Antonio Montanari
PANDOLFO I. DAL PAPA IN PREMIO UNA NUORA
(1321-1323)

Lo attaccavano dicendo che era pusillanime e troppo timoroso. Ma lui, il rettore di Romagna Aymery de Chalus, nominato da papa Giovanni XXII nel 1319 quando era governatore di Ferrara (1318), risponde che ha usato soltanto la pazienza contro i tiranni dai quali era afflitta la sua provincia. Non ha voluto procedere con severità. Anzi ne ha nascosto gli atti arbitrari: «ac usque in praesens dissimulando eorum excessus».
Appena insediato si è preoccupato di bussare a denaro presso le città della provincia. Poi ha ordinato un'inchiesta. I cui risultati trasmette al papa senza nascondere nulla. Non ammorbidisce le ombre del quadro fosco che ne risultava. Anzi preferisce esagerarle.
Forse, osserva Henri de l'Épinois (p. 214), Aymery de Chalus obbediva inconsapevolmente al cattivo umore di un francese pronto ad esagerare i difetti dello straniero che doveva governare: è il minimo che si possa pensare davanti al tono beffardo di alcuni passaggi della relatizione inviata al papa.
Henri de l'Épinois segnala (p. 215) un'altra caratteristica di Aymery. Egli metteva sullo stesso piano guelfi e ghibellini, che considerava accomunati dallo stesso progetto: impossessarsi dei beni della Chiesa. Anche se i ghibellini si differenziavano per uno spirito settario più radicato.
Aymery aveva scarsa considerazione per la Romagna in generale. Definita da lui una provincia «vanitosa», sempre pronta ad ingannare (ib., p. 215) e degna dell'Inghilterra per i suoi festini e le sue perfidie. I suoi abitanti, rincarava la dose Aymery, erano più astuti e molto più sottili degli inglesi.
Henri de l'Épinois commenta: «Aymeri de Chalus rendait bien à ses subordonnés mépris pour mépris». Soltanto disprezzo per disprezzo, e n ient'altro? Nel giudizio del rettore pontificio poteva giocare una conoscenza diretta del quadro locale, maturata non solamente come governatore di Ferrara, ma pure quale studente dell'ateneo di Bologna. Dove aveva conseguito la laurea «in utroque iure». La Romagna terra mai stata «senza guerra», non fu soltanto una celebre sentenza dantesca, ma a quanto pare un'opinione assai diffusa. E non infondata.

L'autodifesa studiata da Aymery nei termini che abbiamo letto all'inizio, si trova in una lettera inviata il 23 febbraio 1321 da Cesena, dove egli aveva posto la propria sede, al cardinal camerlengo, il vescovo di Marsiglia Gasberto de Valle.
I critici di Aymery sostenevano che sarebbe stato meglio in passato, e lo sarebbe anche al presente, procedere contro i tiranni della sua provincia. E soprattutto contro Pandolfo I dei Malatesti ed il Comune di Rimini. Di Pandolfo, Aymery sottolinea al camerlengo: «Mi dicono che mi odia fieramente», «… referunt, Pandulfum de Malatestis […] graviter me odire» (cfr. Tonini, IV, 1, p. 43) [La traduzione è presa da «Gli statuti di Ravenna ordinati e descritti da Pietro Desiderio Pasolini», Firenze 1868, p. 46. In generale, si legge in Francesco Filippini, «Dante scolare e maestro», Ravenna 1929, p. 167, «aveva ben ragione il nuovo Rettore di Romagna» in quella relazione del 1319, «di essere sfavorevole contro tutti i Signori guelfi di Romagna, tiranni astutissimi e potenti…».].
A propria discolpa, Aymery spiega al camerlengo che quei tiranni sono troppo astuti e perversi, e che non li si può far cambiare se non con la violenza, la minaccia armata oppure mediante un miracolo. Le condanne non servirebbero a nulla, anzi verisimilmente e senza dubbio porterebbero soltanto al peggio.
Circa Pandolfo I, Aymery aggiunge che costui, ricevute le lettere inviategli dal pontefice su raccomandazione dello stesso rettore, non gli ha dimostrato né gratitudine né rispetto. Soprattutto non si è neppure degnato di rispondere alle lettere apostoliche di presentazione del nuovo rettore: «nec dignatus fuit aliquid respondere».

Aymery racconta al camerlengo di non essersi recato a Rimini perché Pandolfo si trovava a Pesaro per la pace tra Venezia e Fano, come lo stesso Pandolfo gli aveva comunicato (p. 45). Aymery non sa che il 18 febbraio Pandolfo ha già firmato un trattato con il rettore della Marca anconitana Amelio di Lautrec, per guidare la lotta ai ghibellini ed ai ribelli.
Il primo contatto ufficiale del rettore della Marca anconitana con Pandolfo I, è del 7 marzo 1322, mentre al 18 aprile risale l'invio di un messo a Rimini. (Tonini, IV, 2, p. 54-55.)
Amelio di Lautrec il 6 novembre 1323 vorrà ringraziare Pandolfo della «lotta onorevolmente sostenuta» al servizio della Chiesa, con un dono particolare. Concede in sposa (1324) la propria nipote Elisa, figlia di Guglielmo signore della Valletta, al figlio di Pandolfo, Galeotto I Malatesti detto «l'ardito». Elisa genera Rengarda e muore nel 1366.
Il Battaglini (Memorie zecca, p. 189) attribuisce allo stesso pontefice il progetto matrimoniale, in base ad un documento perugino. (Battaglini ignora la lettera di Aymery al camerlengo del 23 febbraio 1321).
Comunque, sia stata iniziativa del rettore della Marca anconitana o addirittura della corte avignanese se non del papa stesso, la faccenda di queste nozze combinate dall'alto, è soltanto una conferma del gioco politico guidato dalla Chiesa per realizzare i propri obiettivi. Che si ripeterà per i Malatesti nell'occasione più importante per loro, e più oscura negli studi che li riguardano: il 19 gennaio 1421 Cleofe di Pesaro sposa Teodoro Paleologo (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425).
Di questo matrimonio, concluso nel 1433 con la morte forse violenta di Cleofe, i contemporanei non hanno scritto la cronaca. Ed i posteri ne hanno a lungo, sino ai recenti studi di Silvia Ronchey (2006), travisata la storia.

Le questioni matrimoniali rientrano nel gioco politico della Curia romana che dalla sede avignonese cerca tutte le trafile utili per far valere il proprio ruolo. Come testimonia «a contrario» un passo della lettera di Aymery al camerlengo. Dove si ricorda che Pandolfo si era imparentato con gli Este, di recente scomunicati per l'occupazione di Ferrara (Tonini, IV, 1, p. 38).
Suo figlio Malatesta Antico o Guastafamiglia aveva sposato Costanza, figlia di Azzo VIII (1263-1308) e della napoletana Beatrice d'Anjou o di Sicilia (Tonini, IV, 1, p. 315). Beatrice d'Anjou (c. 1295-c. 1321), seconda moglie (1305) di Azzo VIII, è figlia di Carlo II re di Napoli. La prima sposa (1282) di Azzo VIII è stata Giovanna Orsini. Beatrice d'Anjou, rimasta vedova nel febbraio 1308 (il primo od il 13, secondo le fonti), sposa l'anno successivo Bertrand des Baux conte d'Andria (+1351).

Apriamo una prima finestra. Giovanna Orsini è figlia di Bertoldo (1230c.-1319), conte di Romagna nel 1278. Ma soprattutto, Bertoldo Orsini è figlio di Gentile Orsini che era il fratello di Giovanni Gaetano (1210-1280) divenuto papa con il nome di Niccolò III nel 1277. Un altro Bertoldo Orsini (1280c-1344) s'incontra nelle vicende malatestiane: è il padre di Paola che nel 1362 sposa Pandolfo II (1325-1373) figlio di Malatesta Antico e signore di Pesaro. Il padre di Paola è figlio di Orso (1240c-1304) fratello del Bertoldo Orsini da cui siamo partiti in quanto suocero di Azzo VIII.

Delle nozze fra Costanza, figlia di Azzo VIII, e Malatesta Antico esiste soltanto qualche testimonianza. Oltretutto contestata da chi ha confuso la Costanza figlia di Azzo VIII e moglie del Guastafamiglia, con un'altra Costanza andata in sposa al figlio del Guastafamiglia, Galeotto Malatesta l'Ungaro.
Questa seconda Costanza d'Este moglie dell'Ungaro dal 1362, è figlia di Obizzo III, e sorellastra di Violante che era stata prima moglie (1345) dello stesso Ungaro. La parentela con la dinastia ferrarese non fa più paura da quando, nel 1329, i signori di quella città sono diventati vicari del papa.
Violante è stata generata ad Obizzo dalla prima moglie (1317) Giacoma Pepoli, figlia di Romeo e sorella di Taddeo signore di Bologna (1337).
Costanza (1343-1391) sposata nel 1362, è figlia di Lippa Ariosti, detta «la bella Lippa»: «Filippa Ariosti figliuola di Giacomo nobile bolognese, donna di singolare beltà, la quale dopo di esser vissuta presso di lui 20 anni almeno, ed avergli procreati, secondo alcuni, 11, e secondo altri, più figliuoli, finalmente il 27 dicembre [novembre, secondo Muratori del 1347 trovandosi inferma venne da Obizzo stesso sposata sul far della sera alla presenza di molte persone, e con intelligenza e consentimento del Pontefice, a fine di render legittima quella numerosa prole, indi spirò...» (A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, Ferrara 1850, p. 313). Tre rami della sua famiglia si trapiantarono con lei da Bologna a Ferrara. Dove «germogliarono uomini illustri assai in diverse classi». Come Lodovico Ariosto. La famiglia si estingue nel 1747 (ib., p. 314).

Un terzo figlio di Obizzo III s'imparenta con i Malatesti. Si tratta di Ugo, nato da donna ignota, il quale sposa nel 1363 la figlia di Violante d'Este e Malatesta Ungaro, ovvero sua nipote (figlia di una sorellastra…), che si chiamò pure lei Costanza, nata attorno al 1350. Potremmo battezzarla «la peccatrice» per distinguerla dalla zia, in virtù di un racconto che la vuole uccisa da famigliari paterni per una vicenda passionale successiva alla morte di Ugo (+2.8.1370). La memoria di Ugo è stata tramandata anche da Petrarca in una sua lettera al di lui fratello Nicola d'Este, dove ne parla dopo la scomparsa (Sen., XIII, 1, 5.8.1370): «Ahi! che perdemmo, […] un che m'era per dignità signore indulgentissimo, e per amore figliuolo obbediente, il quale non per mio merito alcuno, ma per sola nobiltà dell'animo suo aveva, siccome tu sai, cominciato non tanto ad amarmi quanto a venerarmi, per guisa che più della compiacenza era in me grande la meraviglia di un affetto e di una reverenza tanto sproporzionata alla diversità degli anni nostri e della nostra condizione».

Circa gli Este, apriamo un'altra finestra. Secondo Muratori (Antichità Est., I, c. 32) Ferrara nel 1208 è il primo esempio di città libera in Italia, con l'elezione di Azzo VI detto Azzolino a suo signore perpetuo. Azzo ne era stato podestà (1196) ed aveva lottato a lungo (dal 1205) contro il ghibellino Salinguerra Torelli, di cui dovremo riparlare. Ad Azzo VI il papa concede poi il governo della Marca di Ancona, per la quale nel 1210 arriva ad Azzolino pure l'investitura imperiale di Ottone IV: è una «doppia sicurezza» (Frizzi, p. 64) che testimonia l'ambiguità dei tempi. Ma non solo. La Marca fa parte dei territori rivendicati dalla Chiesa come eredità della contessa Matilde (che si era imparentata con gli Este: vedi la scheda relativa). Su di essi Ottone IV vuole imporre la propria tutela, per riaffermare un diritto che neghi le pretese ecclesiastiche. Quando Ottone nello stesso 1210 è colpito da anatema e dichiarato decaduto dal papa, Azzolino cambia campo, mettendosi tra i sostenitori di Federico II protetto dal papa, e rivale dello stesso Ottone IV.
Governare con il permesso dei papi è tutto, ma avere anche il patronato laico rende più tranquilli in tempi agitati dalle lotte politiche mescolate da questioni religiose fra Impero e Chiesa. Soprattutto quando l'Impero vuole sostituirsi alla Chiesa anche nella gestione nella gestione delle cose relativa alla dottrina ed al controllo spirituale di un territorio. Di conseguenza gli amministratori di una città, ed accade appunto a Ferrara, danno il bando a tutti gli eretici che vi dimoravano, ordinando la confisca dei loro beni e la distruzione delle loro case.

Poco dopo l'imperatore Ottone, come si è già visto, è scomunicato dal papa. Ottone parteggia per gli avversari di Azzolino e mette becco nelle liti famigliari degli Este (1212): difende Bonifazio zio dello stesso Azzolino che lo aveva privato dei suoi beni. Azzolino scompare il 18 novembre 1212, dopo aver accompagnato in Germania presso Ottone il re di Sicilia e dei Romani Federico II, incaricato di una missione dal papa che si era deciso ad istanza di molti prìncipi (Frizzi, p. 69). Uomo di grandi talenti, è detto Azzolini, ma essi furono «sbiaditi da una perfidia e da una crudeltà costanti» (Dict., p. 320).
Azzo VI od Azzolino era figlio di Azzo V, nato a sua volta da Obizzo I (1110c-1194) e Sofia di Lendinara (+1202). Azzo V premuore al padre Obizzo I che in tarda età genera Bonifacio (il quale per questo motivo è molto più giovane del nipote Azzolino che succede al nonno). Obizzo I era figlio di Folco I (+1128) nato da Alberto Azzo II (+1097) e Garsende (Gersende, Gresende) di Maine che era stata ripudiata da Thibault III conte di Blois. E sua seconda moglie (la prima è Cunegonda di Welf; secondo A. Cappelli, ci sarebbe pure una terza consorte, Matilde di Adalberto Pallavicini). Garsende era figlia di Ugo II di Maine, il cui successore sarà appunto un altro Ugo [III di Maine], figlio di Garsende e di Alberto Azzo II. Come Folco I (+1136) che è il capostipite della dinastia d'Este. (Leandro Alberti, sulla scia dell'Ariosto, O. F. 3, 27, rovescia i ruoli di Folco ed Ugo: il primo è lasciato in Germania, mentre il suo ruolo di capostipite estense è attribuito al secondo…)
Ugo sposa Héira, figlia di Roberto il Guiscardo (1077). Ugo lascia al fratello Folco tutta l'eredità paterna, non avendo avuto figli. Héira è sorella di Olimpia che nel 1074 diventa moglie di Costantino figlio di Michele VII Ducas, imperatore di Bisanzio, detto “il monaco” per la scelta conventuale fatta dopo aver abdicato (1078).
Alberto Azzo II è considerato l'uomo più ricco del suo tempo, proprietario di immensi territori nell'Italia del Nord, e protettore di un gran numero di abbazie (Emile Fernbach). Nel 1045 l'imperatore Enrico III lo nomina governatore di Milano e gli fa sposare Cunegonda figlia di Guelfo II e sorella di Guelfo III il quale dallo stesso imperatore nel 1047 è creato duca di Carinzia e marchese di Verona. Alla morte senza figli di Guelfo III, la sua eredità passa a Guelfo IV figlio di Alberto Azzo II e di Cunegonda. Nel 1071 Guelfo IV è investito del ducato di Baviera. Cunegonda era nipote dell'omonima Cunegonda (c. 975-1033) di Lussemburgo poi detta “la Santa” per il suo voto di castità andata in isposa nell'anno 1000 all'imperatore Enrico II (973- 1024) chiamato “il Santo” grazie al voto di castità della consorte.
Guelfo V, figlio Guelfo IV (+1128), è il secondo marito della celebre Matilde di Canossa (1039-1115) che era stata generata da Beatrice di Lorena e da Bonifacio III, ucciso nel 1052. Rimasta vedova, Beatrice si risposa: con Goffredo il Barbuto. Un cui figlio, Goffredo il Gobbo è il primo marito della nostra Matilde.
La quale discende da Bonifazio III d'Este (ucciso nel 1052) e Beatrice di Lorena. Bonifazio è figlio di Tedaldo d'Este signore della Marca trevigiana (+ c. 983). Fratello di Tedaldo è Alberto Azzo d'Este che Matilde, rimasta vedova di Goffredo il Barbuto di Lotaringia, sposa nonostante la parentela. Proprio questo è il motivo dell'annullamento della nozze da parte del papa che obbliga Matilde a sposare Guelfo di Baviera, figlio di Guelfo IV. Ma, come si è visto, pure lui ha sangue estense nelle vene, essendo figlio di Alberto Azzo II e Cunegonda.
Il fratello di Cunegonda, Guelfo III duca di Baviera (e della Marca trevigiana), muore nel 1055 senza eredi. Gli succede quindi Guelfo IV che diventa pure suocero di Matilde.
Nel 1077 a Canossa, quando l'imperatore Enrico IV si sottomette a papa Gregorio VII, è presente anche Alberto Azzo II d'Este nonno del Guelfo marito di Matilde. Con Matilde finisce il ramo estense passato attraverso suo padre Bonifazio.

Alberto Azzo II «dovette tutta la sua grandezza agli imperatori Enrico III ed Enrico IV». A quest'ultimo egli non fu fedele, abbandonandolo nelle sue guerre contro la Chiesa ed anzi mettendosi alla testa dei suoi nemici (Michaud, Biographie universelle).

Le fortune politiche di Azzo V derivano dalle nozze con Marchesella Adelardi, che a soli otto anni eredita dal padre Adelardo, capo guelfo, tutto il patrimonio ammassato dallo zio Guglielmo, uno dei capi guelfi di Ferrara. Adelardo regge le sorti della famiglia soltanto per due anni. Il patrimonio «immenso» degli Adelardi era posto nel Ferrarese, in Romagna e nelle Marche. Alla sua scomparsa, Marchesella è posta sotto la tutela di Salinguerra Torelli che la destina come sposa al nipote Arriverio figlio di Torello II (Dict., p. 160). Esiste un'altra versione dei fatti. Adelardo, guelfo, per pacificarsi con i Torelli, ghibellini, prima di morire decide di affidare la figlia Marchesella, che aveva soltanto sette anni, alla famiglia dei vecchi nemici, appunto come promessa sposa di Arriverio, uno dei figli di Torello II. (La «Chronica parva ferrariensis», in Frizzi 1850, p. 1, attribuisce il progetto matrimoniale allo zio Guglielmo.)
Verso il 1184 il ravennate Pietro Traversari, signore di Rimini e Sinigallia (Tonini, II, 369) nonché guelfo zelante, pur essendo parente di Torello (che ne avrebbe sposato la figlia D'Aicha che potrebbe però appartenere alla casata da Polenta), macchina a suo danno il rapimento di Marchesella assieme a tre uomini di casa d'Este. (Ughi, pag. 9, Art de verifier, pp. 382-383)
Siamo sul limitare oscuro fra storie e leggende, per cui non si può far altro che registrare le varie voci giunte sino a noi. Anche sulle nozze (ante 1188) combinate con Azzo figlio di Obizzo, ci sono dubbi, perché si dà per defunta Marchesella prima della celebrazione del matrimonio. O addirittura si legge che Marchesella fu rapita da Azzo V e da suo fratello Bonifacio per farla sposare ad Obizzo stesso loro padre (la fonte è nella «Chronica parva ferrariensis», RIS VIII, p. 481; Dict. Univ., p. 319, Art de verifier, 392-393). Fatto sta che la famiglia d'Este poté riunire la signoria della Marca (confermatale dal papa) e quella di Ferrara su cui dominerà per quattro secoli (Dict. Univ., p. 319). Marchesella, è certo che muore giovanissima, lasciando il marito come unico erede, non avendo avuto figli: ma anche sulla sua scomparsa esistono dubbi circa una fine misteriosa. Resta come dato di fatto che il suo rapimento è non soltanto l'origine della ricchezza ferrarese degli Este, ma pure causa di due secoli di guerre nelle Marche, per l'odio fra loro ed i Torelli (Dict. Univ., ib.)

Il nome «Salinguerra» deriva da un soprannome attribuito al primo signore di Ferrara per elogiarne lo spirito guerriero e l'abilità nell'esercizio delle armi sul campo di battaglia. Il cognome Torelli invece nasce dal soprannome dato nel sec. XI a Federico o Torello I, figlio di Ludolfo di Saxe detto il Tauro: sua madre era una ravennate, Hingilda Traversari. Federico è il padre di Gui I detto appunto Salinguerra, e primo signore di Ferrara (cfr. Verif., p. 381). Da costui nasce Taurello (Torello II) che è uno dei primi vassalli della Chiesa ravennate, e fu protettore dell'abbazia di Pomposa. Torello, oltre ad Arriverio, ebbe anche Salinguerra II e Pietro di Remengarda. Una delle tre mogli di Salinguerra II è Sofia di Onara figlia di Ezzelino IV e di Adeiade di Mangone vedova di Enrico d'Egna (cfr. Verif., p. 387).
Azzo VI ebbe tre mogli. Della prima si conosce il casato che è ricordato nel nome del figlio che generò, Aldobrandino e che successe al padre nel 1212. Da Sofia di Uberto di Savoia (si trova anche il nome di Eleonora di Tommaso di Savoia…), nasce Beatrice la suora detta «beata». Di Alisia o Adelaide (+1235), sposata il 22 febbraio 1204, sono invece figli Azzo VII (o Azzo Novello, +1259) che succederà nel 1215 ad Aldobrandino. Alisia era figlia di di Rinaldo di Châtillon divenuto principe d'Antiochia con le nozze con la figlia di Raimondo che deteneva tale titolo. Due cognate di Rinaldo erano mogli rispettivamente di Manuele imperatore di Costantinopoli, e di Bela re d'Ungheria (o forse a suo figlio, Frizzi, p. 47).

Nel 1213, al tempo di Aldobrandino, i conti di Celano occupano la Marca d'Ancona. Il papa invita Aldobrandino, a recuperarla. Sempre nel 1213, dopo l'invasione armata del territorio estense da parte di Padova, Aldobrandino capitola. Innocenzo III conferma la Marca d'Ancona ad Aldobrandino che diventa poi (1215) vicario di Federico II di Svevia, re di Sicilia e di Germania, con la speciale funzione di «legato di tutta la Puglia», forse «ad insinuazione» dello stesso pontefice (Frizzi, pp. 73-79).
Aldobrandino, «di spirito grande, ma di poca fortuna» (Fava, p. 97) scompare il 10 ottobre 1215 (forse quand'era ancora imprigionato, dopo gli scontri con i Torelli). Lascia una figlia naturale, Beatrice che è mandata dalla famiglia in sposa ad Andrea II Corvino re d'Ungheria. La sua morte arreca un gran colpo alla Casa d'Este. Nel 1217 il papa conferma la marca d'Ancona ad Azzo VII, fratello di Aldobrandino, che ha soltanto dodici anni. Nel 1221 Federico II gli conferma Ferrara ed il suo Stato. L'anno dopo gli Este sono sconfitti per opera dei solito Torelli. Fallisce nel 1223 un tentativo di assedio alla città. Azzo si vendica il 23 aprile 1224 con «un orrido macello» (Frizzi, pp. 97-98).

La lettera di Aymery al camerlengo si pone a cavallo di questi avvenimenti, essendo come si è visto del 23 febbraio 1321. L'epistola, dietro una forte patina di realismo, nasconde una significativa omissione. Aymery non può lamentarsi circa il trattamento speciale che il suo collega della Marca anconitana stava riservando al «tiranno» di Rimini. Pandolfo, astuto e perverso al pari degli altri signori (se non più di loro) che Aymery avrebbe dovuto domare, riesce in un'impresa all'apparenza impossibile: trattare con un papa come Giovanni XXII che astuto e perverso appare pure lui e non soltanto agli «addetti ai lavori» della posterità.
Un'iniziativa come quella di Amelio di Lautrec rettore della Marca anconitana, di affidare a Pandolfo I la guida nella lotta ai ghibellini, non poteva esser stata avviata senza il preventivo «placet» della corte papale di Avignone. Alla quale, significativamente, Aymery si rivolge, per esprimere le sue meditate e comprensibili lamentazioni. Papa Giovanni XXII considerava lecito ogni mezzo per raggiungere il fine prefissato, ovvero dominare nei territori del Patrimonio petrino.

La lettera di Aymery al camerlengo, come si è visto, è del 23 febbraio 1321. Qualche mese dopo, l'8 ottobre, il papa invia i propri complimenti a Pandolfo per la letizia («jucunditas») che hanno prodotto in lui le sue imprese militari contro Federico di Montefeltro. Federico è sconfitto nel settembre successivo, poco prima di essere ucciso non dal nemico in armi ma da concittadini infuriati contro di lui per le taglie e le imposte da cui erano stati caricati. Rifugiatosi nella sua fortezza della Torre, racconta Muratori, ma sprovvisto «di gente e di viveri, col capestro al collo chiedendo misericordia, si diede nelle mani dell'inferocito popolo». Il quale non gli usò altra misericordia che quella di farlo a pezzi assieme ad un suo figliuolo, e «di seppellirli come scomunicati a guisa di cavalli morti» [2].

L'odio riversato dalla Chiesa contro Federico, in un tempo di forti tensioni religiose nella Marca anconitana, alimenta un'avversione contro di lui, che sfocia nella crudele esecuzione raccontata da Giovanni Villani (Cronica, IV, libro IX), che è la fonte di Muratori. Arresosi «come morto al popolo», pregandolo che gli tagliassero la testa, Federico esce tra la folla «col capestro in collo, e con un suo figliuolo» e chiede misericordia. Il popolo «a furore» uccide entrambi, ne trascina i cadaveri per le strade prima di gettarli tra le carcasse di cavalli, come se fossero stati degli scomunicati. Due altri suoi figli fuggiti da Urbino sono catturati a Gubbio, mentre «un altro suo piccolino fanciullo fu preso dal popolo» della stessa Urbino. Unico a salvarsi è un suo zio o cugino, Speranza, che riesce a scappare verso San Marino [M. Delfico. Memorie storiche della Repubblica di San Marino, Milano 1804, pp. 97-97.]

L'antefatto della vicenda urbinate è nell'assalto alla sede vescovile di Recanati. Leggiamo in un testo di Gabriele Petromilli: «Il vescovo, Federico Sanguigni, fu costretto a fuggire dalla città. Dodici dei suoi, tra servi e aiutanti, vennero uccisi barbaramente. Negli anni successivi la fazione guelfa, fedele alla Chiesa, riprese il controllo della città, e nel 1320 fra' Lorenzo da Mondaino, titolare dell'Inquisizione religiosa della Marca anconitana, condannò solennemente i capi dell'eccidio. Ma poiché costoro erano in gran parte le persone più facoltose di Recanati e la loro contumacia rappresentava un grave danno per l'economia cittadina, il rettore della Marca anconitana Fulcone da Pavia concesse loro il perdono pontificio il primo dicembre del 1328» [fonte: http://www.lemarche.it/pagine/mir04.html.].
Prosegue Petromilli: «Lo spirito della ribellione e dell'eresia continuò ad aleggiare a Recanati. La stessa animosità portò Cola di Cisco, figlio illegittimo di uno dei ribelli ghibellini perdonati, tale Filippo Papavola, a darsi al brigantaggio e a predicare la vecchia eresia. Cola fu catturato e giustiziato nella sua città nel 1368. Dapprima fu impiccato perché ladro, il suo cadavere decapitato in quanto assassino, e quindi venne bruciato come eretico».
Quelle fiamme non cancellarono però il fenomeno ereticale, se quasi un secolo dopo tre «fraticelli» sono arsi vivi a Fabriano il 24 novembre 1450.
Il XV secolo vede accendersi altre fiamme. Nel 1415 il boemo Jan Huss assieme all'allievo Girolamo da Praga, è condannato al rogo in spregio al salvacondotto imperiale con il quale si è recato al Concilio di Costanza. Convocato l'anno prima dall'imperatore Sigismondo per porre fine al Grande Scisma del 1378. Sono fiamme che ne preannunciavano altre: nel 1553 per Miguel Serveto a Ginevra su decisione dei calvinisti, ed il 17 febbraio 1600 a Roma per Giordano Bruno.
A Sigismondo Pandolfo Malatesti signore di Rimini è andata meglio il 26 aprile 1462. Il papa Pio II quasi subito dopo l'elezione (1458), avvia una campagna denigratoria contro di lui. Accusandolo di ateismo e paganesimo per le opere collocate nella chiesa di san Francesco ridotta a tempio «Infidelium daemones adorantium». Nel Natale del 1460 gli indirizza un anatema. Il 16 gennaio 1461 declama una requisitoria contro Sigismondo che nello stesso anno si macchia di una grave colpa agli occhi del pontefice, quando aderisce all'invito del «sultano dei Turchi ad inviargli uno dei migliori artisti della sua corte», Matteo de' Pasti, con l'incarico di fargli un ritratto [Cfr. SORANZO, Una missione di Sigismondo Pandolfo Malatesta a Maometto II nel 1461, in «La Romagna», VI, 1909, p. 51. La vicenda è ricostruita in MONTANARI, G. A. Barbari da Savignano (1647-1707), Rimini 2005, pp. 111-122.]
A lui Sigismondo affida per Maometto II una copia del De re militari di Valturio. In una «elegante epistola latina» [cfr. MASSERA, Roberto Valturio cit., p. 227] stesa dallo stesso Valturio, Sigismondo dichiara di voler far partecipe il sultano dei propri studi ed interessi («meorum studiorum mearumque voluptatum»). Matteo de' Pasti, arrestato in Candia prima di giungere a destinazione, è trasferito a Venezia dove è processato e liberato il 2 dicembre 1461 dopo esser stato riconosciuto innocente [Matteo de' Pasti forse fu sottoposto alla tortura dal Consiglio dei Dieci: cfr. SORANZO, Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesti 1457-1463, Padova 1911, p. 272.].
Il De re militari sequestratogli è richiesto dal pontefice che lo vuole esaminare. Contro Sigismondo i suoi avversari inventano «un'altra gravissima accusa»: d'aver invitato Maometto II a combattere il papa. In tal modo lo accreditano in un solo botto come nemico della Religione, dello Stato della Chiesa, delle signorie e dell'Italia tutta [cfr. SORANZO, Una missione di Sigismondo Pandolfo Malatesta cit., p. 44]. Alla fine, il 26 aprile 1462 «tre fantocci raffiguranti Sigismondo» sono bruciati in altrettanti diversi punti di Roma, ed il giorno seguente il papa emana la bolla Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini [cfr. ARDUINI, La vita di Sigismondo Pandolfo Malatesta cit., pp. 13-14], inaugurando quella «leyenda negra» su di lui, che ritorna successivamente [Leandro Alberti (Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa, G. B. Porta, Venetia 1550, ed. an. Bergamo 2003) definisce Sigismondo «valoroso capitano de i soldati», ricalcando quanto scritto da Pio II «che narra i suoi vitij, et opere mal fatte». Lo stesso fa negli Annali Francescani (C. Landry, Lugduni 1628) l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), chiamando Sigismondo uomo da ricordare più per le doti del fisico che per quelle dello spirito, per aver condotto una vita che nulla aveva avuto di cristiano]. Il 2 dicembre 1463 la Chiesa romana lascia allo «splendido» [cfr. M. BELLONCI, Segreti dei Gonzaga, Milano 1966, p. 367] Sigismondo una città «privata per lo più dei territori che aveva governato fin dai tempi del Comune» [cfr. FALCIONI, La politica militare e diplomatica di Sigismondo…, in Malatesti, p. 193].

Altre fiamme simboliche, tornando al XIV secolo, sono quelle del rogo deciso nel 1328 per ardere il De Monarchia di Dante, con l'accusa d'ispirazione averroistica sostenuta dal teologo domenicano Guido Vernani da Rimini [cfr. N. MATTEINI, Il più antico oppositore politico di Dante: Guido Vernani da Rimini, Padova 1966].

Aymery scrive al camerlengo il 23 febbraio 1321. Di lì a poco il papa scomunica Federico II re di Sicilia, figlio di Pietro III (Federico III) d'Aragona, accusandolo di non aver rispettato la tregua stabilita con il re di Napoli e lo stesso pontefice. Ma le cose stanno diversamente, come racconta Muratori (tomo 8, p. 93). Giovanni XXII e Roberto di Napoli «con dargli belle parole di pace, gli aveano cavato di mano Reggio di Calabria, ed altre terre». Altra ira della Chiesa si riversa sopra i Visconti, «con tutte le maledizioni di Dio»: il legato pontificio Bertrando del Poggetto nel 1322, in virtù di speciali poteri concessigli da Giovanni XXII con il titolo di «pacis angelus» per lottare contro gli eretici di Lombardia (T-C), confisca i beni a Matteo Visconti, ai suoi figli ed ai suoi fautori, li fa prigionieri «come se si trattasse di Saraceni», commenta Muratori (tomo 8, p. 94). E concede indulgenze e perdono dei peccati a chi prendesse Croce ed armi contro questi «pretesi eretici».
Bertrando il primo luglio 1320 incontra ad Asti Filippo di Valois. Il 2 agosto Filippo è a Milano a colloquio con Galeazzo I figlio di Matteo Visconti per valutare «la possibilità di un'intesa politica fra Parigi e Milano» (T-C).
Il 2 febbraio 1322 Bertando da Asti proclama la crociata contro i Visconti. Il primo marzo, Galeazzo, i suoi fratelli e 1.465 persone vicine alla sua famiglia sono accusati di eresia manifesta. Il 14 marzo Matteo Visconti è condannato dall'arcivescovo Aicardo a Valenza come eretico: «i beni sono confiscati, le dignità annullate» (T-C).
Tra le accuse riversate su Matteo Visconti c'è quella di aver contratto amicizia con fra Dolcino. Il quale nel 1305 nel contado di Noara in Lombardia aveva iniziato a predicare di «essere vero appostolo di Cristo, e che ogni cosa dovea essere in carità comune, e simile le femmine esser comuni, e usandole non era peccato. E più altri sozzi articoli di resia predicava, e opponeva che 'l papa, e cardinali, e gli altri rettori di santa Chiesa non oservavano quello che doveano né la vita vangelica, e ch'egli dovea esser degno papa» (G. Visconti, Nuova cronica). Due anni dopo, fra Dolcino «fu preso per gli Noaresi e arso con Margherita sua compagna, e con più altri uomini e femmine che collui si trovaro in quelli errori» (ib.).
Bertrando non si accontenta della condanna per eresia di Matteo Visconti. Vuole terrorizzare l'intera città di Milano: i cui cittadini, colpiti dall'Inquisizione, perdono beni e diritti (T-C)

Per distruggere i Visconti, Giovanni XXII e Roberto di Napoli cercano di convincere Federico d'Austria eletto re dei Romani a scendere in Italia con le sue forze. E gli danno «a credere di voler decidere la lite dell'imperio in suo favore, e mettere a lui in capo la Corona» (Muratori, tomo 8, p. 95, da Corio, Istoria di Milano).
Federico rinuncia all'impresa temendo la reazione di Ludovico IV il Bavaro. Ma l'offerta pontificia di centomila fiorini d'oro lo convince a mandare in Italia sua fratello Arrigo che appena giunge a Brescia è «accolto con sommo onore da quel popolo» (Muratori, ib.). Siamo nell'aprile 1322. A Brescia si trova anche Pagano dalla Torre, patriarca di Aquileia. che pubblica contro i Visconti ed i ghibellini italiani «chiamati ribelli della Chiesa, la terribil Bolla delle scomuniche», e predica la crociata contro di loro, armando tra quattro e cinque mila persone.
I capi ghibellini contattano Arrigo e gli fanno presente che è una «solenne pazzia» prendere loro stessi per dei nemici mentre sono gli unici fedeli all'impero in Italia. Arrigo, scrive Muratori, si preparava ad annientare i ghibellini e ad innalzare i guelfi con l'unico obiettivo di diventare padrone dell'Italia e togliere ai prìncipi di Germania la signoria sull'Italia
A convincerlo non sono tanto le buone ragioni logiche e politiche dei ghibellini, quanto la borsa che questi ultimi gli consegnano a Verona, con sessanta mila fiorini «co' quali se ne ritornò assai contento in Germania» il 18 maggio dello stesso 1322.

Il primo ottobre 1322 il papa ringrazia il vescovo di Rimini Francesco, per avergli data notizia della vittoria conseguita dalle truppe affidate a Pandolfo I contro il crudele e perfido tiranno Federico di Montefeltro. Il 19 ottobre il pontefice s'indirizza direttamente a Pandolfo lodandolo per la devozione mostrata da lui e dal nipote Ferrantino (è figlio di Malatestino fratello di Pandolfo) , alla sede apostolica e per la sconfitta del «fu Federico».

Pandolfo ha contatti con la Santa Sede, mediante un ambasciatore inviato da Rimini ad Avignone nel corso del 1322, per altre questione sollevate dalla corte pontificia, come «l'usurpazione dalla salina di Cervia spettante alla Chiesa Romana» e il rifiuto di sottostare alla politica fiscale. Rimini per questo secondo aspetto esibisce privilegi anteriori e accampa scuse in base alle spese sostenute nella lotta a Federico di Montefeltro [cfr. Battaglini, pp. 195-196].
Per la questione fiscale dei tributi militari (la «tallia militum» ordinaria del 1318, e rifiutata dai riminesi), Giovanni XXII s'era dimostrato favorevole ad una politica di conciliazione. Documenti rinvenuti negli archivi vaticani da Giuseppe Garampi forniscono dati parziali del bilancio comunale, che risulta in passivo (Tonini, IV, pp. 35-36). Questo stato delle finanze pubbliche potrebbe essere stato il motivo dell'atteggiamento non vessatorio del papa. E del ripetuto diniego riminese dopo la «tallia militum» straordinaria richiesta il 25 agosto 1321 (ib., p. 38).
Ma la disputa economica (prevalente nel giudizio negativo del rettore di Romagna verso i signori di Rimini), ad Avignone passa in secondo piano rispetto alla funzione politica che i Malatesti giocano nel combattere la guerra contro Federico.

Volpi e leoni sia Pandolfo sia Giovanni XXII, in qualcosa avrebbero dovuto però distinguersi, essendo il secondo rappresentante terreno di quel Cristo (lo scrive Muratori) che fu «sì grande amator della pace, e che non cercò mai regni terreni».
Giovanni XXII muore quasi novantenne il 4 dicembre 1334 ad Avignone, lasciando (prosegue Muratori, pp. 279-280) «una memoria assai svantaggiosa di sé stesso», non soltanto presso gli italiani ma in tutta Europa. Aveva infatti dedicato la sua vita a conquistare Stati, «rallegrandosi oltre modo dell'uccisione dei nemici». Per cui «davanti a Cristo […] dovette far pure la brutta comparsa».
Qualcuno si prese la briga di calcolare quanto era finito nelle sue tasche, accusandolo di aver accumulato un tesoro di diciotto milioni d'oro in contanti e di sette milioni in vasi e gioielli.

Lo spirito bellicoso di Giovanni XXII è evidente anche nella vicenda romagnola, dove il pontefice mostra una fretta di punire i ribelli, che non è condivisa dal rettore Aymery. Al quale il papa scrive il 12 ottobre 1319 di non aver ricevuto sue notizie e di credere che Aymery ignori i mali provocati dall'empietà dei rivoltosi di Recanati e di Osimo. Poi gli raccomanda di agire «celeriter» e senza alcuna dilazione. In un messaggio inviato lo stesso giorno ai signori romagnoli (fra cui Pandolfo e Ferrantino) che debbono guidare la guerra ai ribelli della Marca anconitana, Giovanni XXII dichiara di non volere ritardi.
Intanto passano inutilmente due mesi, se il papa il 12 dicembre scrive agli stessi signori romagnoli ripetendo lo stesso discorso con un'aggiunta però importante. Quel vescovo Bernardo Atrebatense (d'Artois) non si è fatto vedere in Romagna, non potendo o non volendo (sottolinea con evidente malizia) raggiungere quelle zone. [Cfr. Docc. pp. 161-162.]

La questione di Federico di Montefeltro e la Romagna ribelle, sono soltanto due dei fronti che agitano la Chiesa di Avignone in quei momenti. Risalendo lungo la via Emilia sino a Bologna, troviamo un altro focolaio di crisi che preoccupa gravemente la corte papale.
A Bologna nel 1320 assume il potere Romeo Pepoli, un banchiere che ha accumulato grandi fortune mobiliari ed immobiliari. Con una rendita annuale valutata in oltre centoventimila fiorini d'oro, secondo quanto riportato da Villani (IX, 129). Muratori avverte: «La fama probabilmente ingrandì di troppo il di lui avere». A Bologna, spiega Leo (p. 252) per ogni bimestre le corporazioni dei mestieri eleggevano nove anziani, le associazioni d'armi otto. Il «collegio degli anziani» diventava «consiglio di credenza del popolo» quando due consiglieri ed otto «ministrali» (scelti in ognuna delle sei o sette corporazioni, e riuniti ai loro consoli) costituivano con esso un «gran collegio» (Leo, p. 252).
Il 17 luglio 1321 a Bologna nasce la «fiera sedizione» del popolo che costringe Romeo Pepoli a trovar rifugio per tre mesi in casa Sabbatini di parte avversa, prima di andare a Ferrara presso gli Este suoi parenti.
Obizzo III nel maggio1317, ha sposato Giacoma figlia di Romeo. Se con i concittadini Romeo Pepoli si comporta come un «guelfo oltranzista» (Trombetti Budriesi, Prefazione), si presenta «spregiudicato in politica estera tanto da favorire il matrimonio della figlia Giacoma con Obizzo III d'Este» (ib). Queste nozze sono un evento con valore eminentemente politico sia per i Pepoli sia per gli Este. A Bologna già nel 1316 ci sono state acque agitate a danno dei guelfi, mentre si stava formando un nuovo partito ghibellino. Ne diventa capo Romeo Pepoli, in concomitanza con il matrimonio fra sua figlia Giacoma e Obizzo III (Leo, p. 279).
Le nozze sembrano favorire soprattutto gli Este. Essi nel 1317, disponendo di grandi risorse in denaro e forti di potenti alleanze, riescono a spingere una parte della borghesia ferrarese a rivoltarsi in loro favore contro la guarnigione francese, approfittando della momentanea partenza del governatore inviato in città da re Roberto di Napoli. I movimenti delle truppe estensi e ghibelline interessano un vasto territorio. (Leo p. 279)
A proposito di matrimoni e di casa d'Este, va ricordato che Galeazzo I Visconti (1277-1328) il 24 giugno 1300 aveva preso in moglie Beatrice d'Este, nel gennaio 1298 rimasta vedova di quel «giudice Nin gentile» dei Visconti di Pisa ricordato dall'amico Dante (Pg, VIII, 53-60). Beatrice è figlia di Obizzo II (1247c-1293), figlio naturale di Rinaldo (+1251) e di una lavandaia napoletana, marchese di Ferrara dal 1264 alla morte. Beatrice nasce dalla prima moglie (1263), Giacoma di Niccolò Fieschi (+1287): alla famiglia Fieschi appartengono due papi del XIII secolo, Sinibaldo divenuto Innocenzo IV, 1243-54, ed Ottobono, Adriano V (1276). La seconda è Costanza della Scala (+1306).
Il matrimonio di Beatrice e Galeazzo I è stato combinato da Azzo VIII, fratello della sposa, e signore di Ferrara (dal 1293 al 1308) per chiudere in armonia un contrasto militare avuto con i Visconti (Manini, p. 234). E proprio a Ferrara, quando nel 1302 i Visconti sono cacciati dai Torriani, Galeazzo I trova rifugio. Qui Beatrice dà alla luce quell'Azzo Visconti che diverrà «un personaggio de' più distinti dell'illustre sua casa» (Manini, p. 234).
Obizzo II è cacciato da Dante all'Inferno tra i prìncipi violenti (XII, 110-111), «spento dal figliastro sù nel mondo». Il canonico ravennate Riccobaldo lo descrive invece strangolato nel letto «fraude due filiorum» (Manini, p. 213). L'abate Giuseppe Manini Ferranti nella sua «Storia» ferrarese (1808) invita a diffidare di queste notizie circa l'omicidio di Obizzo, provenendo esse da autori ghibellini, «per conseguenza avversi al Marchese Obizzo grande fautore, siccome osserva il Muratori, del partito contrario (p. 215)». Muratori cita, scrive Manini Ferranti, un manoscritto di Alessandro Tassoni dove si «dimostra l'improbabilità di quella diceria».
Ad Obizzo, come abbiamo anticipato, nel 1293 succede Azzo VIII, creando discordia con gli altri due fratelli Aldobrandino e Francesco, «e questa si tirò dietro secondo il solito delle gravi disgrazie della Casa d'Este» (Muratori, Annali 7, p. 495). All'inizio del suo governo Azzo intraprende «una guerra sanguinosa contra i Bolognesi, ajutato egli dai Romagnoli, e soccorsi i Bolognesi dai Fiorentini» (ib., p. 233). Poi nel marzo 1301 deve sedare un tumulto popolare provocato da una decisione dell'Inquisizione: il capo di una setta religiosa morto nel 1269, Armanno Pungilupi, sepolto in cattedrale, venerato come santo ed autore di numerosi e stupendi miracoli, è dichiarato eretico. Per cui il suo corpo è dissotterrato, tolto dalla chiesa e bruciato in riva al Po «col favor del Marchese» di Ferrara che spegnendo la successiva rivolta de fanatici cultori della memoria di Pungilupi dette «prova insigne di sua prudenza e cautela (Manini, p. 230)».
Manini Ferranti avverte che«la setta di Armanno» non dev'essere confusa «con quella de' Fraticelli» che «furono posteriore di qualche anno al Pungilupi». E che soprattutto «amarono scopertamente il libertinaggio oltre agli errori, che insegnavano in materia di fede. Affettavano lo spirito di povertà, e portavano un abito simile a quello de' Francescani, per cui alcuni li confusero con questi Religiosi. Essi divennero odiosi a tutto il Mondo per la loro arroganza, e per le declamazioni contro le Podestà ecclesiatiche» (p. 230, e nota 1, 230-231). Circa Armanno ed i suoi seguaci, Manini Ferranti sferra il colpo definitivo osservando che «la dissolutezza è un vizio assai comune agli Eretici, onde non hanno fatto gran torto al Pongilupo que', che l'hanno creduto lordato di quella pece». Fatto sta che una porzione del clero ferrarese «per troppa credulità ai fatti supposti, e pel fanatismo del Popolo vi faceva un'infelice comparsa» (p. 231).
Poco dopo la morte di Azzo VIII (1308) Ferrara passa alla Chiesa (1309), favorita dalle lotte intestine di casa d'Este. Nel 1305 le nuove nozze di Azzo con Beatrice d'Anjou avevano provocato l'irritazione dei fratelli del signore di Ferrara, Francesco e di Aldobrandino, «che erano entrati nella forte lusinga di succedergli ne' suoi dominj» (Manini, p. 248). Per cui presero per la seconda volta le armi contro di lui. L'episodio precedente risale al 1293, con l'aiuto dei padovani, appena Azzo fu riconosciuto signore dal popolo ferrarese.
Azzo è descritto da Manini come uomo «di talenti fornito, ed accompagnato dalla fortuna», oltretutto «stimato dai Principi, e amato dai Papi, de' quali era Gonfaloniere» (ib., p. 248). In un primo tempo lascia come erede Folco figlio di suo figlio Francesco detto Fresco. Poi revoca le disposizione chiamando a succedergli i fratelli. Quando muore il popolo di Ferrara conosce soltanto le prime volontà e convalida la nomina di Fresco come luogotenente di Folco suo figlio. I fratelli di Azzo concordano di spartirsi l'eredità di Azzo in parti eguali e di abbattere Fresco. Aldobrandino, vecchio, fa scendere in campo i tre figli, Rinaldo, Obizzo e Niccolò che si uniscono allo zio Francesco. Il quale chiede aiuto al papa, ottenendo da lui un soccorso militare che convince Fresco a chiedere asilo ai veneziani. Il popolo accoglie festante Francesco che «in vece d'accogliere questo tributo di amore andava suggerendo a tutti, viva la santa Chiesa Romana, forse per un accordo coi Pontificj Legati». Ai quali passa il «governo civile, criminale, e militare», in mezzo a «mille disordini». Quando i ferraresi si accordano con i veneziani concedendo il potere ad un rappresentate del Senato della Serenissima, il papa fulmina i veneziani stessi con la scomunica e li minaccia di una crociata. Sconfitti sul campo i veneziani chiedono la pace e nel 1309 la città di Ferrara passa alla Chiesa. (Ib. 250-252).
Papa Clemente V la concede nel 1313 a Roberto re di Puglia e Sicilia, «fac totum dell'Italia» (p. 253). Nel 1317 diventa signore di Ferrara Rinaldo II d'Este sino al 1335. Rinaldo è figlio di Aldobrandino uno dei tre fratelli generati da Obizzo II (gli altri due sono Azzo VIII e Francesco, scomparsi rispettivamente nel 1309 e nel 1312).
Rinaldo II ha due fratelli, Obizzo III e Niccolò I. Rinaldo ed Obizzo nel 1304 sposano due sorelle Torelli, Margherita e Amia, figlie di Salinguerra III nato da Giacomo e Maria Morosini. Giacomo detto il folle era figlio di Salinguerra II che fu acerrimo nemico degli Este, da lui cacciati da Ferrara sul finire del XII secolo.

A Bologna i Pepoli completano il loro piano spingendo la città verso gli Este. Romeo non è soltanto ricco e parente con i signori di Ferrara, ma è pure amico della casa della Scala (Leo p. 279). Il piano dei Pepoli però non consegue il risultato sperato, come si è visto con la «fiera sedizione» popolare del 17 luglio 1321.
Due anni dopo i ghibellini di Bologna si uniscono a quelli di Romagna e con l'appoggio dei signori di Ferrara, Verona, Milano e Modena marciano sulla loro città. Il 15 novembre 1325 a Monteveglio i guelfi guidati da Malatestino Malatesti sono sconfitti. I ghibellini rinunciano ad attaccare Bologna, considerandosi inferiori di forze. L'anno dopo si conclude una pace tra le parti, soprattutto per le pressioni del legato Bertando del Poggetto che nell'autunno 1326 occupa Parma e Reggio. L'anno dopo Modena si arrende alla Chiesa. Accolto con grandi onori il legato torna a Bologna: il «consiglio del popolo» gli restituisce la signoria sulla città, sul contado e sui paesi di Bologna (Leo, p. 280). Il 22 marzo 1327 vi fanno ritorno Taddeo Pepoli e la sua famiglia. In Romagna continuano le agitazioni contro il legato, che rischia persino di essere ucciso da un congiura. Il legato pareggia il conto con varie condanne a morte (ib.)
Parma, Reggio e Modena riprendono a lottare contro la Chiesa ed il legato. Che era assecondato dai Malatesti di Rimini: Malatesta diventa suo generale, e Rimini torna sotto la dominazione ecclesiastica.
Scrive il cronista bolognese citato da Leo (p. 281, nota 4, prima colonna): «Il legato signor di Bologna ebbe la città di Rimini a nome della chiesa a nome della chiesa in questo modo, che Malatesta e messer Ferrantino e i figliuoli e Malatestino tutti de' Malatesti che reggevano la detta città, per discordia ch'era tra loro diedero quella al legato, il quale vi pose un rettore». La consegna di Rimini al legato, osserva Leo, avviene soltanto per favorire Malatesta Malatesti nella sua carriera militare. Egli infatti diviene, come s'è appena visto, generale del cardinal legato, travolgendo tutti gli altri parenti che sino ad allora avevano condiviso il potere con lui (ib, nota 4)
Ferrara nel gennaio 1331 vede gli Este infeudati dalla Chiesa. Dal 1329 erano già stati nominati vicari pontifici ed imperiali. Bologna nel 1331, con il beneplacito del legato, passa in mano a Giovanni re di Boemia. Che il 16 aprile ha un incontro segreto con il legato stesso per discutere l'attacco a Forlì. Gli effetti se ne vedono dopo la «dieta di Romagna» tenutasi a Faenza. Forlì è assediata dalle truppe ecclesiastiche, e gli Ordelaffi sono costretti a cedere la città ad un rettore pontificio. (Leo, p. 281) Nel dicembre 1332 il legato arresta quattro ghibellini bolognesi tra cui Taddeo Pepoli. La città s'inquieta ed il legato dopo sei ore li libera.
Nel gennaio 1333 Ferrara registra un nuovo attacco delle truppe pontificie quando il potere di Giovanni di Boemia è attaccato ed in parte schiacciato dai signori del settentrione collegati tra loro: Gonzaga, Scaligeri ed Estensi. I tre marchesi di Ferrara Rinaldo, Obizzo e Niccolò riescono a mettersi in salvo. Il 14 aprile 1333 Rinaldo disperde sotto le mura di Ferrara le truppe pontificie. Tra i prigionieri ci sono Malatesta e Galeotto Malatesti di Rimini. (Leo, p. 282).
Qualche giorno dopo l'armata ferrarese volge verso la Romagna, dando un segnale politico a quei signori per spingerli a ribellarsi al potere ecclesiastico. Succede a Forlì il 28 settembre. Poi a Ravenna, Cervia, Bertinoro. (A Cesena è eletto podestà Ramberto Malatesti di Ghiazolo: il 16 febbraio 1334 Francesco Ordelaffi prende il suo posto.) Malatesta e Galeotto rientrano a Rimini per porre fine al potere del legato, mentre risuona in città il grido di «muoja la chiesa!».
Il legato per non perdere la partita sostiene Giovanni di Boemia e gli dà un soccorso in moneta ricavato da una serie di contribuzioni che aggravano il malcontento dei sudditi. (Leo, p. 282, più nota 1 col. 2) E convincono Giovanni di Boemia a rientrare in Germania, dopo aver venduto a famiglie locali (Rossi, Fogliani e Pio) le città di Parma, Reggio Emilia e Modena (ER, I, 717).
Mentre Obizzo d'Este, dopo la resa di Argenta dell'8 marzo 1334, contatta i nobili bolognesi, il legato manda contro le sue genti, impegnato a saccheggiare i paesi, la maggior parte delle proprie truppe. Bologna resta così sguarnita di militari. Ne approfitta Brandeligi Gozzadini che organizza una rivolta al grido di «muoja il legato!». Ed il legato che giaceva infermo, è assediato nella sua fortezza. Il 28 marzo gli concedono di trasferirsi a Firenze, come aveva richiesto. Bologna torna libera. In mano ai guelfi. (Leo, pp. 282-283) L'anno dopo dalla città sono cacciati tutti i ghibellini. Nel 1336 tentano di accordarsi col nuovo papa Benedetto XII (Giovanni XXII è morto nel 1334).
Il 7 luglio 1337 Brandeligi Gozzadini è cacciato da Bologna. Una rivolta militare prima e le rappresentanze popolari poi acclamano Taddeo Pepoli signore di Bologna con il titolo di «difensore e conservatore della pace» («generalis et perpetuus conservator et gubernator populi Bononie»),
Il cronista Bartolomeo della Pugliola (Antichità di Bologna, nella tesi di Flavia Gramellini), racconta che il 28 agosto 1337 giorno di sant'Agostino, soldati a piedi ed a cavallo vanno in piazza gridando «Viva messer Tadeo de' Pepoli», accolti dalla gente che urla «Popolo, popolo» contro il potere ecclesiastico ed il cardinale Bertrando.
Finisce la signoria forestiera del cardinale Bertrando del Poggetto (1327-1334), «determinata dalla autoritaria energia del papa Giovanni XXII (Jacques Duèse) del cui progetto di creazione di uno stato guelfo nell'Italia settentrionale Bertrando fu il perno» (Trombetti Budriesi). Come si dovrà vedere più avanti.
Bertrando («cresciuto alla corte avignonese e portatore di soluzioni autoritarie»), scrive Trombetti Budriesi, «nell'intento di ingraziarsi i bolognesi, aveva favorito il ritorno di molti esuli tra cui» Taddeo Pepoli «che aveva voluto accanto [...] con incarichi diplomatici».

Taddeo figura «tra gli ispiratori della rivolta politica del 1332 mirante a ridimensionare l'influenza di Bertrando». Dopo la cui cacciata (1334), e sino al 1337, «la fama del Pepoli si consolidò, oltreché in quanto carismatico leader politico, come legum doctor, chiamato con altri colleghi a rivedere e correggere gli statuti del 1335 emanati dal neo “risorto” comune per cancellare quelli, oggi perduti, promulgati dall'odiato legato, nonché a rinnovare gli estimi. E mentre la famiglia, in particolare il fratello Zerra, manteneva la tradizione di prestare denaro al comune dissestato, Taddeo svolgeva il ruolo eminentemente politico di controllore e supervisore dell'organismo comunale ben attento, ovviamente, agli interessi della propria fazione e, perché no, della propria famiglia».

Taddeo «fece accettare in tanto in quanto, agli ampi poteri che si fece conferire, restò saggiamente estranea la facoltà di imporre nuove collette o prestanze. Questo e l'avere saputo scegliere gli alleati fedeli verosimilmente bastò alla città stanca degli aggravi del cardinale legato e le fece accettare, senza manifesti contraccolpi, la nuova signoria che prese vita dopo l'occupazione della Piazza Maggiore il 28 agosto 1337 allorché i mercenari del comune disarmarono le milizie degli anziani e il barisello e Taddeo fu acclamato signore; poi il consiglio del popolo lo elesse “generalis et perpetuus conservator et gubernator comunis et populi Bononie ac totius civitatis comitatus et districtus …et augmentator status boni pacifici et tranquilli omnium premisorum”».
Pepoli è designato vicario papale conseguendo così «quella legittimazione esterna da parte della Chiesa - che vantava dal 1278 il diritto di governare Bologna - che lo metteva al riparo da sospetti interni di tirannia, che gli permise di agire senza interferenze, coerente, per quanto possibile, con il titolo, complesso e fortemente significativo, ricevuto per acclamazione popolare, e certamente da lui stesso suggerito, che rivela non comuni capacità di comunicatore».

Taddeo Pepoli «portava su di sé la difficile eredità di essere figlio di un uomo di parte che era venuto meno alla fiducia in lui riposta, era stato cacciato con violenza da Bologna e costretto all'esilio da cui non rientrò»: era soprattutto «un rampollo che aveva vissuto i privilegi della enorme ricchezza e del potere paterni» (Trombetti Budriesi). Taddeo si era laureato in Diritto civile nel 1320. «ingenti spese furono sostenute dal padre Romeo per festeggiare l'evento che dava lustro al casato, che non aveva mai annoverato tra i suoi appartenenti un dottore dello Studio e questa, a Bologna, era una lacuna da colmare. L'esilio seguì di appena un anno il momento di più alta popolarità di Romeo: i festeggiamenti per la laurea di Taddeo». Visti come «un acme pericoloso […] in seno al ceto oligarchico» (Trombetti Budriesi).
Il 29 settembre 1347 Taddeo muore dopo lunga malattia. Gli subentrano i figli Giacomo e Giovanni acclamati dal Consiglio del popolo e riconosciuti vicari da papa Clemente VI (eletto il 7 maggio 1342).
I Visconti dal 1346 dilagano in Emilia investendo direttamente Bologna e minacciando le terre romagnole. Nel 1350 papa Clemente VI nomina conte di Romagna un provenzale che ha sposato una sua parente, Astorgio di Durfort da Limonges. Abile soltanto ad ordine tradimenti, Astorgio lascia in pace i nemici e rivolge le armi contro gli amici (Biographie universelle, p. 375). In tal modo «alienò alla causa della Chiesa anche le poche simpatie di cui essa godeva in quei tempi» (Sassatelli, p. 807). Astorgio arresta Giovanni Pepoli quando si reca al suo campo per conferire con lui. Poi fa catturare anche Giacomo Pepoli. Per la liberazione di Giovanni Astorgio chiede un riscatto di ventimila fiorini subito e sessantamila in un secondo momento: «era una somma enorme che né Bologna né i Pepoli potevano pagare» (Trombetti Budriesi, Introduzione). I Pepoli sono costretti (nello stesso 1350) a vendere la città di Bologna all'arcivescovo Giovanni Visconti signore di Milano che ne diventa «dominus generalis». Il grave affronto da loro subìto da parte della Chiesa, era dovuto all'incapacità di Astorgio ad organizzare l'esercito con cui combattere l'arcivescovo Giovanni Visconti. Le truppe pontificie, malpagate, si ammutinano. Astorgio per rimediare la borsa con cui pagare le sue milizie, fa prigionieri i due fratelli Pepoli, e chiede quel pesante riscatto.
Allo scopo di raccogliere la somma necessaria, Giacomo e Giovanni il 16 ottobre 1350 vendono la signoria di Bologna per duecentocinquantamila fiorini all'arcivescovo Giovanni Visconti. Che diventa sempre più incombente sulla Romagna. (Andrea Pepoli, figlio di Giovanni, appare nelle cronache come un capitano di ventura al servizio dei Visconti, sconfitto da Malatesta Ungaro. Nel 1585 un senatore Giovanni Pepoli è fatto giustiziare da papa Sisto V che voleva dare una lezione agli spiriti ribelli della nobiltà felsinea. )
L'arcivescovo Giovanni Visconti domina in Bologna dall' ottobre 1350 sino alla morte (ottobre 1354). Gli subentra il nipote Matteo sino all'aprile 1355) quando arriva Giovanni Visconti da Oleggio (un figlio naturale dell'arcivescovo Giovanni, secondo alcuni), che governa sino all'aprile 1360. Quando la città torna in mano allo Stato della Chiesa con il cardinal Albornoz.
Su questo sfondo troveremo altri Malatesti protagonisti della scena politica internazionale.

NOTE
Sui Pepoli e Bologna, nel primo volume della «Storia dell'Emilia Romagna» (Bologna 1975) c'è un saggio di Antonio Ivan Pini dedicato all'economia medievale (pp. 519-548), dove si legge che «la crisi del Trecento si avverte anche nell'instabilità politica» della città come del resto della regione. Sotto gli ultimi Pepoli comincia quella politica che porta al dissanguamento dei suoi abitanti.
Gli «Annali» muratoriani che raccontano di Bologna e dei Pepoli sono quelli dell'ottavo volume dell'edizione milanese del 1744 presso il veneziano Giovambattista Pasquali.

Muratori colloca l'uccisione di Federico al 22 aprile 1322. Giovanni Villani, nella «Nuova cronica», cap. CXLI, la pone al 26 dello stesso mese: «... il popolo d'Orbino si levòe a romore contro al detto conte Federigo, ed egli improviso rinchiuso e assediato dal popolo nella sua fortezza de la terra, vedendosi non guernito né da potere riparare, s'arendé come morto al popolo, pregandogli per grazia glitagliassono la testa; e spogliato in giubba, col capestro in collo, e con uno suo figliuolo scese al popolo cheggendo misericordia, il quale popolo a furore lui e 'l figliuolo uccisono, e poi faccendo il corpo suo tranare per la terra, vituperosamente a' fossi in uno carcame di cavallo morto il soppellirono, sì come scomunicato; e due altri suoi figliuoli fuggendo d'Orbino furono presi da quegli d'Agobbio; e un altro suo piccolino fanciullo fu preso dal popolo d'Orbino, e Speranza di Montefeltro si fuggì nel castello di San Marino. E per questo modo venne il giudicio d'Iddio improvisamente a quegli della casa da Montefeltro, gli quali erano sempre stati ribelli e perseguitori di santa Chiesa; e questo fu a dì XXVI d'aprile MCCCXXII».

Giacoma Pepoli è detta da Fantuzzi moglie di Rinaldo, tomo VI, Bologna 1787, p. 364.
Henri de l'Épinois, Le gouvernement des papes, Paris, 1867
(T-C) = Maria Grazia Tolfo e Paolo Colussi in http://www.storiadimilano.it/
Manini = Giuseppe Manini Ferranti, Compendio della storia sacra e politica di Ferrara, II, Ferrara 1808

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