Riministoria© Antonio Montanari

 Antonio Montanari

Nei "ripostigli della buona Filosofia"

Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII

 

Nel 1781 il riminese Aurelio De’ Giorgi Bertòla (1753-98) pubblica l’Elogio di Don Giacinto Martinelli, un padre olivetano suo concittadino scomparso l’anno precedente. Lo scritto esce a Napoli, dove dal 1776 Bertòla insegna Storia e Geografia all’Accademia navale. Attraverso la celebrazione dello scomparso, l’autore ricostruisce le difficoltà incontrate dal nuovo pensiero scientifico nella sua diffusione in Italia.

Bertòla si trova in una particolare condizione psicologica ed intellettuale: già nel 1779, anno in cui licenziava alle stampe le Poesie campestri e marittime, ha confidato al filosofo ed abate Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-92): "Oggi sono in uno stato, che mi nuoce esser poeta" (1). Bertòla a Napoli scopre che dagli hommes de plume si richiede un impegno diverso rispetto al semplice produrre versi encomiastici o d’amore: alla sua generazione appartiene Gaetano Filangieri che a partire dal 1780 pubblica la Scienza della legislazione, mentre il filosofo "civile" Antonio Genovesi ed il teorico di Economia politica Ferdinando Galiani hanno già affrontato, con l’insegnamento e mediante gli scritti, i temi esaminati in parallelo dalla grande cultura che si stava sviluppando in Europa (2).

Di Amaduzzi, un savignanese trapiantato a Roma, Bertòla conosce certamente i due primi "discorsi filosofici" (3), Sul fine ed utilità dell'Accademie (1777) e La Filosofia alleata della Religione (1778), in cui si affermano i diritti che il pensiero ha d’"interrogare la natura per via delle esperienze, e delle osservazioni" (4), senza scontrarsi con i presupposti della Fede, anzi rafforzandoli e depurandoli dalle false credenze.

L’Elogio di padre Martinelli è dedicato a monsignor Giuseppe Garampi (1725-92), "Nunzio Apostolico all’Imperiale Corte di Vienna", presso il quale due anni dopo Bertòla si rifugia, ottenendone una protezione che gli procura l’insegnamento di Storia all’ateneo di Pavia. Ed è proprio qui che, nel corso delle sue lezioni, Bertòla cerca di affinare nuovi strumenti metodologici, elaborando un testo innovativo nei presupposti e nel titolo, La Filosofia della Storia (1787), ma dall’architettura contorta e dallo stile infelice, tutto opposto a quello consueto che troviamo negli altri suoi scritti.

Nell’Elogio Bertòla proietta l’ansia di conoscenza che caratterizza la sua esperienza personale, e che lo porta a segnalare con particolare attenzione gli ostacoli frapposti allo studio degli autori nei quali si annunciavano idee contrarie alle "ciarlatanerie peripatetiche" ed ai "sogni cartesiani" [p. 7].

Queste espressioni usate da Bertòla in un passo dell’Elogio, richiamano in maniera diretta il discorso amaduzziano sulle Accademie, dove leggiamo: "All’apparire sul ricco Tamigi del gran Newton […] veggio sparire, non che le larve aristoteliche, gli stessi sognati turbiglioni di Cartesio" [pp. 19-20]. Il nome di Newton appare nel testo di Bertòla quando ricorda che la formazione giovanile di Giacinto Martinelli era avvenuta anche attraverso le letture filosofiche, con il suo "trattenersi con Condillac, e con Newton".

Ciò premesso, Bertòla denuncia quindi lo stato di arretratezza della "più parte delle case religiose d’Italia", dove avevano il "migliore asilo" le "ciarlatanerie peripatetiche" ed i "sogni cartesiani". L’accenno acquista un particolare significato di testimonianza diretta, se consideriamo che lui stesso, in una di queste "case", era stato avviato a forza a soli quindici anni. A diciassette Bertòla aveva pronunciato i voti da Olivetano, costretto dalla prepotenza del fratellastro, e senza che vi si potesse opporre la madre che più tardi invano si sarebbe pentita del proprio agire. Egli quindi conosceva bene gli ambienti che mette sotto accusa. Una frase tra parentesi (che appare retoricamente importante, ma che in sostanza si rivela come pleonastica conferma al suo discorso), dice: "la verità è dura, ma pur troppo incontrastabile" [pp. 7-8]. Segue un’aggiunta relativa al proprio Ordine: "Le Scuole della mia Congregazione languivano nella stessa barbarie" [p. 8].

In nota a questo passaggio, Bertòla ricorda che a "riformare" le Scuole olivetane provvidero poi un padre docente di Matematica, Ramiro Rampinelli bresciano e l’abate don Luigi Stampa per il quale Bertòla due anni dopo, nel 1783, scriverà un analogo Elogio (5), dal quale riprendo una breve citazione, pertinente all’argomento. Luigi Stampa non si mostrò "in alcuna maniera nemico, come tanti altri fanno, delle scienze profane che non professava": egli anzi era "persuasissimo della necessità indispensabile, che delle matematiche ha la Filosofia; e ben lontano dal disprezzarle, le riguardò sempre, anche dalla Filosofia prescindendo, come la scienza più atta a fortificar negli spiriti il prezioso e purtroppo raro abito della dimostrazione, e come il miglior corso di logica, che alla gioventù possa darsi" [p. 10].

Ritorniamo a Giacinto Martinelli: avendo egli deciso di insegnare, "incominciò a far parte altrui delle dottrine, che disgraziatamente avea dovuto venerare sulla bocca dei suoi maestri. Non andò guari, però, che il suo buon senso naturale, la lettura d’ottimi libri, e l’esempio di un qualche più ardito congiurato, il determinarono a scuotere il giogo dei vecchi errori" [p. 9]. Martinelli stava appena "penetrando nei profondi ripostigli della buona Filosofia", quando "venne indietro richiamato in vigore di quel gotico pregiudizio delle Scuole, la cui distruzione darebbe luogo all’intero sviluppo degl’ingegni, e risparmierebbe tante fatiche, che in recar vantaggio ad un solo, caricano cento di danno, e di noja; di quel pregiudizio, il qual comanda, che il tempo governi da tiranno il corso degli studj; quando questi esser debbono i dispotici regolatori del tempo" [ibid.].

Sia in queste parole sia in quelle che leggiamo nel brano seguente, le notizie relative a Martinelli esposte da Bertòla passano attraverso un filtro autobiografico, sul quale si depositano preziosi frammenti di amara confessione: "Trovavasi egli appunto nella gagliardia della esercitata sua mente, e in quell’età, in cui la nostra ragione incomincia ahi! tardi ad essere più forte della nostra fantasia; in cui quasi senza influsso della nostra volontà, fassi così grande riforma della nostra maniera d’intendere e di sentire; e in cui siamo, generalmente parlando, più illuminati, ma non più felici" [p. 10].

Con la sincerità ingenua di chi crede possibile confessare pubblicamente la propria condizione di disagio quasi per farsi perdonare le molte colpe e licenze compiute, Bertòla annuncia con sottile intendimento aspetti di una sensibilità diversa rispetto a quella della generazione che l’ha preceduto. Avvertendo il lettore che, ad una certa stagione della vita, siamo "più illuminati, ma non più felici", sembra obbligarlo a chiedersi quale ruolo possa ancora essere riservato allo studio filosofico, capace di aprire le menti, ma non di sanare le angosce dei cuori. Il contesto personale così descritto assume un significato più generale, diventa simbolo di una condizione umana, non soltanto destinata a ripetersi nelle singole esperienze individuali, ma pure a proiettarsi vichianamente lungo l’arco della storia della società, quasi che per gli intellettuali come Bertòla l’età della ragione sia una tappa ormai raggiunta e superata, con la denuncia di quei limiti (da non intendersi kantianamente) che impediscono il raggiungimento di un traguardo il quale sfugge continuamente all’uomo, il traguardo della felicità: la quale non consiste nel conoscere, perché il filosofo soffre a causa del suo stesso sapere, avvertendolo come inadeguato strumento od inutile conquista.

Per drammatica consapevolezza del vivere, il Bertòla che guarda ai percorsi fino a lui compiuti dalle menti ‘illuminate’, non può ignorare che alla ragione trionfante sugli inquieti appelli della fantasia, non può attribuirsi nessuna palma di vittoria, perché dal punto di vista della fenomenologia esistenziale essa comporta una sconfitta di quella volontà in cui illusoriamente si confida, credendo di poter con essa dirigere la propria vita. Agli entusiasmi dei filosofi, Bertòla oppone una disincantata concezione psicologica in cui sembra compendiarsi quella sensibilità diversa di cui dicevo, testimoniata dai mutamenti teoretici che avvengono in lui e dagli esiti poetici come quelli della canzone La malinconia, che presenta, come è stato scritto, "tutta una serie di implicanze leopardiane" (6).

Risalendo da queste "implicanze" alla loro genesi, si scopre l’innovativo connubio che l’analisi filosofica e l’espressione letteraria operano nel riminese, anticipando temi e prospettive che l’autore dei Canti sviluppa nella generazione successiva (il destino volle che Giacomo Leopardi nascesse il 29 giugno 1798, il giorno prima della morte di Aurelio Bertòla), con ovviamente un diverso bagaglio di idee e con una del tutto inedita consapevolezza del legame che unisce la poesia alla riflessione in prosa che ne anticipa proposte e risposte.

Sul piano teoretico, l’itinerario di Bertòla modifica lentamente le certezze classificatorie che impregnano tutta la Filosofia della Storia, ed a cui subentrano le domande sempre più aperte ad una soluzione problematica, cioè improntata alla consapevolezza che non esiste alcun determinismo nelle vicende umane, per le quali non valgono quei rapporti di causa ed effetto che invece dominano le questioni naturali.

Nell’ultimo articolo che Bertòla compone per le Letture istruttive per il popolo dell’Emilia, e che doveva apparire (7) nel numero del 30 giugno 1798, giorno della sua morte, egli infatti scrive: non è "vano osservare" come "dagli stessi principj" possano "derivare talvolta conseguenze differentissime; come queste stesse conseguenze finanche sembrino non di rado essere una cagione; come degli avvenimenti contrarj sieno l’effetto degli stessi assiomi; come s’incontrino da per tutto eccezioni, riserve, modificazioni; e come la verità sembri voler più fuggire chi più qui l’insegue".

Nell’Elogio dell’olivetano riminese, Bertòla scrive anche [p. 9] che non fu "così duro colpo al Martinelli il distaccarsi dalle filosofiche applicazioni", e di avviarsi per volontà dei Superiori allo Studio milanese di Teologia. Siamo nel 1740, Martinelli non ha ancora compiuto trent’anni (8). La precisazione cronologica colloca il dibattito filosofico e scientifico in un preciso momento, quando ad esempio a Ginevra esce in quattro tomi l’opera di Isaac Newton, Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica, con commento dei padri Minimi Tommaso Le Seur e Francesco Jacquier (9).

Questo volume è attestato nella Gambalunghiana di Rimini (10) sin dalla seconda metà del sec. XVIII, come documenta il catalogo (11) attribuito a Bernardino Brunelli (12), bibliotecario dal 1748 al 1767. Probabilmente l’opera di Newton vi è entrata quasi subito dopo la sua pubblicazione, nel periodo in cui in Gambalunghiana lavoravano il contino Giuseppe Garampi ed il chierico Stefano Galli, come ho documentato su questa rivista: proprio Galli nel 1744 fu incaricato dal direttore della pubblica "Libreria", conte Lodovico Bianchelli, di aggiornarne la dotazione "con i più importanti titoli usciti nel corso dell’ultimo mezzo secolo" (13). A Bianchelli subentra Bernardino Brunelli (14), dopo una brevissima parentesi di Stefano Galli come "custode principale per modo di provisione" (15). Anche Bernardino Brunelli fa provviste di volumi all’estero, "specialmente dalla Germania, e dall’Olanda" (16). Quindi l’ingresso dell’opera di Newton potrebbe essere pure avvenuta durante la sua gestione gambalunghiana (17).

Il nome di Newton ricorre anche in un’altra importante biblioteca riminese del XVIII secolo, quella privata (18) del medico e scienziato Giovanni Bianchi (1693-1775), dove troviamo l’Arithmetica universalis in un’edizione tedesca del 1732; la Chronologie des anciens royames, Parigi 1727; e l’Abregé de la Chronologie des anciens royames (19), Ginevra 1743. L’altro autore ricordato da Bertòla nell’Elogio di padre Martinelli, l’abate Étienne Bonnot de Condillac, è invece (significativamente) assente nella biblioteca di Bianchi, mentre nella "Libreria" Gambalunghiana appare soltanto verso la fine del secolo, con l’edizione romana del 1784 del Saggio sopra la conoscenza (1746), contenente però il commento di un Canonico regolare lateranense, Tommaso Vincenzo Falletti (segn. 13.D.IX.74-75). Anche nel successivo Traité des sensations (1754), Condillac prosegue il discorso avviato da John Locke con il Saggio sull'intelligenza umana. (Sull’importanza di Locke, accennerò qualcosa tra breve.)

Giovanni Bianchi, conosciuto anche come Iano Planco (20), proprio a metà degli anni Quaranta avvia a Rimini un progetto culturale secondo cui, alla rifondazione dell’Accademia dei Lincei avvenuta nel ’45, doveva seguire (il che però non accadde), l’impianto di una stamperia con iniziative editoriali sotto l’insegna della Lince (21). Anche Bianchi, come Martinelli, vive in prima persona le difficoltà che la diffusione delle novità filosofiche incontra presso gli ambienti ecclesiastici non soltanto nel periodo di attività dell’Accademia dei Lincei (su cui tornerò tra breve), ma pure in quello iniziale della sua formazione intellettuale, sul quale occorre anzitutto soffermarsi.

Siamo nel primo decennio del 1700 (Planco, come s’è visto, è nato nel 1693): i principali centri di cultura riminesi sono l’antico convento domenicano di San Cataldo, la scuola dei Gesuiti, e l’Accademia ecclesiastica istituita dal bolognese Giovanni Antonio Davìa, vescovo della città dal 1698 al 1726, nominato cardinale da Clemente XI nel 1712.

Davìa nel 1722 avversa la diffusione del Saggio di Locke, con molto anticipo sulla condanna romana del 1734, giudicando quel filosofo "cento volte più pericoloso del Machiavelli" (22). La sua posizione ‘riminese’ contro Locke sembra preannunciare profeticamente l’incarico che in anni successivi lo porterà a presiedere la Congregazione dell’Indice (23). Un sostenitore del pensiero di Locke è invece l’abate Amaduzzi che vi si riallaccia nel terzo ed ultimo dei suoi "discorsi filosofici", intitolato Dell'indole della verità e delle opinioni, 1786. Protagonista non sempre riconosciuto della scena religiosa e culturale della fine del secolo XVIII, per il ruolo svolto tra i cosiddetti giansenisti italiani, Amaduzzi con questi "discorsi filosofici" si fa portavoce delle istanze del nuovo pensiero scientifico, incontrando pericolose opposizioni, e subendo violenti attacchi da cui lo salva il suo essere romagnolo come il pontefice di allora, il cesenate Pio VI.

Nel primo decennio del 1700, sia presso i Domenicani sia presso i Gesuiti, lo studio della Filosofia è improntato ai canoni dell’aristotelismo. Un biografo di Planco, il suo allievo don Giovanni Paolo Giovenardi, descrive nell’Orazion Funerale in lode del proprio maestro, il clima esistente nelle "Peripatetiche Scuole" agli inizi del secolo: in esse non altro si ritrovava "che dottrine assai volgari, termini barbari, e minutezze ridicolose, ed atte piuttosto ad accrescere, che a dissipare la caligine dell'ignoranza, ed a confondere, che ad illuminare le menti, e a nausearle piuttosto che ad invogliarle ad amar la Sapienza". Giovenardi definisce quelle dottrine non soltanto volgari, ma anche "inutili".

Da esse rifugge Planco per avviarsi allo studio della "buona Filosofia" e degli autori che apparivano (dice Giovenardi), quali "principali Liberatori, e distruttori del grave giogo dell'Arabica, e della galenica barbarie" (24). Siamo esattamente nel 1711. Planco ha diciotto anni. Sette anni prima, ha abbandonato le "Lojolitiche scuole" per non perder tempo nel seguire il normale corso degli studi nella lingua latina, che per lui (enfant prodige), era troppo lento. Si è così messo a studiar greco, "senz'altra guida che quella di se stesso" (25).

Dall’aristotelismo si distacca nettamente invece l’insegnamento impartito da mons. Antonio Leprotti, medico personale di Giovanni Antonio Davìa, e docente di Filosofia al Seminario riminese: in quanto tale, Leprotti fa parte di quell’Accademia vescovile cittadina, della quale Planco diventa segretario. E’ Leprotti (che sarà poi anche archiatro pontificio), a convincere Planco a frequentare la facoltà di "Medicina e Filosofia".

L’ostilità della gerarchia ecclesiastica verso il nuovo pensiero scientifico è ricordata da Planco nell’autobiografia latina (26), quando scrive che ad un padre dei Minimi riminesi, Giovanni Bernardo Calabro, fu imposto dal suo Generale di allontanarsi dai "giardini di Epicuro" (27) e di passare nell’"accampamento dei Peripatetici". Nell’Autobiografia di Vico, leggiamo che, già sul finire del ’600, "si era cominciata a coltivare la filosofia d’Epicuro sopra Pier Gassendi". L’espressione usata da Vico rimanda al De vita et moribus Epicuri, testo contenuto nell'Opera omnia di Gassendi (tomo v, libro x), della quale ho trovato elencate, nel catalogo Gambetti alla Gambalunghiana, due edizioni in sei tomi ciascuna, del 1658 e del 1727. Planco possedeva quella del 1727 (28)

All’inizio dell’autobiografia latina, Planco ricorda di essere stato un autodidatta nello studio delle Lettere, al pari di Gargettio. Costui altri non è che il medesimo Epicuro, così detto dal demo di origine, come si legge nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (29). La citazione del soprannome di Epicuro appare riservata agli eruditi a cui voleva rivolgersi Giovanni Lami, editore dell’autobiografia planchiana, secondo lo spirito colto di uno stile ‘alto’ che condiziona la tessitura della pagina di Bianchi, quando si tratta di identificare la sua esperienza personale con quella di un personaggio del passato, illustre ma scomodo come poteva essere il maestro del Giardino. In Planco forse agivano pure timori di censure o di peggio, giustificabili alla luce delle persecuzioni napoletane (1691-93) contro i pensatori che si erano richiamati a Democrito ed Epicuro (30).

Davanti allo scontro tra l’aristotelismo interpretato in una chiave esclusivamente dogmatica, e la ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi, Planco sposa la causa delle innovazioni introdotte dalla fisica di quest’ultimo (31), assumendo una posizione eretica, della quale non dovettero successivamente dimenticarsi, come vedremo, i suoi avversari in campo ecclesiastico. Ma l’opposizione tra la cultura peripatetica e la Nuova Scienza torna pure, in maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con tutto il senso di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee elaborate da Bianchi e contenute nel Codex accademico (32), laddove si sostiene che "niente è migliore e più utile che diligentemente indagare su quanto, per un dato argomento, hanno espresso i dottissimi filosofi e gli uomini eruditissimi: tuttavia, ai loro pareri, e l’investigazione della stessa natura, e le proprie osservazioni, e il confronto su tutte le cose, e l’uso di discutere singolarmente su quella parte che sia più vera, aggiungano anche il [nostro] giudizio". Dunque: prima vengono i pareri dei "dottissimi filosofi", poi "l’investigazione della stessa natura". Si accantona così, nella maniera più semplice, il metodo della "sensata esperienza", originando un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui si parla nelle leggi accademiche è più tolemaico che copernicano; più incatenato all’ipse dixit del moderno aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.

Per Planco ciò significa conflitto tra la sua funzione di scienziato (che, in quanto tale, deve attribuire all’osservazione diretta un primato assoluto), e quella di reggitore di un’Accademia la quale, come detta la sua prima legge, deve essere "aristocratica" (33). Dietro questa enunciazione c’è un particolare modo di intendere la cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale gode del privilegio di sentenziare soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed indipendentemente dalla validità scientifica dei risultati a cui perviene, intesa quest’ultima secondo i canoni galileiani (34).

A tali canoni si richiamò Bertòla quando, scrivendo un polemico necrologio per Planco (35), sottolineò che questi era stato "osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta". Bertòla, accusato (36) di essere caduto, scrivendo quelle parole, in una "contraddizione chiara, e madornale ma compatibile in un Giovane Scrittore" ed in "un Poeta pasciuto di notturni sogni" (37), fu difeso da chi (38) rincarò la dose contro lo scienziato riminese:

In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli esperimenti, poiché egli amava per carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con infelice successo.

Bertòla non era stato educato alla scuola di Planco, ma da un allievo del medico riminese, Francesco Maria Pasini che nel 1745 è accademico dei restaurati Lincei (39) e poi vescovo di Todi (40). L’esperienza umana del poeta riminese, così scandalosa e moralmente dissipata (come si diceva un tempo), c’insegna a non partire dalle resultanze della vita degli allievi, per valutare l’attività pedagogica di un maestro. La natura individuale, e le vicende delle singole persone sono elementi troppo forti e complessi per ritenerli passibili di condizionamento durante l’apprendistato educativo presso una qualsiasi scuola.

Se la condotta di Bertòla offre una solenne smentita a chi ritiene che un buon ammaestramento possa fornire gli strumenti necessari ad una corretta navigazione esistenziale; la vicenda storica più generale dimostra che qualsiasi muraglia si eriga contro le idee nuove, non basta a fermarle ed a respingerle. Gli "accampamenti dei Peripatetici" potevano esser ben fortificati e minacciosamente difesi, ma alla fine erano destinati ad essere travolti dall’impeto che il rinnovamento della cultura provocava in àmbito filosofico e scientifico. Di questo non erano ovviamente consapevoli quanti, adoprandosi contro Epicuro o Newton, credevano di salvaguardare la purezza del pensiero dalle contaminazioni antiche o moderne, ricorrendo a censure o scomuniche.

Alla scuola domestica di Planco, a partire dal 1720, troviamo allievi illustri, oltre al già citato Amaduzzi: basti ricordare Giovanni Vincenzo Ganganelli (papa Clemente XIV, che soppresse la Compagnia di Gesù nel 1773), il futuro cardinal Giuseppe Garampi, ed il naturalista Giovanni Antonio Battarra (1714-89). Gli allievi (41) studiano come materia obbligatoria e comune Medicina, poi Logica, Geometria e Lingua greca. "La nostra setta", chiama questa scuola uno di loro. Un altro parla di "Bianchisti", con l’orgoglio di appartenere ad una comunità eletta, sul modello degli antichi circoli filosofici. Da fuori, accusano la "scuola di Rimino", di segnare le proprie pagine con "velenoso inchiostro" (42).

Preziosa testimonianza dell’attività didattica che vi si svolgeva, sono i sette compiti, assegnati da Planco e svolti da Amaduzzi (43) nel periodo 1755-59 (la sua frequenza durò per altri tre anni). Relativi alla Filosofia e alla Scienza, essi propongono questi argomenti: l’impossibilità di difendere il sistema tolemaico; la funzione della logica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica; gli spiriti degli animali bruti; la sede nel cervello degli affetti dell’animo; i nervi dell’udito; la digestione.

Se si confrontano i titoli di questi compiti assegnati da Planco, con gli argomenti affrontati negli stessi anni su periodici e libri scientifici, Bianchi si rivela più come un vecchio umanista che un nuovo filosofo dell’età dei Lumi. Planco appare su posizioni incerte ed arretrate. Costringere gli allievi a spiegare che il sistema tolemaico non poteva essere difeso "nulla ratione", a oltre due secoli dall’opera di Copernico, significava discutere di argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza percorreva le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi argomenti da lui studiati quand’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna. Nella terminologia usata in quei temi, ci sono talora ricordi cartesiani, come là dove si parla di "spiriti animali" (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri argomenti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in direzione opposta, negando le tesi di Descartes.

Amaduzzi, nel già ricordato terzo "discorso filosofico", Dell’indole della verità e delle opinioni (p. 51), si ricorda dei difetti e dei limiti filosofici della scuola planchiana, quando polemizza con l’antico maestro, quasi a volere insinuare che Bianchi nulla avesse compreso delle teorie di Newton.

L’insegnamento di Planco venne considerato pericoloso non tanto per le polemiche più o meno futili sul sistema tolemaico o per le discussioni sulla sede degli affetti, bensì per l’importanza attribuita all’Anatomia, di cui Bianchi è docente all’università di Siena dal 1741 al ’44.

Egli considera l’Anatomia "come il fondamento della Filosofia naturale, siccome lo è per certo della Medicina e della Cirurgia", secondo quanto leggiamo in un prologo accademico (44) del 1751, in cui spiega di aver ‘restituito’ i Lincei con lo scopo di "promuovere l’accrescimento dello studio della Scienza e delle belle Arti, non escludendo le cose ancora di sola Erudizione", appartenenti alla Letteratura greca e latina. Aggiunge Bianchi che con "dispiacere" deve segnalare che l’Anatomia "insieme con altri buoni studj, non è in quel grado avuta, che una tanta cosa si dovrebbe avere, essendovi chi per una cosa schifosa, e semplicemente curiosa, e di niun’utile la tengano, e chi altre strane opinioni d’essa hanno, che qui non fa luogo a rammentare, ma che danno bensì un grandissimo argomento della Barbarie di quei, che le portano".

In genere, nei confronti dell’Anatomia, si manifesta allora una sostanziale ostilità per motivi diversi e convergenti nello stesso tempo, bene spiegati da Elena Brambilla (45) in una pagina dove si fanno varie osservazioni fondamentali tra le quali ne scelgo due attinenti al nostro tema: la pratica dell’Anatomia "vedeva scontrarsi, sul cadavere, la competenza del medico con quella del prete, il rito funebre contrastare il passo all’autopsia" (46); inoltre, "su quello stesso cadavere la teoria poteva essere smentita dalla pratica, e il paradigma medico, con le sue radici filosofico-teologiche nell’invisibile, essere confutato dall’osservazione visibile".

Quest’ultimo aspetto ci interessa particolarmente, perché ci permette di cogliere tutta la forza rivoluzionaria che la pratica anatomica porta con sé. Essa infatti rovescia la metodica delle conoscenze: non si parte più dalla pagina scritta per applicare al caso esaminato le indicazioni teoriche consacrate dalla tradizione, ma con l’osservazione diretta attuata mediante la dissezione del cadavere, si inizia il procedimento che vuole concludersi nella descrizione di un rapporto causa-effetto. In tal modo, si demolisce il castello dell’ortodossia scolastico-aristotelica, affermando, come osserva Elena Brambilla, la necessità di una nuova "base filosofica della medicina pratica", e propugnando una "emancipazione delle scienze fisiche dalla teologia" (47).

Postosi con la propria scuola domestica in diretta concorrenza con le istituzioni culturali ecclesiastiche, indirizzando gli studi soprattutto verso questi orizzonti laici, Planco ben presto si scontra con il mondo religioso riminese.

Il 28 febbraio 1749 Bianchi legge ai Lincei l’epistola De monstris ac monstrosis quibusdam (48), indirizzata a monsignor Giuseppe Pozzi, di Bologna, archiatro pontificio straordinario e presidente dell’Accademia dell’Istituto delle Scienze di quella città. In essa è affrontata una questione che sta alla base della problematica trattata da Bianchi, cioè il concetto di Natura così come emerge attraverso il sistema della classificazione scientifica da lui usato.

I mostri, scrive, si possono dividere in tre specie. Alla prima appartengono quelli che "in Utero Animantium oriuntur ictu vel casu quodam alio". Alla seconda, quelli che derivano "ex conformatione naturali, sive ex plastica quadam vi naturæ, sive a natura ipsa ludente". Questi mostri (come spiegano le Novelle letterarie forse per mano dello stesso Bianchi, n. 30, 25 luglio 1749, coll. 477-480), sono "prodotti nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli sviluppi; oppure che una qualche virtù plastica abbia prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si trovano ne’ Mostri", che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o viscere in più. Infine, nella terza specie, incontriamo quelli che nascono "ex morbo in Animantibus".

Bianchi dimostra così che la perfezione dell’ordine naturale (fatto coincidere dalla vecchia Filosofia con il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà), è smentita dai fenomeni mostruosi. Alla regola si accompagna sempre l’eccezione, tanto evidente da non potere essere negata per nessuna via. Questo scritto, che documenta la già ricordata scelta eretica di Bianchi a favore della fisica di Gassendi, fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali non dovettero essere estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi. La fretta con cui si giungerà, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per l’Arte comica, non può spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in essa trattato, un tema allora importante, tanto da essere al centro di durissime polemiche.

La sera dell’11 febbraio 1752, ultimo venerdì di Carnovale, la cantatrice romana Antonia Cavallucci si esibisce nella casa di Bianchi, prima che questi reciti una dissertazione lincea In lode dell’Arte comica. A causa dello spettacolo, la Cavallucci è costretta ad andarsene in tutta fretta da Rimini, mentre in città nasce un pubblico scandalo contro Planco. Il vescovo Alessandro Guiccioli lo denuncia a Roma, da dove un corrispondente di Bianchi, Giuseppe Giovanardi Bufferli, gli comunica che in quella città, contro di lui, si erano fatte "illustrissime e reverendissime insolenze" (49).

L’Artecomica è stampata nel marzo dello stesso 1752 a Venezia. Il padre domenicano Daniele Concina aggiunge in tutta fretta al De spectaculis theatralibus, in fase di stampa, un’isterica pagina contro Bianchi: lo accusa di aver scritto da pazzo quel discorso; e bolla come leziosa puttanella ("putidula meretricula") Antonia Cavallucci, al pari di tutte le sue colleghe, capaci soltanto di rovinare le famiglie nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperano per tali donnacce il patrimonio economico, la salute del corpo e quella dell’anima (50). La campagna di diffamazione promossa dal vescovo di Rimini contro Bianchi, coinvolge pure la Cavallucci, perseguitata prima a Bologna e poi a Ravenna, dove si trasferisce all’inizio di maggio, e la fa precipitare nella miseria più umiliante.

Il discorso di Carnovale gira in fretta l’Italia, fino a che approda a Roma, alla Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Nella sua dissertazione, Planco s’avventura in un terreno pericoloso. Con elegante sottigliezza rimette in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli "istrioni", che in Francia erano ancora privati dalle leggi canoniche "fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura". E cita san Tommaso, il quale ritiene che "l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro fatiche". Bianchi si domanda: se la Chiesa permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio, non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati "infami" quei comici che "le rappresentano venalmente", mentre "diventano onesti quei che le rappresentano gratis"? Da queste idee nasce il vero scandalo che avvolge la radunanza accademica di Carnovale, non dall’esibizione di Antonia Cavallucci. Sostenendo retoricamente la nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso il bisogno di libertà per la cultura in genere, e non soltanto per commedianti od attricette in particolare. E’ quella stessa libertà che faceva paura a padre Concina, il quale immaginava che il discorso planchiano potesse essere golosamente divorato da giovanetti e damigelle, portandoli così sulla strada della perdizione.

I fulmini dell’Indice si abbattono su Bianchi il 4 luglio 1752. La procedura seguìta non è quella regolare. Si è fatto tutto in fretta. Comunque la condanna all’Indice non ha conseguenze nella successiva carriera pubblica di Bianchi, se nel 1755 egli è nominato Consultore dell’Inquisizione e Medico del Sant’Uffizio, prima di diventare nel 1769 "Archiatro Segreto Onorario", per volere di papa Ganganelli, Clemente XIV. (Nella stessa carica di Archiatro lo conferma Pio VI.)

Planco muore il 3 dicembre 1775. Il vescovo della città, Francesco Castellini, vuole ostacolare la pubblicazione dell’Orazion funerale (scritta, come abbiamo visto, da Giovanni Paolo Giovenardi), che Bianchi aveva richiesto nel testamento. Delle difficoltà incontrate parla lo stesso Giovenardi in due lettere inedite al nipote di Planco, Girolamo Bianchi, medico dell’ospedale di Rimini: in caso di edizione del testo, era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi "la privazione dell’Ospitale dal vescovo", come si vociferava autorevolmente (51). Giovenardi poi suggeriva a Girolamo Bianchi di restare estraneo alla distribuzione dell’opuscolo, "per isfuggire qualunque odiosa taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla quale potesse pensare il vescovo contro" di lui (52).

Pure dopo la sua morte, Planco faceva ancora paura per le idee scientifiche che aveva professato, anche se era stato sepolto nella chiesa di Sant’Agostino.

 

NOTE

1 Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Il Ponte, Rimini 1998, p. 43.

2 Di Galiani, nel 1774 Diderot cura la traduzione francese dei Dialoghi sul commercio dei grani.

3 Del terzo "discorso" dirò infra.

4 Cfr. Sul fine ed utilità dell'Accademie, Livorno 1777, pp.17-18.

5 Cito dalla seconda ed. apparsa a Bologna nello stesso 1783.

6 Cfr. la nota di G. Savoca in G. Leopardi, Crestomazia italiana, La poesia, Einaudi, Torino 1968, p. 582. Lo stesso Savoca nell’introduzione (pp. XXVI-XXVII), ricorda un debito leopardiano verso il Bertòla a proposito di un pensiero del 15 aprile 1828; e scrive che per il poeta di Recanati i volumi del riminese furono "diletti".

7 Il ms. è in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, ad vocem.

8 Giacinto Martinelli era nato il 30 marzo 1711. Cfr. p. G. F. Fiori, Introduzione a Giacinto Martinelli, Memorie del Monastero Olivetano di S. Maria Annunciata Nuova di Scolca, Ferrara 1986, pp. 3-5. L’originale di queste Memorie del p. Martinelli è in Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR], SC-MS. 1172. Nel 1755 il p. Martinelli è nominato abate a San Benedetto di Roncofreddo, e nel ’58 a Santa Maria di Scolca, a Rimini.

9 Costoro hanno, nella storia di Rimini, un preciso ricordo perché vi scendono nell’autunno del 1766 su invito della Municipalità allo scopo di studiare la situazione del porto canale, al centro di annose, animate (ed ormai celebri) dispute. Gerolamo Bianchi, nipote di Giovanni Bianchi di cui dirò in seguito, li contatta per verificare se stavano dalla parte dell’illustre zio, al quale il 30 ottobre di quell’anno scrive che nulla era riuscito ad apprendere circa il loro "sentimento". Il successivo 25 novembre, aggiunge: "Del Parere de P.P. Minimi sopra il nostro Porto v’è altissimo silenzio, onde nepur io sò cosa alcuna".

10 Cfr. BGR, segn. BQ 293-296.

11 Nel Bibliothecae Ariminensis Gambalonghiae Catalogus, SC-IC. 38, alla voce Newtonus, Isaacus, è dedicato lo spazio per un solo titolo. All’esame odierno del ms. si rileva che alla scritta originaria (non decifrabile), ne è stata sostituita un’altra che reca: Principia Philosophiae, cioè il Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (BQ 293-296). A questo titolo, successivamente ne sono stati aggiunti altri due, nell’interlinea del testo: il Traité d’Optique e l’Abregé de la Chronologie (des ancies Royames…), su cui vedi alla nota 19.

12 Cfr. La Biblioteca Civica Gambalunga. L’edificio, la storia, le raccolte, a cura di P. Meldini, Rimini 2000, p. 32.

13 Cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla "Libreria Gambalunga". Documenti inediti, "Romagna arte e storia", n. 49/1997, p. 57.

14 A Bernardino succederà il figlio Epifanio che assieme ai due fratelli dottor Giovanni Battista e canonico don Giulio Cesare, ha collaborato con il padre durante la di lui direzione: cfr. fasc. 271 del Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi Giovanni, [FGMB]. Su Epifanio Brunelli, cfr. A. Montanari, Lettori di provincia nel Settecento romagnolo. Giovanni Bianchi (Iano Planco) e la diffusione delle Novelle letterarie fiorentine. Documenti inediti, "Studi Romagnoli 2000", di prossima pubblicazione.

15 Di quest’attività di Galli ho dato per primo notizia nel cit. Il contino Garampi.

16 Così si legge in uno scritto di Giovanni Bianchi, con parere favorevole a che il figlio prenda il posto del padre alla Gambalunghiana: cfr. il cit. fasc. 271, FGMB.

17 Cfr. Montanari, Il contino Garampi, cit., p. 71.

18 Cfr. BGR, SC-MS. 1352, c. 137r.

19 Quest’ultimo titolo, ai nostri giorni, è in Gambalunghiana in due esemplari, uno dei quali (segn. 7.F.V.27, provenienza: "Lascito Tonini"), reca sulla costa il titolo con grafia inequivocabilmente attribuibile allo stesso Bianchi. L’Abregé, come indica il titolo stesso, non è opera di Newton: si tratta di un testo di un autore inglese (tale Reid) che riassume la Chronologie des anciens royames, e che è tradotto da Antoine Butini, studente di Medicina, il quale dedica il suo lavoro a "Monsieur Tronchin, celebre Docteur en Médicine à Amsterdam". E’ noto che la professione di Bianchi era quella di medico.

20 Su G. Bianchi, cfr. A. Montanari, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), "Studi Romagnoli" XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299; Id., La Spetiaria del Sole, Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Raffaelli, Rimini 1994; Id., Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, "Studi Romagnoli" XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; Id., Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Giovanni Bianchi (Iano Planco), "Studi Romagnoli" XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208. Cfr. pure Id., "Lamore al studio et anco il timor di Dio", Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della "Spetiaria del Sole" per Iano Planco, suo padrone, "Quaderno di Storia n. 2", Rimini 1995; Id., Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745), Convegno sulle Accademie romagnole, Studi Romagnoli, Forlì 2000, di prossima pubblicazione.

21 Cfr. Montanari, Tra erudizione e nuova scienza, cit.; e G. L. Masetti Zannini, Carta e stampa nel Settecento, "Bollettino dell’Istituto di Patologia del Libro "Alfonso Gallo"", XXXI, 1972, fascc. I-IV, passim.

22 Da una lettera di monsignor Davìa ad Eustachio Manfredi del 17 dicembre 1722, in A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in "Storia d'Italia", V, ii, p. 1486-1488. Da tale lettera merita di essere ripreso il passo conclusivo, in cui Davìa si scusa di essersi "un po’ diffuso sul libro" di Locke, "per averlo letto e perché mi è sembrato averne trionfato allorché l’ho tolto dalla mente e dalla mano del mio Leprotti, ch’ella ben sa non essere ignorante nelle materie particolarmente dove gioca la mente". Oltre che a riportarci direttamente all’ambiente riminese, il documento ci obbliga ad aggiungere che il "rigorissimo piglio censorio" del Davìa (di cui parla Rotondò), è presente pure nelle sue funzioni alla Congregazione dell’Indice, come risulta dal caso di mons. Celestino Galiani, in cui Davìa torna a discutere del pericolo costituito da Locke: allargando l’orizzonte tematico, è utile ai nostri fini rammentare che Galiani fu definito, oltre che lettore di Locke, anche giansenista, eretico ed ateo, con una significativa intercambiabilità di termini per delineare l’unico concetto di seguace della nuova Filosofia. Sulla fortuna di Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da parte di G. C. Amaduzzi, cfr. A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, in "Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792", a cura di L. Morelli, Firenze 2000, pp. XXVIII-XL. Mons. Celestino Galiani conobbe Bianchi e fu in corrispondenza con lui (cfr. ad vocem "Galiano", FGLB). Sul ruolo di Amaduzzi a Roma e nella cultura romagnola, cfr. le pregevoli pp. di C. Casanova, Note sulla cultura a Ravenna nel Settecento, "Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna", LXVII, Bologna 1979, pp. 11-15 dell’estratto [Bib. Classense, Ravenna, Rav. Busta 5, 1].

23 Cfr. la Relazione delle solenni esequie… al cardinale Da Via, s.l. (ma Rimini) 1740, p. III. Il testo apparve anonimo; secondo le Novelle letterarie (n. 30, 28 luglio 1758, coll. 477-478), lo scritto è opera di Bianchi. Questa Relazione fu recensita dalle stesse Novelle, n. 22, 27 maggio 1740, coll. 349-351.

24 Cfr. G. P.Giovenardi, Orazion Funerale in lode di mons. Giovanni Bianchi…, Occhi, Venezia, 1777, p. XV. Su Giovenardi (1708-89), cfr. il cit. Lettori di provincia. E la recente voce del DBI, vol. LVI, a cura di M. P. Donato.

25 Ibid., p. XIV.

26 Cfr. in G. Lami, Memorabilia Italorum eruditione præstantium, i, Firenze 1742, pp. 353-407. La citazione è presa dalle pp. 354-355. L’autobiografia latina di Planco fu presentata come opera di "autore anonimo". Definisco "latina" quest’autobiografia, per differenziarla da analogo testo di Planco (anch’esso anonimo), intitolato Recapiti del dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Pesaro 1751: sulla paternità dei Recapiti, cf. le Novelle Letterarie (28 luglio 1758, col. 480).

27 Il "Giardino" fu detta la scuola di Epicuro, perché sistemata in un edificio con giardino (anzi un orto), nei sobborghi di Atene: le espressioni "quelli del Giardino", "i filosofi del Giardino" divennero sinonimi di seguaci di Epicuro.

28 Cf. ms. 1352 cit., in "G", c. 22, n. 5. Alla BGR esiste ora soltanto l'edizione del 1658 (segn. CT 654-659). Gassendi su Epicuro pubblicò anche, nel 1649, le Animadversiones sul decimo libro di D. Laerzio (BGR, segn. CT 660-662).

29 Cf. D. Laerzio, Vite dei filosofi, Milano 1993, X, 1, p. 400. Cf. pure Epicuro, Opere, Milano 1993, p. 101.

30 Cfr. P. Rossi, Giambattista Vico, in "Storia della Letteratura Italiana, vi. Il Settecento", Milano 1968, p. 8.

31 Cfr. il cit. Modelli letterari, pp. 290-292, non soltanto per le esperienze di Planco, ma pure per il contesto generale italiano. Gassendi "era un Canonico Cattolico, che la sapeva lunga (comm’ella dice)", scrive Giuseppe Garampi a Bianchi il 31 ottobre 1753, FGLB, ad vocem. Gassendi "ripropone gli atomi e il vuoto come princìpi primi di tutte le cose all’interno di una nuova ontologia": cfr. M. Mamiani, La struttura dell’universo: particelle, forze e spiriti, "Storia della Filosofia. 4. Il Settecento", a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Roma-Bari 1966, p. 4. "Critico del dogmatismo degli aristotelici, degli occultisti, dei cartesiani, Gassendi era vicino a posizioni libertine e teorizzava uno scetticismo metafisico che costituiva la premessa per l’accettazione consapevole del sapere ‘limitato’ della scienza"; secondo una "tesi centrale" di Gassendi, "la nuova scienza non è interessata né alle scolastiche quidditates rerum né agli arcana naturae dei maghi del Rinascimento: è conoscenza fenomenica del mondo": cfr. P. Rossi, La filosofia meccanica, "Storia della scienza moderna e contemporanea", Milano 2000, pp. 248-249.

32 Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR, c. 2r. Il passo testuale è il seguente: "…ad eam autem rem nulla potior utiliorque reperitur exercitatio quam diligenter inquirere quid de re quaque doctissimi philosophi atque eruditissimi viri senserint: quorum tamen placitis et naturæ ipsius investigatio, et propriæ meditationes accedant, et sententiam collatio de rebus omnibus, et singulatim disserendi usus in eam partem quæ verior sit". Cfr. Montanari, Modelli letterari, cit., p. 297. Il Codex è un manoscritto, in cui le leggi, sotto la data del 19 novembre 1745, occupano le cc. 2/3r. Seguono, bianche, le cc. 3/9v. Il testo riprende dalle cc. 10r a 21r, con la cronologia del periodo 1749-1755. Quindi mancano in esso le notizie sul periodo 1745-48. Sul contenuto del Codex, cfr. Masetti Zannini, Vicende accademiche, cit., p. 79, nota 47, dove è un elenco dei fogli volanti che si trovano ad esso allegati.

33 "Academia Aristocratica esto".

34 L’atteggiamento del "dotto" appare anche nella prefazione di Bianchi alla ristampa (1744) del Fitobasano di Fabio Colonna, così riassunta dalle Novelle letterarie, n. 34, 21 agosto 1744, col. 535: Planco "dice esser meglio ristampare i libri buoni antichi, che il pubblicarne de’ nuovi di dottrina comune, i quali non fanno altro che ingombrare le pubbliche, e le private Librerie, con perdita di tempo, e di danari per gli studiosi". Bianchi iniziò a lavorare al progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. Schede Gambetti [SG], BGR, ad vocem, dove si cita il Rescritto Apostolico per avere e ritenere per sei mesi le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21 ottobre 1739.

35 Cfr. A. Fabi, Aurelio Bertola e le polemiche su Giovanni Bianchi, "Quaderni degli Studi Romagnoli" n. 6, Faenza 1972, pp. 15-16.

36 Cfr. Giudizio libero, s. d. (Rimini 1776[?]), p. 1. Lo scritto è attribuito da Fabi (ibid., p. 16) a Francesco Ferrari.

37 Si allude qui alle Notti Clementine del Bertòla, su cui cfr. il cit. Le Notti di Bertòla.

38 Cfr. A. M. Borgognini, Riflessioni…, Lucca 1776, p. 9.

39 Il nucleo originario dei Lincei comprende dieci componenti, come ricaviamo da un articolo apparso sulle Novelle letterarie, n. 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846. Oltre a Planco, "Restitutor perpetuus", ci sono: Stefano Galli, "Scriba perpetuus"; Francesco Maria Pasini, "Censor"; Giovanni Paolo Giovenardi, anch’egli "Censor"; Mattia Giovenardi, Giovanni Antonio Battarra, il conte Giuseppe Garampi, Gregorio Barbette, Lorenzo Antonio Santini e Giovanni Maria Cella.

40 Bertòla dalla natìa Rimini, a dieci anni, nel 1763, è collocato, per le scarse risorse economiche della famiglia, nel seminario di Todi. Quando Pasini (1720-1773) diventa vescovo di quella città, lo accoglie presso di sé, essendovi un rapporto di parentela tra loro due. A quindici anni, Bertòla è mandato in monastero, a diciassette (come si è già visto) pronuncia i voti da Olivetano. Sulla figura di Bertòla, cfr. A. Montanari, Biografia di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, "Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792", Firenze 2000, pp. 389-398; Id., La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di Elisabetta Mosconi, Rimini 1997; Id., Un "Diario" inedito di Aurelio Bertòla, "Quaderno di Storia n. 1", Rimini 1994; Id., Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico. Documenti inediti, "Romagna, arte e storia", n. 50/97, pp. 127-130; Id., Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), "Studi Romagnoli" XLVIII (1997, ma 2000), pp. 549-585.

41 Nei citt. Recapiti del 1751, leggiamo alle pp. VI-VII: "Qui si dà un catalogo degli scolari, che più si sono distinti, e che sono usciti dalla scuola fatta dal Bianchi in Rimino, tralasciandosi di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono". Da tale "catalogo" riporto solamente i singoli nominativi, mettendoli in ordine alfabetico e numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso inserita da Planco, e segnalo con (*) i dieci medici presenti nell’elenco: 1. Baldini Giuseppe (*); 2. Barbari Innocenzo; 3. Barbette Gregorio (*); 4. Bartoli Giuseppe; 5. Battaglini Andrea; 6. Battarra Giannantonio; 7. Bentivegni Girolamo; 8. Bentivoglio Davìa Laura; 9. Bonelli Innocenzo; 10. Bonioli Antonio; 11. Brunelli Giambattista (*); 12. Bufferli Pier Crisologo (*); 13. Buonamici Niccola; 14. Cella Giovan Maria; 15. Cenni Lucantonio; 16. Colonna Daniello (*); 17. Draghi Paolo Andrea (*); 18. Fabbri Francesco; 19. Fabbri Giovanni; 20. Fosselli Mauro; 21. Galli Celestino; 22. Galli Stefano; 23. Garampi Giuseppe; 24. Ghigi Pietro; 25. Giovenardi Gianpaolo; 26. Giovenardi Mattia; 27. Godenti Pietro; 28. Graziosi Ubaldo; 29. Lapi Pier Paolo; 30. Legni Francesco (*); 31. Marcaccini Francesco; 32. Massa Niccolò; 33. Mastini Severino; 34. Mussoni Pietro; 35. Pasini Francesco Maria; 36. Pecci Carlo; 37. Piceni Giuliano; 38. Pizzi Gian Carlo (*); 39. Righini Cassiano (*); 40. Santini Lorenzo Anton (*); 41. Serpieri Giulio Cesare; 42. Torri Cesare; 43. Vitali Giuseppe; 44. Zampanelli Marino.

42 Cfr. il cit. Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro, passim.

43 Cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna, Il Ponte, Rimini 19932, nota 1, p. 102. I compiti sono conservati nella Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone. Cfr. pure Id., I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, "Riminilibri" n. 5, marzo 1994.

44 Cfr. il fasc. 218, FGMB: è il prologo ad una dissertazione anatomica di Bianchi riguardante il celebre caso di Giambattista Pilastri, su cui cfr. pure: fascc. 203, 204, 206, FGMB; Codex, cit., cc. 17v-18r; ed infine la Storia medica d’una postema nel lato destro del cerebello, pubblicata nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà, tomo XLVI, Venezia 1751, pp. 169-200.

45 Cfr. E. Brambilla, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in "Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina", Torino 1984, p. 12.

46 In SG, ad vocem, viene elencata la sua Istanza autografa a Benedetto XIV "per ottenere di fare le sezioni di Cadaveri", nella quale "fu segnata la grazia con Rescritto dei 18 aprile 1745".

47 Ibid., p. 14.

48 Il testo ms. è in fasc. 185, FGMB. L’opera, nello stesso 1749, esce in due edizioni.

49 Cfr. lettera del primo marzo 1752, FGLB, ad vocem. A Roma, Giuseppe Giovanardi Bufferli svolge talora anche la funzione di procuratore della città di Rimini, per affari da gestire nelle magistrature pontificie.

50 Cfr. D. Concina, De spectaculis theatralibus, Roma 1752, pp. 207-211.

51 Cfr. lettera del 7 gennaio 1777, FGLB, ad vocem.

52 Cfr. lettera del 5 aprile 1777, FGLB, ad vocem.

 

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