Era l'Italia di Peppone e don Camillo. Senza però l'aria di comicità che avvolge il film, vedendolo a tanti anni di distanza dal tempo in cui accadevano le cose che vi si narrano. Guareschi nei suoi romanzi ha raccontato bene le feroci contrapposizioni che dividevano le strade, le popolazioni, ogni realtà sociale. Nuove divisioni dopo quelle ancor più dolorose e drammatiche della guerra, durante il periodo buio della repubblica di Salò, quando il terrore correva lungo la schiena soltanto a sentire il nome di certe persone, o di certi luoghi dove il passo dalla cattura alla morte era molto breve.
La fine della guerra portò a tirare un sospiro di sollievo, si è soliti pensare. Ma il mondo è sempre più complesso di quello che si immagina o si ricorda. Dalla mattina alla sera, raccontavano i nostri vecchi, molti fascisti di quelli più accesi, fecero il salto del fosso. Cambiarono colore di camicia. Dalla nera alla rossa (rispolverando il povero Garibaldi nei manifesti elettorali). Scoprirono il comunismo, e vi si attaccarono con tutta la forza che avevano in corpo per sopravvivere.
I conti con il passato non furono facili. Le vendette del dopoguerra, soprattutto nella nostra regione, segnano di sangue molte pagine di racconti che si tramandano di generazione in generazione, e che non sempre trovano facile ospitalità nei libri di Storia. Sulle azioni dei brigatisti neri in molti casi passò una buona mano di analogo silenzio.
I «rossi» non potevano non essere fedeli a Baffone. Nel linguaggio popolare, la frase: «Ha da venì Baffone» suonava come promessa di un rinnovamento, non soltanto come minaccia verso gli avversari politici.
La parola rivoluzione era stata covata con grande fiducia negli anni della guerra civile, dopo l'8 settembre 1943. La rivoluzione proletaria. Chi se non Stalin poteva essere la stella polare del popolo comunista?
Tommaso Giglio, in una bella biografia di Montanelli (1981) racconta così il dopoguerra: «Il primo elemento era la paura: una paura fottuta che i comunisti prendessero il potere. Ce l'avevano in molti, a milioni, in Italia. Ma le reazioni erano diverse. C'era chi si ritirava nel guscio del reazionarismo più ottuso e chi, invece, giudicando l'evento ormai inevitabile, tentava di rifarsi una verginità assecondandolo».
C'erano i partigiani della pace, movimento incoraggiato dallo stesso Stalin, c'era la colomba della pace disegnata da Picasso. Il mondo era diviso in due dalla cortina di ferro.
Giorgio Bocca nella vita di Togliatti (che non piacque, ovviamente, al partito del Migliore), parla della realtà che cambia sotto il profilo economico: sia Togliatti sia il Pci «non capiscono, e in certi casi sono costretti a non capire», perché l'Urss non vuole «né un'Italia sovvertita né un'Italia rafforzata». Rispetto della legalità, dunque, dicono a Mosca, ma opposizione dura. Di Stalin ha scritto Togliatti: «Voi ci avete insegnato a essere comunisti, a lottare in tutte le condizioni».
Quando il dittatore sovietico muore, l'Unità proclama: «L'opera di Stalin è immortale, vive la sua causa invincibile». Togliatti alla Camera dichiara di avere l'animo «oppresso dall'angoscia» per la scomparsa «dell'uomo più che tutti gli altri venerato e amato». Era scomparso il maestro, il compagno, l'amico. Togliatti usa «accenti manzoniani», commenta Bocca.
Morto Stalin, leggiamo in altra parte del volume di Bocca, «la base comunista continua a pensare la Russia come il paese dello stalinismo senza che la direzione intervenga a chiarire o a correggere; e invece il regime sovietico sta per ripudiare in parte i metodi del passato, si accinge, come si dirà, a destalinizzare»: arrivano il ventesimo congresso (febbraio 1956) ed il rapporto segreto di Krusciov sui delitti staliniani. Non sono passati nemmeno tre anni da quel 5 marzo 1953. Mancano pochi mesi alla rivolta di Budapest, 23 ottobre 1956.
Scrive Giglio sul Montanelli inviato speciale in Ungheria: «Montanelli raccontò la verità che vedeva: quella gente si batteva con un eroismo straordinario contro i carri armati sovietici, ma non in nome di altri ideali, non perché erano nemici del socialismo, ma perché chiedevano un socialismo diverso».
Il 28 giugno c'era già stata una rivolta in Polonia, a Poznam. Da Mosca avevano dato la colpa agli americani. L'Unità aveva scritto invece che gli operai di Poznam avevano criticato il partito e la polizia. Togliatti sta dalla parte di Mosca: sul suo giornale scrive un editoriale che Bocca definisce «di duri accenti staliniani».
Il dramma ungherese apre gli occhi solo a pochi intellettuali. La repressione sovietica per la base del Pci «è un gesto positivo, un ritorno alla fiducia nello Stato guida», scrive Bocca. Stalin non era ancora morto del tutto, in Italia.
E a Rimini? I dirigenti locali del partito «riuscirono con forti difficoltà a controllare un dibattito in cui la base comunista faticava a riconoscersi», scrive Paolo Zaghini (1999) nella sua storia del Pci cittadino.
In un atto ufficiale del Pci riminese (1959) riprodotto da Zaghini si legge che «il partito localmente restava ancorato all'appassionata discussione sui problemi più drammatici sollevati dal XX Congresso e dagli avvenimenti d'Ungheria». Questo «travaglio politico», prosegue quel documento, si tramutò al Congresso «in una critica non costruttiva sugli errori e le deficienze del passato, sulla vita interna del partito e dei suoi dirigenti locali». Critica «non costruttiva». Il linguaggio restava staliniano. Erano già passati sei anni dalla morte di Baffone. Ne mancano trenta alla caduta del muro di Berlino, 9 novembre 1989.
Giorgio Giovagnoli nei suoi ricordi («Quelli del Gobetti», 1993) si chiedeva: «E i ragazzi e le ragazze, come vissero la loro giovinezza a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta?». Questa la sua risposta: «Erano anni in cui esisteva una forte divisione di classe, prima ancora che politica. Questa divisione rasentava a volte l'incomunicabilità totale, soprattutto fra coloro che studiavano e coloro che lavoravano. Ma anche fra chi studiava le differenze di classe erano profonde, tant'è che le amicizie erano circoscritte da cerchie ben definite».