Riministoria

La morte di Stalin, 5 marzo 1953
Che cosa (non) raccontano i giornali locali del tempo

Aveva ragione Benedetto Croce a scrivere che la cronaca è il cadavere della Storia. Senza cronaca è fatica fare Storia. Siamo andati a cercare testimonianze sulla morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo di cinquant'anni fa, nei giornali locali del tempo, ed abbiamo trovato troppo poco, anzi quasi nulla. Eppure l'evento non fu di secondaria importanza.

Nel settimanale cattolico «L'Ausa» di giovedì 12 marzo 1953, appare la consueta rubrica intitolata «Comunisteide», dove si accenna alle «drammatiche fughe di tedeschi dalle zone orientali della Germania» che stavano «assumendo proporzioni sempre più grandi, tanto che non sarebbe ingiustificato pensare addirittura a un vero e proprio esodo». Si narra poi di «Contadini... in Paradiso!», dove il Paradiso sta ovviamente per l'Urss.

Il quotidiano bolognese di quei giorni portava ancora il titolo post-bellico di «Giornale dell'Emilia». Nel numero del 6 marzo 1953, venerdì, il titolo della prima pagina recita: «Stalin è morto alle 19.50 di ieri sera». Al posto della consueta cronaca della Romagna, quel numero presenta invece l'edizione bolognese.

Proviamo a sfogliare il foglio del giorno dopo, 7 marzo. Nello spazio interno dedicato a Rimini, spicca un articolo sui 110 anni dell'industria balneare. Soltanto l'8 marzo, domenica, la cronaca cittadina riporta qualcosa che ha relazione con l'evento. Si riferisce che, in apertura del Consiglio comunale, il consigliere di maggioranza avv. Veniero Accreman ha commemorato Giuseppe Stalin: «Si sono associati i gruppi di minoranza», dopo di che la seduta è rinviata (si terrà l'11 marzo).

Nel «Giornale dell'Emilia» del 9 marzo appare un'ampia cronaca da Mosca sui funerali di Stalin, mentre da Roma si parla della richiesta della fiducia sulla legge elettorale (la cosiddetta «legge truffa»).

Il periodico repubblicano riminese «Il Dovere» del 14 marzo presenta tra i «Pensierini a passeggio» un commento sui funerali di Stalin: «Onde onorare le spoglie del suo capo defunto, Togliatti si è recato in Russia e si è portato dietro Pietrino», cioè il socialista Pietro Nenni, che il foglio dell'Edera qualifica come «cameriere personale» del capo dei comunisti italiani. Nella stessa rubrica ci si lamenta che nei cinema vengano proiettati cortometraggi che sono «produzioni propagandistiche della religione cattolica e dei suoi annessi e connessi».

In un successivo numero, quello del 28 marzo, «Il Dovere» offre ai lettori una vignetta che illustra l'uscita dei prigionieri Ebrei da un campo di concentramento nazista, immediatamente avviati in quello sovietico dal guardiano (Stalin) che dice: «Prego, siete liberi». Il disegno appare a fianco di un articolo intitolato «L'antisemitismo sovietico trapiantato nei paesi d'oltre cortina». Nello stesso numero si parla del Partito comunista riminese come «lunga appendice di Mosca».

E gli stessi comunisti riminesi? Il loro settimanale «di lotta democratica», intitolato «Nuova voce», non è completo nell'emeroteca della Biblioteca Civica Gambalunga. C'è il numero del 14 luglio in cui si ricorda il quinto anniversario dell'attentato a Togliatti. Ce ne sono altri (come quello dell'11 dicembre dove si parla del «Carlino» come «voce del Padrone»), ma non abbiamo trovato nulla che tratti la scomparsa di Stalin.

Il cui nome non compare nemmeno nell'indice della storia della Federazione comunista riminese di Paolo Zaghini (1999), anche se la notizia della sua scomparsa è data quasi di sfuggita (p. 104) in un utile ma veloce sommarietto: la situazione interna del partito «richiedeva tutta l'attenzione del gruppo dirigente», dopo la morte di Stalin, l'avvento di Krusciov alla direzione del Pcus, il XX congresso a Mosca e la repressione in Ungheria «che creavano nei gruppi dirigenti locali, negli iscritti, interrogativi, dubbi, crisi di coscienza». Divisi a livello nazionale fra vecchio e nuovo (la cosiddetta «via italiana al socialismo»), i comunisti a Rimini parteggiano per la seconda corrente.

Nelle elezioni politiche del 7 giugno 1953 il Pci perde «il primato elettorale in città». Suo deputato eletto è Giuliano Paietta. Scrive Zaghini: «Le forze della sinistra considerarono i risultati elettorali una vittoria che aveva sconfitto il progetto democristiano della 'legge truffa'». Con la quale Dc, liberali e repubblicani avevano tentato di rendere stabile la maggioranza governativa, introducendo delle modifiche al sistema allora in vigore con il cosiddetto «premio» a chi aveva raccolto più seggi.

Il liberale Flavio Lombardini in un suo libretto, «Riminesi nel Parlamento italiano 1848-1972», lamenterà che Giuliano Paietta eletto nella seconda e nella terza legislatura, fosse di Torino.

Un altro veloce e generico accenno al nome di Stalin lo troviamo nelle pagine di Luigi Lotti contenute ne «La storia di Rimini dal 1800 ai nostri giorni» (vol. I): con la morte del dittatore sovietico, scrive, venne meno «il clima tesissimo della guerra fredda», per cui ci fu in Italia un «acuirsi dei contrasti sui programmi sociali della coalizione prima sopiti dalla minaccia ora cessata ai valori della democrazia rappresentativa».

Come dice un comico che furoreggia in tivù in queste settimane, «il resto è nebbia». Verrebbe voglia di aggiungere «comoda nebbia» per non fare i conti con la Grande Storia in cui anche quella Piccola (di una città) è sempre calata.

Voce controcorrente è quella di Giuliano Ghirardelli che nel recente libro sul Borgo San Giuliano (curato con M. Pasquinelli e D. Spadoni) racconta: nel dopoguerra vi «si parlava l'unico linguaggio della riscossa, quello basato sull'azione. Poche chiacchiere. I fatti ci volevano».

Il Pci lentamente perde la sua sacralità: «Lo si criticava sempre più spesso: i dirigenti si erano 'imborghesiti' - allora si usava dire così - e a forza di gestire il potere nelle varie amministrazioni il clientelismo e la corruzione avevano attecchito anche fra di loro». Accadde anche questo: «Qualche assessore di origine proletaria, si era improvvisamente costruito un albergo [...]. E poi, era troppo evidente: 'non sono più dei rivoluzionari'», dicevano nelle strette strade del Borgo.

Immaginiamo che lì girasse anche questo pensiero dominante: «Tatarcord Stalìn?».

Pietro Corsi

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756/22.02.2003