| home | filosofia antica | destra-sinistra | Aristotele |

Come trasformare l'ozio, padre dei vizi, nella madre di tutte le virtù
La filosofia politica di Aristotele, un moderato conservatore
di Renzo Grassano

Ho maturato un'interpretazione dell'Aristotele politico, che non è personale, perché già avanzata da diversi studiosi, ma che desidero approfondire, sperando di dire qualcosa di utile. A mio avviso, Aristotele fonda le sue osservazioni muovendo dall'etica e dall'economia, intendendo quest'ultima come il modo di acquisire ciò che è indispensabile al buon vivere, che comunque rimane il filo rosso che lega etica e politica. Se l'etica è l'arte di vivere del singolo individuo all'interno delle relazioni sociali, la politica è l'arte di di ridisegnare le geometrie dello stato affinché esso sia utile all'individuo stesso nella ricerca della propria felicità: lo stato, in Aristotele, è al servizio del cittadino, anche se poi il rapporto di reciprocità acquista importanza fino a rovesciarsi: fare politica significa porsi al servizio dello stato, cioè della comunità dei cittadini. Dunque, chi fa politica nel suo tempo libero, compie un'attività che è solo inferiore a quella di chi fa filosofia. E' una posizione che ha fatto storia, che è stata largamente condivisa, e che ancor oggi è molto popolare tra quei cattolici che concepiscono la politica come servizio ai cittadini e la filosofia come servizio a Dio.

Per le ragioni suddette, il cittadino ha il suo massimo interesse nel buon funzionamento dello stato, e trova dunque la sua massima convenienza nell'obbedire alle leggi, per aiutarlo a funzionare meglio. Ciò significa che, per Aristotele, anche le leggi peggiori hanno un fondo di validità e di giustizia; ma ciò significa anche che ogni situazione particolare ha in sé le possibilità di un miglioramento: in termini attuali, è sempre possibile una politica di riforme.
Laddove i sistemi politici sono degenerati, i cittadini sono asserviti allo stato, ed in particolare questo accade nella peggior forma di governo possibile che è la tirannide. Secondo Aristotele, la degenerazione delle forme di governo è la causa di tutti i malcontenti ed i disordini. Proprio su questo argomento lo stagirita sciorina una messe di dati storici che aprono "finestre" su panorami altrimenti invisibili.

Ciò detto, è evidente che il pensiero politico di Aristotele rimane marchiato a fuoco con il segno dell'infamia per la questione della schiavitù ed al modo a dir poco meschino ed ambiguo in cui è risolta (o non risolta, a seconda dei punti di vista). Considerato per un lungo tratto dell'opera niente più, come si vedrà, che uno strumento animato, servo per natura, dunque non per mancanza di educazione, alla fine viene evidenziato che anche lo schiavo è dotato di ragione e che quindi non può essere comandato come si comanda ad un ascia od uno scalpello. Proprio dal punto di vista della logica aristotelica, per il quale l'essere schiavo, come l'esser nero, o circasso, dovrebbe essere un accidente, quindi qualcosa di non sostanziale, il produrre la visione di una schiavitù per natura, mi è parso talmente contraddittorio dal farmi dubitare della autenticità di queste pagine di Politica. Nell'accettare, infine, questa autenticità, non posso che avvertire il limite, insieme ad Hegel, del mondo pre-cristiano, della cultura e della filosofia antica in generale. Un limite che però è ancora inesplorato e sconosciuto in buona misura. (1)

A, mio parere, in Politica Aristotele fa ampiamente ricorso a strumenti retorici da egli stesso individuati nei suoi scritti sulla Retorica, in particolare agli endoxa, cioè alle opinioni comuni agli uomini in generale ed agli specialisti dei vari campi del sapere. Le idee sulla schiavitù di Aristotele rispecchiano dunque le credenze più diffuse e maggioritarie nei ceti benestanti della Grecia, ma non è per questo che esse trovano una giustificazione, come non mi pare una giustificazione nemmeno il ricorso alla categoria della necessità, termine che implicherebbe una sorta di fondazione scientifica della schiavitù per natura, e che quindi presupporrebbe una assoluta mancanza di alternative. In realtà, Aristotele non prova la necessarietà (e nemmeno ci prova), come del resto non prova nemmeno a cercare alternative; si limita a raffazzonare una serie di argomenti retorici di medio ed infimo livello, con la speranza che essi rasentino quantomeno quel piano del "vero e del giusto"che in Retorica era indicato come punto di orientamento per un discorso persuasivo avente carattere deliberativo in vista di qualche fine.
Ora, è evidente che, nel nostro caso, il fine del caro filosofo è quantomai ambiguo e confuso. Infatti, da un lato, egli mantiene un tono neutrale ed a-valutativo che ha un sapore molto moderno di vera e propria scienza politica, e quindi sembra portare sovente ad una ricerca disinteressata, volta all'oggettività. Dall'altro, un fine vero e proprio lo si ritrova, ma è un fine molto ristretto: è il mantenimento di un equlibrio sociale ed economico messo in discussione dalla crescita dell'economia mercantile e da una nuova classe di benestanti operosi, la quale rischia di sconvolgere la tranquilla vita dei vecchi ceti proprietari di terre, ma residenti in città, che costituiscono l'aristocrazia storica, cui Aristotele, come del resto Platone, sente di appartenere, non solo materialmente, ma per ascendenza spirituale. Eticamente, la vita del vecchio aristocratico è l'unica degna di essere vissuta. E' nel suo seno che nasce la filosofia, è nel suo seno che solo è possibile avere il tempo libero per trovare la miglior vita, cioè la vita teoretica. Nella vita dell'aristocratico si ritrova così la schole, molto imprecisamente tradotto come otium in latino, che da fattore negativo, presunto padre dei vizi secondo questa mentalità borghesuccia, diventa in Aristotele madre di tutte le virtù: una vita tranquilla e libera da affanni per dedicarsi alla ricerca intellettuale.
Un avvocato del diavolo potrebbe obiettarmi che questo attaccamento al "vecchio" è giustificato dal fatto che anche in una realtà avanzata come quella ateniese il lavoro intellettuale non era una professione riconociuta, al punto che Socrate rivendicò uno stipendio dallo stato, avendo svolto un ruolo educativo, al processo che lo avrebbe mandato a morte. Ma è altrettanto facile rispondere che si sarebbe trattato,da parte di Aristotele, di avanzare precise proposte, come in parte avviene, del resto, nell'VIII libro di Politica, libro peraltro incompiuto, proprio laddove si parla dei compiti educativi dello stato.
Comunque sia, credo evidente quanto ipotizzato in partenza: Aristotele giustifica la sua visione politica per difendere un'etica, cioè il modo di vivere dei ceti proprietari e di conseguenza anche dei filosofi.

L'esistenza dei mercanti e degli artigiani, per quanto ricca e godereccia, è spregevole perché essi pensano solo ad arricchirsi, lavorano come muli, e non provano alcuna attrazione per le cose che danno un vero senso al nostro esserci, ovvero alla ricerca intellettuale.
Fatte queste premesse, è evidente che alla base di tutto il ragionamento aristotelico sulla schiavitù, e di conseguenza, sulla famiglia quale cellula costitutiva della città e dello stato, è molto spregiudicamente volto a dimostrare che senza schiavitù non ci sarebbe quel tipo di famiglia ordinata e patriarcale nella quale ciascuno è al suo posto: il padre è padre, ed un po' filosofo; la moglie è madre; i figli obbediscono, ma per il loro bene; i servi obbediscono, ma per il bene dei loro padroni. Come a dire che i servi non hanno diritto a cercare il loro "bene".
Lo scenario che fa da sfondo alla Politica di Aristotele è dunque quello di una serie di mutazioni sociali dagli aspetti inquietanti. Le antiche gerarchie sono minacciate, gli antichi ordini degenerati, il mondo greco continua ad essere diviso e litigioso; inoltre pare non comprendere il suo intrinseco valore che è quello di essere diventato il migliore dei mondi possibili.

Per Aristotele è fondamentale costituire un federalismo panellenico capace di portare pace ed un minimo di unità operativa, non già per conquistare l'Asia, come auspicava Isocrate, ma per opporre la superiorità civile e culturale del mondo greco alla palese inferiorità dei mondi barbarici, sia quelli europei, "che hanno forza e coraggio, ma non l'intelligenza", sia quelli asiatici (in particolare i persiani) che hanno "l'intelligenza ma non il coraggio". Gli elleni, secondo Aristotele e probabilmente secondo gli endoxa correnti al suo tempo, hanno l'uno e l'altra; per questo sono liberi per natura.
Ma c'è un passaggio obbligato, che lo stesso Aristotele ha ben chiaro. Affinché si affermino quegli ideali, e quindi quei fini, occorre che il potere nelle città rimanga solidamente nelle mani degli uomini degni di esercitarlo: quei capifamiglia esemplari di cui si diceva. Per questo egli non si spende poi molto per difendere la democrazia, ed è ben cosciente che essa, in realtà, costituisce sovente una degenerazione della politìa, una forma costituzionale mista, dove di fatto c'è democrazia, ma in modo ristretto, una democrazia a sovranità limitata, dove solo chi è cittadino a pieno titolo ha diritto di accedere alle cariche, alle assemblee, alle magistrature.

Chiedersi se Aristotele fosse consapevole che il processo di "imborghesimento" era inarrestabile è un assurdo perché lo sviluppo delle tecniche del tempo antico non consentiva grandi concentrazioni manifatturiere e quindi non faceva intravvedere alcun nuovo scenario industriale. Accadeva solo, naturalmente, che il costituirisi di nuove ricchezze indeboliva grandemente le posizioni di rendita terriera e quindi oscurava in modo crescente il prestigio delle vecchie famiglie. Il mondo antico stava cambiando, in sostanza, ma non con i ritmi frenetici dei due secoli trascorsi. Per questo, l'ideale aristotelico non appare né irrealistico né propriamente conservatore o reazionario. Egli si propone, sostanzialmente, di mantenere nei nuovi regimi politici i valori e le virtù dell'aristocratico medio, del libero capofamiglia dei tempi andati.
Se così non fosse, le considerazioni alla base della Politica di Aristotele non sarebbero, non dico fondate, ma nemmeno giustificate. Infatti, per legittimare principi quali la schiavitù e l'inferiorità sessuale delle donne (che sono le questioni che fanno inorridire noi contemporanei) egli possiede un solo argomento: l'uomo per natura, le differenze per natura.
Ci vuol poco a capire che laddove ricorre a questo argomento, intende in realtà un'etica consolidata, cioè costumi ed abitudini che hanno funzionato in precedenza insieme ad attività economiche e forme di rapporti sociali realmente esistenti. Possiamo dunque ammettere che, per Aristotele, la natura si è realizzata nei rapporti sociali della polis arcaica. E questo, pur con tutti i difetti, le degenerazioni e le devianze che presenta, è pur sempre il migliore dei mondi possibili.
Il vero pensiero di Aristotele su questa superiorità del mondo ellenico emerge nel VII libro, dove alla considerazione già anticipata sulle caratteristiche di europei ed asiatici, Aristotele aggiunge: "La stirpe degli Elleni, a sua volta, come occupa geograficamente la posizione centrale, così partecipa del carattere di entrambi, perché in realtà, ha coraggio e intelligenza, quindi vive continuamente libera, ha le migliori istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti qualora raggiunga l'unità costituzionale." Non è questa una novità. Prima di Aristotele, Gorgia, Lisia, Isocrate e chissà quanti altri, avevano propugnato un movimento panellenico. La novità, semmai, è nel fatto che Aristotele sembra ridimensionare immediatamente quanto affermato, considerando che le stesse differenze intercorrono tra i vari popoli della Grecia, e persino all'interno della stessa città e famiglia. La caratteristica del coraggio unito all'intelligenza è un dato medio-statistico, anche se l'aspetto razziale ha la sua importanza. La conclusione di Aristotele è più che altro una raccomandazione: "E' chiaro dunque che deve avere intelligenza e cuore chi intenda essere ben guidato dal legislatore alla virtù." Il problema, in realtà era molto serio. Ancora ai tempi di Aristotele gli odi e le dispute tra le città non erano affatto sopiti, e l'uomo greco non era così virtuoso come in genere si è creduto attraverso la diffusione delle visioni classiche dell'uomo greco.
In quest'ambito, un altro punto da chiarire è la presunta posizione filo-macedone di Aristotele. Indubbiamente, egli fu in buoni rapporti con gli invasori, lo era stato già prima, ma, a dispetto di tutte le "voci" (che oltre una certa soglia rischia di trasformarsi in diffamazione alla memoria) che lo accusano di aver aderito ed appoggiato, o addirittura ispirato le ambizioni di Alessandro, pare corretto riferire qui che egli fu sempre contrario alla spedizione di Alessandro in Asia. Tutto ciò che è scritto in Politica propende semmai ad una Grecia federale sotto la guida di Atene e non della Macedonia.
Ciò detto, abbiamo da misurarci col nocciolo duro delle concezioni politiche di Aristotele, in particolare l'accettazione dell'esistente.
Una delle questioni fondamentali riguarda il chi è cittadino a pieno titolo. La risposta è per noi, individui del 2000 piuttosto deludente. Aristotele accetta quell'ordine medio-ideale che trova nel modello sociale ateniese la sua realizzazione più significativa.
Cittadino a pieno titolo è solo l'ateniese doc, il proprietario di terre che vive in città, che a capo di una famiglia, dirige una casa, comanda moglie e figli ed ordina il lavoro degli schiavi.
Tutti gli altri, ovvero stranieri residenti (come lo stesso Aristotele), mercanti, artigiani, meccanici, donne, marinai eccetera, sono esclusi, e per ogni esclusione Aristotele non esita a trovare tutte le giustificazioni possibili.
note: (1) La precisione con cui Aristotele descrive la condizione dello schiavo è comunque ammirevole: "Perciò, mentre il padrone è solo padrone dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui. Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per sua natura (corsivo mio) non appartiene a se stesso ma ad un altro che, pur essendo uomo, ... è oggetto di proprietà ...ordinato all'azione e separato." In Politica, I,4 ancora definisce lo schiavo come "strumento animato". "... e ogni servitore è come uno strumento che ha precedenza sugli altri strumenti." Interessantissima questa aggiunta: "[se] le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi. Quindi i cosiddetti strumenti sono strumenti di produzione, un oggetto di proprietà, invece, è strettamente d'azione: così dalla spola si ricava qualcosa altro l'uso se ne fa, mentre dall'abito e dal letto l'uso soltanto. Inoltre, poiché produzione e azione differiscono specificamente ed hanno entrambe bisogno di strumenti, è necessario che anche tra questi ci sia la stessa differenza. Ora la vita è azione, non produzione, perciò lo schiavo è un subordinato nell'ordine degli strumenti d'azione."
RG - 2 gennaio 2005