appassionato difensore dello stato e delle procedure democratiche unita alla fondamentale inclinazione a sostenere la causa dei deboli e della giustizia sociale.
La caduta del muro di Berlino ed il crollo dei sistemi del comunismo reale non erano stati per Bobbio l'occasione per un semplicistico brindisi alla libertà, ma lo stimolo ad una riflessione di grande spessore. Il fatto era storicamente epocale. Finalmente veniva a cadere un esperimento fallimentare fin dal suo sorgere e pure tenacemente perseguito da Stalin, da Kruscev, con esiti tragici e grotteschi nell'era Breznev, che fu probabilmente la figura più bassa ed indegna di tutta la storia del comunismo mondiale, compresi la moglie di Mao e quel fanatico assassino di Pol Pot.
Ciò costituiva per Bobbio un deciso passo avanti. Era una liberazione, ma non risolveva affatto i problemi, anzi, li complicava terribilmente, sia all'est, dove il trapasso alla democrazia non sarebbe stato affatto piano e gradevole, sia all'ovest dove comunque tutte le grandi questioni di giustizia rimanevano drammaticamente aperte.
Tra l'altro, con indubbia sagacia, Bobbio annotava che la caduta del Muro di Berlino avrebbe dovuto travolgere il PCI e dare nuovo vigore al PSI, cioè al socialismo democratico e riformista. Invece era accaduto il contrario esatto. Alle elezioni del 1992, "il PSI non solo non ha tratto alcun vantaggio dalla disfatta del suo storico antagonista, ma anzi il risultato elettorale è stato inferiore a quello delle elezioni precedenti." (1)
Ciò ovviamente si spiegava proprio evitando di ricorre alla crisi finale del comunismo mondiale.
Ormai il PCI veniva percepito anche in Italia da molti elettori moderati come una forza democratica, una evidente anomalia nello scenario internazionale dei partiti coministi. Votare PCI era l'unico modo in grado di segnalare la propria opposizione alla degenerazione politica e morale del sistema. Era un voto di protesta? Certo, ma non solo da intendersi alla vecchia maniera, cioè come l'espressione di un malumore.
Chi tra i moderati, votava PCI (io stesso che pure non sono mai stato comunista), votava per un'alternativa che ancora non c'era, ma la auspicava. E non c'era perché, purtroppo, il vecchio gruppo dirigente guidato da Alessandro Natta dopo la morte di Berlinguer non aveva saputo stringere i tempi della propria trasformazione in una forza politica riformista e moderna.
Un recente articolo di Giorgio Napolitano sulla Stampa ha aperto un capitolo nuovo ed inedito in merito ai rapporti tra PCI e Bobbio.
«Questa è la verità. Nel gruppo dirigente guidato da Occhetto e formato da quadri di una generazione ben più giovane di quella di Berlinguer - scriva Napolitano - prevalsero non le posizioni dei più vicini a una conseguente scelta socialdemocratica ma quelle di segno opposto, riassumibili nel rifiuto di uscire da una tradizione (quella comunista) per entrare in un'altra (quella socialdemocratica) L'impegno per ottenere l'ammissione del Pds (allora aveva comiciato a chiamarsi così, ndr) nell'Internazionale socialsta fu contraddetto dall'ancoraggio ad un confuso e ambiguo mix di vecchi residui anti-socialdemocratici, di vecchi vagheggiamenti di "terza via", e di nuove velleità egemoniche, all'insegna della "contaminazione" con ogni specie di culture progressiste purché non socialdemocratiche.» (2)
Bobbio, in una lettera resa nota dallo stesso Napolitano, già nel dicembre del 1990 aveva assunto una posizione di durissima critica contro questi inspiegabili ed assurdi ritardi. Ecco che il mulo cocciuto si ferma e non vuole più andare avanti: questo il titolo della breve lettera di Bobbio dato dalla Stampa.
«La tua affermazione chiave - scriveva Bobbio a Napolitano - che il Pci era da tempo una cosa diversa dal nome che portava è fondamentale. Non riesco a capire perché non venga accolta da tutti come la base del nuovo corso. ... Ma probabilmente io conosco poco gli umori della "base" ed è proprio questa base, educata male, a fare da freno. ma qui sta l'errore, lo dico con franchezza, di uomini come Ingrao. Invece di fare da guida, e sarebbero stati seguiti, si sono lasciati guidare dal sentimento popolare e così hanno rinunciato alla loro funzione.» (3)

(continua)

(1) Bobbio Autobiografia - a cura di Alberto Papuzzi - Laterza, 1997
(2) Giorgio Napolitano - Bobbio / Le occasioni perdute del Pci - La Stampa, 2 febbraio 2004
(3) Norberto Bobbio - Ecco che il mulo cocciuto si ferma e non vuole più andare avanti - La Stampa, 2 febbraio 2004