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Accademia dei Lincei riminesi

«Francesco Antonio Zaccaria»

Testo già presente:
Dissertazioni n. 28 e n. 29, del 17 marzo 1752, riguardanti la lettura di lettere del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice ms. di Coluccio Salutati, esistente presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze; e la trattazione di Bianchi De rebus antiquis.
Per entrambi gli argomenti, cfr. il fasc. 222, FGMB.
[Con la sigla FGMB sono indicate nel testo già presente le carte planchiane conservate in Gambalunghiana, in «Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, fascicoli: Bianchi, Giovanni»].

Nuove informazioni
La dissertazione De rebus antiquis è la Lettera ad un amico di Firenze intorno varie cose d’Antichità, poi pubblicata nelle «Novelle» fiorentine, tomo XIII, n. 23, 9.6.1752, coll. 360-366; n. 24, 16.6, coll. 378-382; n. 25, 23.6, coll. 386-390; n. 26, 30.6, coll. 404-411.
Questa lettera contiene un’accesa polemica di Bianchi contro l’autore (anonimo, in realtà il padre gesuita Francesco Antonio Zaccaria, 1714-1795) della Storia letteraria d’Italia, il cui volume iniziale era apparso due anni prima (1750), con due citazioni critiche sopra scritti archeologici dello stesso Planco.
Zaccaria fu successore alla Biblioteca di Modena dal 1756 al 1767 di L. A. Muratori (in funzione dal 1700 al 1750), subentrando a Francesco Vandelli (1750-1756).
Nella prima citazione di Zaccaria, in cui si faceva il nome di Bianchi, leggiamo: «Il Signor Bianchi nelle Novelle Letterarie di Firenze ha pur tentato d’illustrare questa iscrizione» (cfr. Storia letteraria d’Italia, I, presso Pietro Bossaglia, Venezia 1750, p. 263).
Nella seconda, in riferimento (anonimo) ad altro testo planchiano apparso sulle «Novelle» del 1748 (IX, n. 51, 29 novembre, coll. 801-807), si dichiarava (cfr. Storia letteraria d’Italia, I, p. 300) che «un Medico, a cui è saltato in capo di far da antiquario», aveva stampato i due pezzi di un’iscrizione, non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida». (Zaccaria cita da col. 803 delle «Novelle».)
Bianchi è cit. pure a p. 135 di questo primo volume della Storia letteraria d’Italia, per il suo De monstris ac monstrosis quibusdam, pubblicato nel 1749 sulle «Novelle» fiorentine.
Il dottor Bianchi si difese sostenendo che i migliori studiosi d’Antiquaria erano stati proprio dei medici come lui (cfr. nelle cit. «Novelle», tomo XIII, n. 23, col. 362).

L’autore della Storia letteraria, come si è anticipato, era il gesuita Zaccaria (1714-1795). Lo sapeva bene anche Bianchi: «Molti attribuiscono questa Storia d’Italia fatta con tanta ignoranza al padre Zaccheria Gesuita».
Così leggiamo nella c. 1v del ms. originale della Lettera, fasc. 222, FGMB. Il nome esatto Zaccaria invece appare nel cit. testo a stampa delle «Novelle» (tomo XIII, n. 23, col. 362).

Il giudizio di Bianchi su Zaccaria concorda con quello manifestato da Lami nello stesso tomo XIII, n. 7, 18.2.1752, coll. 104-109, dove leggiamo alla col. 109 che già in precedenza («Novelle», tomo XII, n. 12, 19.3.1751, coll. 177-186; n. 13, 26.3, coll. 193-199; n. 14, 2.4, coll. 209-215), il Novellista fiorentino aveva criticato l’autore della Storia letteraria come «non molto pratico della Storia Ecclesiastica, e degli eccellenti Scrittori, che di quella hanno trattato», e come scarso conoscitore di Greco (in cui «mostrava d’aver poca malizia») e di Latino. L’articolo del 1751 è una lettera di Lami diretta a padre Tommaso Maria Mamachi, domenicano, bibliotecario della Casanatense di Roma. Altri accenni polemici di Lami contro Zaccaria sono nelle «Novelle» dello stesso 1751, alle coll. 675-677 (n. 43, 22.10), 686 (n. 43, cit.), 752 (n. 47, 19.11).
Planco, inoltre, nella risposta a Zaccaria sostiene che per fare una storia letteraria «non ci vuole il solo capitale di quattro ciance volgari» come nell’opera veneziana, «ma bisogna essere versato in tutte le scienze, e in oltre bisogna sapere bene le lingue de’ Dotti, vale a dire la Greca, e la Latina, ed anche le antiche d’Oriente, non meno che molte delle moderne d’Occidente».
Infine per poter più liberamente attaccare l’autore della Storia letteraria, Bianchi sostiene che non potevano essere tali né Zaccaria né altro padre gesuita perché nessun seguace di sant’Ignazio avrebbe potuto scrivere in quella forma e con «tanta ignoranza», in quanto «i Gesuiti sono persone dotte e colte, che si pregiano più che altro di usare civiltà e gentilezza con ognuno, non che con i Letterati, che non gli hanno mai offesi».
Bianchi diceva di sospettare qualcuno dei suoi soliti «saputelli calunniatori» che avevano agito sempre con nomi finti o anonimi come l’autore della Storia letteraria che in nessun luogo dei primi tre tomi si era mai «arrischiato di svelare il suo vero nome».
Planco riconosce che negli ultimi due tomi quell’autore «pare un poco più moderato» verso di lui, anche se dimostra d’avere ancora «una certa rabbietta, ed amarulenza», dato che non parla mai bene di lui se non «a mezza bocca, e quasi per forza».
Zaccaria infatti ha non soltanto tralasciato di ricordare le «principali scoperte» di Bianchi in materia d’Antichità, e le altre sue cose «in materia filosofica, e medica»; ma ha anche preso lo spunto da un’orazione di Bianchi per le esequie di padre Chiappini, generale della Congregazione lateranense per attaccare il riminese (cfr. Storia letteraria d’Italia, III, Venezia 1752, p. 578).
Bianchi nel suo scritto su padre Chiappini, apparso a Faenza nel 1751, dopo esser stato letto a Rimini nella canonica della chiesa di San Marino, scriveva Zaccaria, «anzi che le geste del morto P. Chiappini, sembra aver preteso di celebrare colla sua polita orazione i lodevolissimi studj dell’Antichità, e della Storia Naturale, e modestamente anche in se stesso».

Secondo Zaccaria, Bianchi aveva approfittato dell’occasione più per parlare di se stesso e dei suoi studi, che del prelato defunto.
Bianchi risponde: facendo ciò, l’autore della Storia letteraria, oltre a dimostrare «ignoranza e malvagità», aveva palesato di non essere un gesuita, perché se fosse stato tale avrebbe saputo che l’arte retorica permette di elogiare gli studi di una materia per poi «mostrare, quanto era da commendarsi quegli, che in essa era stato versato eccellentemente, il che fu fatto, come ognun sa dottamente anche da Cicerone», nella sua orazione per il poeta Archia.
Bianchi definisce l’autore della Storia letteraria come «un miserabile copista» da novelle e giornali, «non veggendo egli mai alcuna cosa nell’originale»: «e crediamo con alcuni, i quali giustamente pensano, che sia meglio esser biasimato da lui, che l’esser lodato».
Nell’ultima parte della Lettera, Bianchi spiega dapprima di aver scritto poco di cose antiche negli ultimi tempi, perché tutto preso dagli studi «principali, e più graditi, della Filosofia, della Medicina, e della Storia Naturale, nelle quali cose» aveva mandato fuori qualche sua «produzione». Poi illustra alcuni ritrovamenti archeologici riminesi.
Quando Planco sostiene che Zaccaria aveva riferito di lui con «una certa rabbietta, ed amarulenza», non parlando mai bene di lui se non «a mezza bocca, e quasi per forza», si riferiva a quanto apparso nella Storia letteraria del 1751. Qui (alle pp. 304-305) Zaccaria riprende dalle «Novelle» dell’anno precedente (tomo XI, n. 5, 30.1.1750, col. 65), la recensione di uno scritto del senese Giovanni Girolamo Carli contro Bianchi, dove si legge che il medico riminese quando fu professore d’Anatomia a Siena «non incontrò molto il genio di que’ Cittadini».
Per la verità Carli aveva anche aggiunto altre due cose: «Io non voglio entrare in questa controversia, sapendo che il Signor Bianchi sa maneggiare molto bene la spada letteraria, con cui uno suol difendersi in queste tenzoni». Poi aveva scritto in difesa di Bianchi, accusato di sapere soltanto «quattro parole di greco»: «Buono per la nostra Toscana, se ci fossero due dozzine di persone che sapessero di Greco quanto il Signor Dottor Bianchi».
Carli esamina l’autobiografia latina pubblicata nel 1742 a Firenze come opera di «autore anonimo», nei Memorabi-lia Italorum eruditione praestan-tium curati da Giovanni Lami; e la successiva Epistola Apologetica pro Jano Planco ad Anony-mum Bono-niensem, firmata con lo pseudonimo di Simone Cosmopolita, Albertini, Rimini 1745, il cui ms. ènel Minutario di Planco (ms. 969, BGR), a partire dalla c. 428. L'Epistola era rivolta a Girolamo Del Buono, autore di un attacco all'autobiografia di Planco, ap-parso a Mo-dena nello stesso 1745.
A proposito dello scritto di Carli, Zaccaria osserva che esso era caratterizzato da uno stile «un po’ amaro», aggiungendo: «Noi vorremmo, che gli scrittori cristiani non in parole, ma co’ fatti si mostrassero persuasi della verace carità, che dall’altre sette ne dee più che altra cosa distinguere». Ma di questa regola, lo Zaccaria non è rispettoso proprio con Bianchi, laddove osserva che il gazzettiere fiorentino pubblicava le notizie inviategli da Bianchi per riempire «senza molta sua fatica» i propri fogli (cfr. Storia letteraria d’Italia, III, p. 664).
Dopo la pubblicazione della Lettera ad un amico di Firenze intorno varie cose d’Antichità, avvenuta sulle «Novelle» (9.6.1752), Zaccaria replica indirettamente a Bianchi in una epistola diretta al ricordato Giovanni Girolamo Carli (cfr. Storia letteraria d’Italia, IV, 1753, pp. 438-441), facendo ricorso al solito umore polemico intriso di sarcasmo e toni pungenti.
Nel richiamarsi appunto alle «Novelle» del 1752, col. 360, dove si trova la cit. Lettera ad un amicodi Firenze, Zaccaria scrive: «Voi potrete farvi sopra delle Riflessioni assai gioconde, e che daranno gran risalto al merito di quest’Eroe dell’Italica Letteratura». Inoltre Zaccaria ironizza sulla «rara umiltà di Bianchi», e dichiara di non essere abituato, come pensava Planco, ad «attaccare i principali letterati d’Italia». Aggiunge Zaccaria: il medico riminese «stampò due pezzi d’una iscrizione», non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida»; e «bisognerà finalmente osservare, che questa lettera del Planco è stata dall’autore letta nell’Accademia dei lincei. Bell’esemplare di Cristiana umiltà, e carità da proporsi ad un’Accademia».
In fondo al volume Zaccaria, circa le molte correzioni a cui era costretto (cfr. pp. 445-473), polemizza con Lami (che aveva già segnalato alcuni errori sulle «Novelle») e di riflesso con Bianchi: il fiorentino «si potrà far’ajutared anche da Giano Planco, il quale già ha cominciato a farci questa carità. Dio gnene rimeriti» (p. 474).
Lo stesso umore polemico traspare pure nella recensione di Zaccaria al Discorso sull’arte comica di Bianchi-, (cfr. Storia letteraria d’Italia, V, 1754, pp. 67-68):
«Noi da questo discorso trascerremo alcune cose, che faranno conoscere l’ingegno, e il giudizio del Ragionatore […]. Il buono è, che a più d’uno metterà scrupolo il libro del P. Concina su Teatri; se nò, qual comico furore non comprenderebbe gli animi de’ Riminesi da tante efficaci ragioni penetrati e vinti? Ma adagio. Ecco lo sforzo d’ingegno del Nostro Autore». Richiamando il passo del Discorso planchiano dove si parla della sepoltura degli attori («l’invitta e gloriosa Nazion Britannica non ha avuto difficoltà di fare seppellire solennemente in Londra nella cattedrale di Westimster, Chiesa, dove si coronano, e dove si sepelliscono i loro Re, la valorosa e ricchissima non men che bella loro Attrice Madamigella d’Oldfield, rendendole in morte per poco i medesimi onori, che poc’anzi renduti aveano all’immortale loro Filosofo Newton», pp. 18-19), Zaccaria scrive: «O questa niuno se la sarebbe aspettata, che si paragonasse la Chiesa Gallicana all’Anglicana de’ nostri tempi, e che si volesse questa migliore interprete de’ Sacri Canoni, che quella. Ma il Nostro Autore l’ha saputa trovare questa sì bella, e rara risposta».
Altri strali non saranno risparmiati a Bianchi, e questa volta credo a ragione, qualche anno dopo circa il «malvagio Rubicone», su gli Annali letterarj d’Italia, I, II, Modena 1762, pp. 188-190: «Per altro ho tal dispetto contro questo malvagio Rubicone, che se Roma ha già decisa la lite per questa rara cosa tra’ Riminesi, e Cesenati, e ha condannati nelle spese quest’ultimi, io vorrei vedere imposta una buona multa a coloro, che con fogli, libri, libercoli, Dissertazioni, Scritture osassero di più infestare l’umana generazione sopra questa controversia, teruntii, flocci, e nihili eziandio», cioè di poco, anzi nessunissimo valore.
Nel novembre 1763 Zaccaria entrerà con Bianchi in un cordiale rapporto epistolare, durato sino al giugno 1768. Nella sua ultima lettera, Zaccaria definisce Planco «un letterato sì celebre».
Nella prima gli aveva detto (in latino), tanto per cominciar discorso, che pur avendolo qualche volta (ma senza malevolenza) contestato nella Storia letteraria, tuttavia lo aveva sempre considerato uomo dalla dottrina molteplice e di grande valore, non facendo finta di non riconoscerla. E che se lo aveva attaccato era stato soltanto perché Planco era in strettissimo legame con il loro «assai aspro persecutore», cioè il responsabile delle «Novelle» fiorentine Giovanni Lami. Bianchi rispose (sempre in latino) con spirito di riconciliazione, che era stato amico e non socio di Lami, aggiungendo per chiudere il discorso: «Litterae in honestis hominibus verum inimicitiam non pariunt», gli studi letterari nelle persone oneste non generano risentimenti (cfr. Minutario 1761-75, SC-MS. 971, BGR, 29 novembre 1763, c. 170v).
Prima di questo rapporto epistolare, Zaccaria nello stesso anno aveva parlato nuovamente di Bianchi nel suo anonimo Supplemento a tre primi volumi della Storia letteraria d’Italia (presso Benedini, Lucca) quasi prendendo le difese di Planco. (Circa la paternità del Supplemento, gliela attribuisce il bibliotecario Zeffirino Gambetti nella sua scheda n. 133 conservata in Gambalunghiana.)
Riferendosi al passo in cui aveva scritto (Storia letteraria, I, cit. p. 300) di quel «Medico, a cui è saltato in campo di far da antiquario», e che aveva stampato i due pezzi di un’iscrizione non accorgendosi «che andavano uniti, e formavano una sola lapida», Zaccaria sosteneva nel Supplemento (pp. 295-301) che la definizione aveva un «tratto di disprezzo, e quasi strapazzo del valoroso Sig. Dottor Bianchi». Del quale dice trattarsi di autore «celebre al mondo per varie sue Opere, nelle quali abbondante saggio ha dato del suo raro talento ed erudizione».
Addirittura, in una nota (p. 296, nota a), Zaccaria arriva a scrivere che una parte della sua polemica nel volume della Storia letteraria del 1750 contro Bianchi era «una falsissima accusa», dalla quale lo stesso «letterato» riminese avrebbe saputo «abbastanza difendersi per ogni lato».
Riepilogando gli antefatti, Zaccaria ricorda che per reazione alla sua recensione della Storia letteraria del 1750, «l’oltraggiato Sig. Dottor Bianchi scrisse e recitò nella sua Accademia de’ Lincei una lettera assai rissentita contro lo storico», cioè lo stesso Zaccaria. Lettera che poi fu pubblicata dal «Novellista fiorentino» nel n. 23 del 1752. La conclusione dell’articolo di Zaccaria nel Supplemento è una autodifesa del proprio operato, ispirato a «molta cognizione» e a «buona critica», al punto di confidare al lettore: «Compatisco poi il Dottor Bianchi» per certe espressioni usate contro l’Anonimo compositore della Storia letteraria, «che so di certo essere in realtà, anzi spacciarsi egli medesimo, per Autore» dell’opera stessa. Circa altre «verità assai lampanti e irrefragabili» offerte da Bianchi, Zaccaria dichiara di doverle sottoscrivere.
Ma non è questo l’ultimo accenno del Supplemento a Bianchi, perché altrove, riprendendo il discorso sulla cit. biografia di padre Chiappini composta dal riminese, Zaccaria accusa Bianchi di non aver rimarcato l’«attaccamento eccessivo» di padre Chiappini «al sistema» dei Gesuiti.
A proposito dei Gesuiti, merita di essere ricordato quanto scriveva Bianchi allo stesso padre Zaccaria nella sua seconda lettera (datata 3 dicembre 1763, cfr. Minutario, SC-MS. 971, cit., cc. 172rv): «Io non sono mai stato contrario alla Compagnia, benché io sia stato amico del Lami, della cui amicizia io non mi prevaleva che per far riferire quelle coserelle che andava pubblicando, o ritrovando. […] Se io anche fossi stato contrario alla Compagnia, ora io non lo sarei più per non fare da persecutore, non essendo in me mai stato questo spirito di persecuzione, ma quello d’umanità, e di cortesia, solendo io dire […] che umana cosa è l’aver compassione degli afflitti, e aggiungendo che non bisogna mai aggiungere afflizione all’afflitto, essendo questa una crudele ferita; per la qual cosa io non avrei mai speso un soldo in que’ tanti libri che sono usciti, e che escono tutto giorno contro de’ Gesuiti, dicendo con tutti che è una perdita di danaro ed una perdita di tempo il far questo, non contenendo tali libri il più che cose rifritte da cento e più anni sono».
Ricordiamo infine che il giudizio di Bianchi sul lavoro di Zaccaria, fatto «con tanta ignoranza», concorda con quelli espressi più tardi da illustri studiosi. (Cfr. ad esempio G. Getto, Storia delle storie letterarie, Firenze 1969, pp. 62-63: «Non si tratta invero di una storia della letteratura», ma di «un provvisorio ragguaglio, un’opera giornalistica, insomma un annuario, in luogo d’un’opera storica», tutta costruita «con un arido gusto collezionistico da pedante erudito».)

Antonio Montanari


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