Riministoria

Il Rimino n. 27

Due raccolte liriche di Alberto Melucci

Anno II, n. 27, Rimini 01.06.2000

Webzine diretto da Antonio Montanari

 

Camminare nel deserto d’amore

Le due raccolte liriche di Alberto Melucci

presentate da Ezio Raimondi

Alberto Melucci, sociologo di rilievo mondiale, nato a Rimini nel 1943, ha debuttato come poeta (in lingua ed in dialetto), venerdì 26 maggio, al Museo della città. Lo ha tenuto a battesimo l’italianista Ezio Raimondi che ha spiegato ai numerosi intervenuti le ragioni segrete che animano le sue composizioni.

"Poesia inaspettata" s’intitolava la presentazione. Ma l’editore Pier Giorgio Pazzini ha chiarito: "I due volumi di Melucci che ho appena pubblicato, non sono qualcosa di inatteso per chi, come me, lo conosce da una vita e ne ha sempre apprezzato l’intelligenza, la modestia, la cordialità, lo spirito di accoglienza ed un senso pieno di umanità".

Dopo il saluto di Stefano Pivato, assessore alla Cultura del Comune di Rimini, Raimondi ha svolto una minuziosa (forse troppo) lezione, mirando soprattutto a cogliere le analogie tra le due opere, intitolate rispettivamente "Giorni e cose" e "Zénta".

La raccolta "Giorni e cose" ha una sua architettura segreta, che ruota tutta, come scrive Lalla Romano nella prefazione, attorno al tema del dolore: "Un dolore fecondo, che genera vita e non porta alla disperazione".

Un esempio, ci pare di poterlo trovare in "Cose senz’anima": "Piangere perché / nessuno ti sorride / è inutile / come il gocciolìo / tedioso della gronda. / Di cose senz’anima / è fatto il nostro andare / camminiamo tutti / in questo deserto / d’amore".

"Giorni e cose" si apre con "fuochi di frontiera" attorno a cui vegliano "i custodi dell’ultima nuvola". E si chiude con il mattutino risveglio che vede riproporsi "la domanda sulle labbra / ed il sorriso". Tra queste due immagini che segnano entrambe il senso ultimo dell’attesa e della vita, si distendono tutte le altre parole che intessono la poesia di Melucci: la foresta, il nulla che irrompe "nelle mani vuote", il vento che si alza dall’orizzonte, i sentieri perduti.

Qualcosa di tutto ciò ritorna in "Zénta", ovviamente, perché l’autore non si sdoppia, come dimostra nell’avvio (con quel "fil d’èrba" che deve fare i conti "sla forza / dla buféra") o in "Farfàli" (perso ad occhi chiusi tra la gente, il poeta si avverte come "un èrbur / fiurìd ad primavera").

Ma lentamente, lo strumento dialettale, porta Melucci verso sentieri che, pur raggiungendo un significato sempre importante, talora sembrano troppo condiscendenti ad un uso "medio" e non "alto" del vernacolo. Il discorso diventa più disteso, il concetto non si raccoglie nella sintesi della parola unica, ma si apre ad immagini che richiedono frasi lunghe e spiegazioni.

È una poesia che si arricchisce di una moralità da favola o da racconto popolare. "La lamèta nova" insegna che per sentirsi "un sgnór" basta cambiare "rasór" tutte le mattine. Si veda anche l’elogio dei riminesi o "La furtùna dal dòni", un’esaltazione della bellezza femminile che nel contesto dialettale si colloca splendidamente, strappando un sorriso convinto di conferma, ma che il Melucci in lingua non avrebbe mai composto in quelle forme.

Queste due facce non segnano una contraddizione. Completano un ritratto, raccolgono in un collage motivi diversi, opposti, quelle differenze che siamo noi, tutti.

Il lettore, confrontando le due produzioni, cerca di capire perché Melucci abbia avvertito la necessità di scegliere due strade diverse, ma rivolte allo stesso scopo: narrare se stesso, riassumere gli enigmi, i misteri, le oscurità e gli slanci quotidiani della nostra vita, dell’esistenza comune. In fin dei conti, come ha spiegato Raimondi, il dialetto serve a recuperare quel passato da cui trae alimento la poesia in lingua.

Antonio Montanari

 

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