Riministoria

L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici»
Nobili, borghesi e clero in lotta per il «sopravanzo» della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo

1. Dopo l’armistizio del 23 giugno 1796
Il pagamento della contribuzione imposta dall’armistizio fra Stato della Chiesa e Francia (stipulato a Firenze il 23 giugno 1796 dopo la prima fase della campagna militare napoleonica), si ripercuote anche sui già difficili rapporti politici esistenti fra nobili, borghesi e clero all’interno dell’inquieta comunità riminese [1].
Per la Romagna, la contribuzione è ordinata con bando della Congregazione Provinciale di Ravenna del 27 giugno [2]. La Municipalità di Rimini, entro tre giorni [3], ha l’obbligo di raccogliere 114.132 scudi in «Ori, Argenti e moneta di Banco» per il territorio della sua diocesi, sui 480 mila complessivi di tutta la provincia. La Comunità assicura «che compenserà col frutto del cinque per cento il capitale» consegnato in metallo o numerario.
Il 3 luglio [4] a Cesena è consegnata la prima rata della contribuzione riminese al generale divisionale francese Pierre-François-Charles Augerau. Sono 60.470 scudi: è quanto si è «potuto in tanta angustia di tempo e nella comun miseria estorcere» da Cittadini e Territoriali, si dichiara nella lettera che accompagna il versamento al Tesoriere dell’Armata repubblicana di Bologna [5]. La somma riscossa è in realtà superiore ed ammonta a 93.854 scudi [6], mentre la contribuzione totale versata risulta di 67.332 scudi.
La Municipalità riminese il 31 gennaio 1797 comunica al Segretario di Stato Cardinal Ignazio Busca che la somma raccolta è di 63.822 scudi [7] precisando che questo totale deriva dalle somme particolari dei Laici (44.654) e da quelle dei Religiosi (19.168). Nessun accenno si fa a quanto versato dagli Ecclesiastici dei «due Cleri», Secolare e Regolare. Sottraendo dai 93.854 scudi raccolti in totale i 63.822 di Laici e Religiosi, otteniamo 30.032 scudi, cifra corrispondente appunto a quanto dato dai «due Cleri», composti da trentasei soggetti del Secolare, e da tredici del Regolare [8].
Ognuna di queste tre categorie (Laici, Religiosi ed Ecclesiastici dei «Cleri») avrebbe dovuto versare una quota di contribuzione proporzionata al proprio estimo. Il dovuto è calcolato in base alla totalità della contribuzione ed all’estimo [9] nel Bargellato. I Laici (quarantotto Nobili e cinquantasette Cittadini), sopra un estimo di 4.111 scudi, avrebbero dovuto versare 35.006 scudi, mentre ne hanno dati 44.654 (9.648 in più). I ventuno Religiosi, con un estimo di 3.383 scudi, «hanno dato solamente» 19.168 scudi, cioè 9.639 in meno. In nessun documento è riportato quanto toccasse contribuire agli Ecclesiastici dei «due Cleri».
Il «dippiù» è un’offerta volontaria, per la quale abbiamo potuto determinare la consistenza elaborando i dati contenuti negli elenchi del Libro di Riparto delle Contribuzioni [10]: sono 2.218 scudi per i Religiosi, 35.230 per i Laici, e 13.740 per gli Ecclesiastici dei «due Cleri» [11]. I quali Ecclesiastici, avendo dato in tutto 30.032 scudi, hanno così versato una quota regolare di 16.292 scudi. La cifra totale del «dippiù» è dunque di 51.188 scudi sul totale generale di 93.854 scudi. Per valutare compiutamente questi dati, occorrerà in seguito stabilire il tasso di evasione.
La differenza tra cifra raccolta e quella versata costituisce il cosiddetto «sopravanzo». Secondo AP 927 esso è di 27.785 scudi, depositati al Sacro Monte di Pietà, mentre per AP 880 è di 29.608 scudi. Quello che emerge dalle corrispondenze ufficiali della Municipalità è invece, come vedremo, di soli 10.875 scudi.
I Consoli di Rimini il 5 luglio rendono noto: il concitta-dino deputato conte Nicola Martinelli [12] ha avvertito da Ravenna «che per l’altra metà dell’impostaci con-tribuzione se ne incarica per pagarla la Santità di Nostro Signore» [13]. La notizia arreca un certo sollievo che fa bene sperare circa la restituzione del «sopravanzo». In AP 880 si legge che i 29.608 scudi erano stati depositati al Monte di Pietà «per attendere le conseguenze della Pace Generale, e le istruzioni della Congregazione Provin-ciale», in base alle quali si sarebbe poi considerato se convenisse «saldare l’intiera Contribuzione o restituire l’avanzo». La novità secondo cui il Papa sollevava Rimini dal versamento della seconda rata per la contribuzione, rendeva certi che la Comunità avrebbe rimborsato il «dippiù» offerto dai suoi cittadini.
Il sollievo è però momentaneo: infatti il 28 settembre il Papa chiama a raccolta i sudditi «per la difesa del suo Stato dall’aggressione de’ Francesi». Si rinnovano gli avvisi di preparazione alla resistenza, per la quale occorrono altri soldi, mentre le pubbliche casse locali sono completamente vuote. La Municipalità non può far altro che ribadire il concetto della «comune miseria», illustrando agli organi superiori i particolari di una situazione disastrosa sul piano finanziario ed economico [14].
Il 4 ottobre al Legato di Romagna si inoltrano le «Riflessioni sui mezzi di difendere la Patria dai Francesi»: «Al bisogno non manca solamente la Polvere, ma manca anche il Danaro per acquistarla, e per supplire alle altre spese correlative». L’11 ottobre, sempre al Legato, si comunica che non «[h]avvi assegnamento veruno» per le spese straordinarie di guerra [15]. Il 13 ottobre la Municipalità gli ribadisce: «Noi manchiamo di danaro, di polvere, di fucili, giacché i pochi, che vi sono, sono più per la caccia, che per la Guerra». Di fronte alla quale, la Municipalità esprime un giudizio preciso: «Non possiamo mai credere, che la volontà del nostro pio, ed amoroso Sovrano sia quella di veder inutilmente [16] incendiate le Case, violate le Donne, e innondate di Sangue la Città, e la campagna, con una resistenza, che non può essere, che dannosa».
Il 15 novembre si ripete al Legato che la Comunità è in «critiche circostanze». Il 19, che la «pubblica Cassa» versa in uno stato «lagrimevole». Il 3 dicembre il Legato è informato delle «cause, per cui rimane esaurita la pubblica Cassa». Il 17 al Tesoriere di Romagna, Bottoni, si spiega che la Cassa è stata svuotata dal «sopracarico» imposto dal Papa «e dalle circostanze presenti, di nuove, copiosissime spese», in previsione della ripresa dello scontro con i francesi dopo il fallimento delle trattative di pace. Tra 27 e 29 dicembre lo «stato passivo della Comunità» è l’argomento che Rimini affronta in una specie di ‘trilogia della povertà’, rivolgendosi al Legato, al Segretario di Stato ed al Prefetto della Sacra Congregazione del Buon Governo: è una dichiarazione di fallimento, per cui l’amministrazione cittadina chiede «un Commissario» che riveda i conti, e rilevi «l’impossibilità di reggere ad altre spese» (la «scopertura attuale» è di 3.475 scudi, mentre i debiti ammontano a 158.644 scudi).
Nel Pro Memoria preparato dai Consoli per il loro «procuratore» romano, abate Giuseppe Quaglia [AP 502, 25.12.1796], leggiamo: «In meno di dieci anni la Città di Rimino è stata miseramente bersagliata dagli infortunj». L’elenco comincia con il terremoto del 24 dicembre 1786 e prosegue con la duplice «epidemia ne’ Bovini» (1786 ed estate ’96), con «il sospetto di Contagio negli uomini Oltremare» (’95-96), i lavori pubblici, la Guardia civica, «il continuo passaggio, e stazione delle truppe», per culminare nella contribuzione data ai francesi, la quale ha provocato «un vuoto totale, ed irreparabile nelle Famiglie de Laici non meno, che degli Ecclesiastici Secolari, e Regolari».
Rimini si dichiara soprattutto amareggiata perché dalla Legazione non è venuto nessun aiuto [17]. L’indifferenza del Cardinal Legato è confermata dal tono con cui egli risponde ai Consoli riminesi: nessun’altra città della provincia ha chiesto riduzione nelle spese per la truppa papale, «quì venuta per la sicurezza, e tranquillità» di tutti [18]. Il Cardinal Segretario di Stato Busca non mostra un atteggiamento granché diverso nei confronti di Rimini, che definisce «Paese opulento, commerciante, e industrioso»: da esso «e dai suoi ricchi Abbitanti», il Papa attendeva «le maggiori prove di spontanea generosità, e grandezza d’animo» [19]. L'indifferenza sia di Busca sia del Legato ha un antecedente (anche di maggior gravità) in quanto accaduto nel corso della terribile carestia del 1765-68: allora i bisogni materiali di Rimini non furono creduti, e non furono attribuiti alla mancanza di grano provocata dai pessimi raccolti, ma alla cattiva amministrazione della cosa pubblica. Si suggerì persino di mangiar erba e frutta anziché pane, come risulta da una lettera inedita di mons. Giuseppe Garampi, che si trovava a Roma dove aveva già raggiunto una prestigiosa posizione, e che aveva ricevuto da Rimini un particolare «mandato di procura» per gli affari della città [20].



2. Il «sopravanzo» della contribuzione
La lettera di Busca è relativa al problema della restituzione del «sopravanzo», che inquietava gli amministratori riminesi, e che viene accennato per la prima volta nel ricordato Pro Memoria per il «procuratore» Quaglia: tutti, nel momento dell’emergenza per la raccolta di danaro e preziosi destinati ai francesi, «hanno contribuito alla rinfusa, e senza riserve»; adesso però «riclamano la restituzione di quanto hanno dato in più della propria tangente, ed il pagamento de frutti a ragione del cinque per cento dall’epoca fissata nella Congregazione Provinciale» dell’agosto ’96, cioè a far tempo dal primo giorno di quello stesso mese [21].
Il problema della restituzione del «sopravanzo» diventa il nodo centrale dei già difficili rapporti tra la Municipalità riminese e le varie espressioni centrali e periferiche del potere statuale. Non si tratta di una semplice controversia finanziaria, bensì di una questione politica con la quale si mettono in discussione le consuetudini ed i privilegi consolidati del clero. Essa domina l’attività degli amministratori sino al 5 febbraio 1797, quando a Rimini si instaura il «Governo Francese» [22] con il quale tramontano i tentativi, da parte della stessa Municipalità, di modificare la situazione esistente.
L’affare della restituzione rivela un’inquietudine che minaccia gli equilibri sui quali, sino ad allora, si era retta la vita pubblica della città, e che erano stati caratterizzati dalla contrapposizione fra un’egemonia nobiliare sempre più incerta e la prepotente ascesa borghese [23].
In un documento ufficiale [24], proprio del ’96, leggiamo che il Consiglio generale era «composto di sessantadue Nobili, e diciotto cittadini: di tre quarti cioè di quelli, e di un quarto di questi a un dipresso». I requisiti richiesti da «un Postulante del rango civico sono la civiltà della sua nascita, e la possidenza, giusta la pratica, di un capitale fruttifero di diecimila scudi non compresa la casa di propria abitazione, gioje, denari, suppelletili e simili. Per la sua aggregazione al Consiglio deve alla Comunità un regalo di scudi cento, e conservare un decoroso trattamento della sua Famiglia» [25].
L’«Ordine civico» emerge con fatica mentre i gruppi aristocratici tentano in tutti i modi possibili di contrastare ogni cambiamento sociale. Tra i Nobili siedono anche imprenditori provenienti dal settore dei Cittadini, come Andrea Lettimi, titolare di un filatoio: egli «con mille raccomandazioni, e prepotenze» [26] si fa beffe della legge, e può ottenere il salto di categoria grazie alle «sovrane premure di Nostro Signore accompagnate con obbliganti generosissimi sentimenti», espressi dalla «viva voce» del Cardinal Legato in persona.



3. Le pretese dei Nobili
C’è una storia segreta delle pretese nobiliari che percorrono tutto il Settecento riminese: con esse, l’aristocrazia cerca di mantenere il proprio primato e di fermare l’avanzata dei Cittadini. Non è possibile comprendere la questione del «sopravanzo», senza farne un accenno, per quanto veloce.
Nel 1741, allo scopo di dare «riparo allo scadimento delle Famiglie», si provvede alla «vantaggiosa conservazione delle Case» nobiliari con «lo Statuto esclusivo delle Femmine», private delle rispettive eredità, eccettuata la parte legittima, in presenza di maschi [27]. Nel 1763 «molti Consiglieri» richiedono ai Consoli di «escludere li Matrimonj disuguali di nascita», allo scopo di mantenere «la propagazione delle loro Famiglie di sangue il più purgato e illustre, qual essi trassero dai loro Antenati».
I «Capitoli per le nuove aggregazioni di Nobili e Cittadini», nel 1764, mettono però in ombra i diritti del sangue e fanno prevalere il peso dei «capitali fruttiferi», approdando a risultati opposti rispetto a quelli desiderati dai Nobili [28]. Infatti, per la loro aggregazione, si prevedeva all’inizio soltanto «la possidenza di Centocinquanta Lire d’Estimo». In Consiglio è stata proposta l’aggiunta relativa ad un «capitale di quindici mille scudi». Il testo approvato presenta invece una norma più elastica, secondo la quale «in proporzione dell’Estimo» sarebbero stati «considerati i capitali di Censi, Cambi, Luoghi di Monte, e Case che si affittano». Il distacco fra Nobili e Cittadini diminuiva, grazie proprio a questi «capitali». La cifra stabilita per i Nobili in quindicimila scudi, è di non molto superiore a quella di diecimila, richiesta per «un Postulante del rango civico».
La normativa del 1764 prevede che per ogni aggregazione i Nobili debbano versare un «regalo al Pubblico» di cinquecento scudi, riducibili però a trecento. Per i Cittadini la somma è fissata in cento scudi, senza sconti. La variazione delle quote non è legata ad una apertura dei Nobili nei confronti dei Cittadini, per facilitarne la scalata al primo Ordine, ma è dovuta a due differenti fattori: l’impossibilità di gravare sui singoli patrimoni, mentre una crisi economica endemica caratterizza la vita riminese tra 1600 e 1700; e la spinta dal basso che il secondo Ordine esercita, per acquisire una dignità ‘politica’ pari al ruolo che ormai sta svolgendo nella vita della città. Ruolo che è dimostrato, nel 1788, proprio dal conferimento della nobiltà «a due riminesi famiglie, salite in stato di opulenza e agiatezza» e dall’incarico di Prefetto d’Entrata ad un esponente dell’Ordine civico, il dottor Pellegrino Carlo Bagli. Quest’ultima carica era quasi sempre stata riservata ad un nobile [29].
Il 25 agosto 1792 si chiude la vicenda dei «Matrimonj disuguali di nascita»: il Legato approva i relativi «Capitoli» richiesti dagli aristocratici. Un Nobile può sposare, oltre che ovviamente le donne sue pari grado, anche quelle «ignobili di civile condizione» (cioè appartenenti all’Ordine civico) o figlie di «qualcuno, che esercitasse Mercatura nobile», allo scopo di «conseguire una cospicua dote». Ovviamente, il denaro rende puro il sangue che non lo è.
Per i «Civici» sono ammesse donne loro pari e quelle provenienti da famiglia con entrata propria, od esercenti mercatura non vile, arti liberali, ed artigianato non vile (in quest’ultimo caso, per causa di dote).
Chi vìola i «Capitoli», rimane escluso dal Consiglio, fatto salvo il diritto dei suoi eredi di rientrarvi rispettando le norme in essi contenute. Per allentare le tensioni, il Legato ha inserito, in calce al testo, una clausola con la quale si riserva «cognitio, declaratio, et executio» dei casi futuri di violazione delle norme statutarie, togliendo quindi ogni possibilità d’intervento in materia sia al Consiglio civico sia alla Sacra Consulta romana. Per la Municipalità questa riduzione dell’autonomia di azione e di giudizio, dovette apparire quale un’amara conferma della politica accentratrice dell’autorità statale, così come si era sempre manifestata sino ad allora; ed alla fine dovette anche risultare uno sprone a tentare tutte le strade possibili per modificare il sistema di potere del Legato e degli organi romani [30]. Per documentare ulteriormente le inquietudini della società riminese sul finire del Settecento, ricordiamo che, nell’86, alla Congregazione del Buon Governo si denunciano le «superflue spese» fatte dai «ricchi» nobili «a spalle de Poveri».



4. Nobili e Cittadini
Per la restituzione del «sopravanzo», il Consiglio civico inizia una vertenza con il clero (considerato come categoria privilegiata ed espressione del potere politico che gli permette di esercitare un indisturbato primato sociale, con gli annessi benefici).
In tale vertenza, si parla soltanto di due categorie, «Laici» contro «Ecclesiastici», quasi si fosse realizzata all’interno della prima un’inedita “union sacrée” fra i ceti rivali di Nobili e Cittadini. Ma così non è: l’alleanza è soltanto pensata per scopi tattici, e mai veramente stipulata. Si tratta più di un artificio retorico che di uno strumento politico ben formulato nei suoi particolari.
Le vere intenzioni dei Nobili sono altre, come risulta da una decisione della Congregazione dei Signori Dodici del 22 dicembre 1796, con la quale i proprietari terrieri aristocratici tentano di colpire gli interessi “borghesi”: a tre Nobili (Nicola Martinelli, Ippolito Tonti, Aurelio Valloni) ed al Cittadino Gaetano Urbani, è affidato l’incarico di esaminare «se siavi mezzo, e quale di ripartire la contribuzione pagata dalla Città all’armata francese, sopra tutti i capitalista d’ogni genere per la massima di sollevare i Possidenti del terratico», con l’ordine di inviare le riflessioni «pel riparto sui capitali di case, censi, cambi e mercature» [31].
La sommaria visione politica con cui la Municipalità riminese riduce le forze in campo ai due soli elementi di «Laici» e di «Ecclesiastici», potrebbe apparire un rozzo tentativo di recuperare la visione medievale basata sulla distinzione tra guelfi e ghibellini, ma così non è. Il progetto che si vuole accreditare, nasce dalla volontà di eliminare le situazioni parassitarie, fonti di ostacoli allo svolgimento di una vita economica che ora si tenta di regolare su nuovi ritmi.
L’arrivo dei francesi in Italia nel ’96 è il fatto traumatico grazie al quale, da parte di tutti, si sperimenta che i tempi sono mutati, e che una nuova mentalità sta diffondendosi in Europa, sulla scia della bufera dell’89, con i conseguenti risvolti giuridici e politici.
Fino all’estate del ’96, va aggiunto, nulla avevano voluto mutare i Nobili, perché tornava loro utile il sistema dei privilegi che lo Stato della Chiesa gli aveva concessi, per conservarne il consenso. Di questa politica, c’è un chiaro esempio locale nel chirografo di Pio VI del 27 luglio 1775 sulla gestione della riminese «Eredità Gambalunga» [32]. Analogamente a quanto stabilito da sei provvedimenti decisi, sullo stesso problema, a partire dal 1731 dai suoi immediati predecessori (Clemente XII, Benedetto XIV, Clemente XIII e Clemente XIV), Pio VI sospendeva gli effetti del testamento di Alessandro Gambalunga [33] e, anziché tutelare, come esso prevedeva, i diritti di quattro Luoghi Pii (la Casa de Mendicanti degli Orfani, il Monastero delle Convertite, la Compagnia della Croce e l’Ospedale della Misericordia), interveniva per riparare alle «tante dissipazioni» e ad una mole «smisurata di debiti» che stavano portando verso la «total ruina» gli eredi di quella famiglia. Pio VI si giustificava, richiamandosi alle parole usate nel ’31 da Clemente XII: cioè, di aver agito per evitare l’estinzione di una Casa nobile, come era già avvenuto per tante altre, a causa della mancanza di beni di fortuna con cui sostenere i pesi del matrimonio e dei figli.
Le tensioni fra Municipalità e clero non sono nuove. Ripercorrendo la storia del Consiglio riminese, incontriamo al 5 agosto 1741 la decisione di preparare nuovi «Capitoli» sui rapporti con gli Ecclesiastici [34], resisi necessari per «le molte, e lunghe liti, che restano tuttavia accese» nei tribunali romani [35]. Il 31 ottobre 1744 questi «Capitoli per la Transazione con li Cleri, e Contado» sono approvati, a tutto vantaggio degli Ecclesiastici Secolari e Regolari, i quali conservano «tutte l’Esenzioni, che per rispetto alla distribuzione de Pesi godevano con la Città» [36], osservando «religiosamente la transazione del 1664, con tutti gli annessi» [37].
Una novità importante veniva introdotta dai «Capitoli» del 1744, per il Contado: le «gravezze» della città dovevano ricadere soltanto sopra la città stessa ed il Barigellato, e non più sui Castelli [38]. Nel 1746 il solo clero Secolare apre una nuova lite con il Comune per le spese derivate dai passaggi di truppe straniere [39].
Nel corso della carestia del 1765-68, clero e Municipalità sono nuovamente ai ferri corti: l’8 gennaio ’67 gli Abbondanzieri chiedono al Vescovo, conte Francesco Castellini, ed al clero «un congruo sussidio di Generi da somministrarsi in prestanza senza sigurtà» ai Casarecci della Campagna, «con eventualità ancora nel ritirarne il prezzo, affinché non si dovesse sentire il disordine, che fosse parte del Popolo perita di fame per diffetto di provvidenza». La Congregazione del clero, il 22 gennaio, stabilisce che il riparto per questo «sussidio caritativo» vada distribuito «sopra ogni sorta di possidenti», come se si trattasse di una normale imposta della Reverenda Camera Apostolica. Il 25 gennaio il Governatore domanda a mons. Garampi di intervenire presso il Papa affinché i Luoghi Pii di Città, Bargellato e Contado siano obbligati «a somministrare prontamente tutto il denaro che [h]anno» alla Municipalità: «Findove sonosi estese le nostre forze non abbiamo sin’ora mancato di giungere colli nostri provvedimenti. Incombe ora a’ Luoghi Pii il fare il partito loro a norma de Sagri Canoni» [40].
Quando ormai le idee ‘giacobine’ hanno una certa diffusione in Romagna, ci si rende conto che è possibile modificare qualcosa di quella società [41], come succede a Bologna dove, l’8 ottobre ’96, il Senato dichiara che né la città né il suo territorio appartengono più allo Stato ecclesiastico.
Politica ed economia si legano, dunque, in questa apparente alleanza [42] che i «Laici» riminesi stringono fra loro, nel tentativo di piegare clero e governo pontificio ad un diverso comportamento, vivendo tra i due fuochi dell’emergenza: da una parte i preparativi romani di guerra e l’invasione francese, dall’altra le inquietudini più o meno consapevoli che agitano Nobili e Cittadini per motivi in parte opposti (la concorrenza sociale) ed in parte analoghi (la volontà di sottrarsi all’egemonia degli Ecclesiastici).
Alla fine, la Municipalità sembra averla vinta sul Vescovo di Rimini; ed i nobili utilizzano i borghesi, fingendo di difendere anche gli interessi di questi ultimi, con l’evidente intento di neutralizzarli nella loro ascesa sociale. Ma il sopraggiungere delle armate repubblicane chiude momentaneamente la partita, con lo schierarsi di molti aristocratici dalla parte dell’invasore.



5. Gli umori giacobini: il caso Martinelli.
A proposito di quest’ultimo fatto, va sottolineato come non spieghi granché la facile etichetta di giacobinismo [43], intesa quale indicazione di pura e semplice adesione agli ideali rivoluzionari francesi. La qualifica di «giacobino» procurava accuse e denunce anche a carico di chi non voleva sposare la causa repubblicana d’Oltralpe, ma soltanto modificare dall’interno il regime sociale ed economico imposto dalla Sede Apostolica, i cui caratteri di arretratezza risultano evidenti dal confronto con la politica delle riforme adottata altrove.
Di questi atteggiamenti riformistici riminesi, abbiamo conferma da una polemica del 1791 a proposito della libera panificazione introdottasi clandestinamente già da tre anni [44], senza reazione alcuna delle autorità, anzi con il favore del Governatore Antonio Devais [45]. Francesco Gaetano Battaglini, «soggetto per dottrina, e per l’onor del vero riguardevole» (scrive Zanotti), assieme ad altre «oneste Persone anelanti al ben pubblico», sosteneva l’Annona: nella sua carica di Abbondanziere, il 30 settembre, presenta una specifica Memoria, allo scopo di porre fine all’«abuso de’ Panfangoli» [panettieri]. «Contestualmente però si esibì, e si fece girare per la città uno scritto opposto intitolato Paralello aritmetico, e ragionato fra il vecchio, e il nuovo sistema annonario, opera giudicata del conte [Nicola] Martinelli», che si era fatto già conoscere come capo del partito contrario all’Annona. Con il Paralello, «in forza di dimostrazioni aritmetiche, e di calcolati vantaggi si antepone alla privativa dell’Annona la libera panizzazione» che, conclude Zanotti, risultava «aggradita dalla Plebe ignorante».
Alle pagine di Martinelli, Battaglini rispose con Il Panfangolo Riminese [46], dialogo tra un Filosofo sammarinese ed un libero fornaio. «Ben presto gli avversari fecero imprimere altra stampa con titolo di Risposta a conto, e non a saldo», di cui fu creduto autore Nicola Martinelli, il quale usava, a detta di Zanotti, «sottilissimi sofismi, ed aggredevoli principj di libertà» per dimostrare che era «molto migliore e preferibile la ben veduta libertà di panizzare» [47].
La Risposta contiene una premessa inevitabilmente sfuggita al notaio-cronista Zanotti. Martinelli in essa inserisce un’osservazione che documenta non soltanto il vasto campo ideologico e politico entro cui si agitava il problema dei panfangoli, ma pure, se non soprattutto, la trama scientifica dalla quale la discussione traeva spunto e sostanza: «Sia intanto permesso di fare osservare, che chi è versato nelle scienze dell’Economia politica, ed ha letti gli Trattati luminosi, che da trent’anni vittoriosamente hanno trionfato contro ogni genere di privativa, e specialmente di quella del pane, non sarà sì facilmente scosso dalle non nuove, e già mille volte confutate ragioni del Filosofo di San Marino» [48].
La «libera panizzazione» non era «aggradita» solamente «dalla Plebe ignorante», come insinuava Zanotti, ma costituiva un cardine della nuova economia, predicata in àmbito lombardo da Beccaria [49], in base al criterio che la «libertà assoluta» fosse il migliore di tutti i sistemi in materia d’annona [50].
Mentre il titolo di Paralello aritmetico, usato da Martinelli, rimanda al concetto di «aritmetica politico-economica» ormai entrato nel linguaggio comune degli studiosi del settore, attorno agli anni Settanta; il fugace accenno, fatto nella Risposta,all’Economia politica ed ai relativi trattati apparsi negli ultimi tre decenni, al di là di ogni valore polemico si presenta come una dichiarazione d’autorevolezza che serve per considerare lo spessore culturale del Martinelli ‘politico’: egli rivela già allora una capacità di leader che esprimerà ben più saldamente nei successivi, difficili momenti, dimostrandosi un diplomatico abile ed apprezzato anche dagli avversari per il ruolo giocato a favore della città [51].
Le opinioni in materia di dottrina economica e di panizzazione, espresse da Martinelli nel ’91 sono però agli antipodi di quanto da lui stesso sostenuto vent’anni prima, come risulta ripercorrendo la sua carriera, iniziata precocemente nel 1762, quando è chiamato a far parte del Consiglio riminese, a soli 20 anni, con dispensa legatizia per la minore età [52], proprio mentre ferve la discussione contro l’appalto della pubblica panificazione in uso [53].
Il 30 aprile 1763 la Comunità di Rimini invia un’istanza al Buon Governo [54] per ottenere un «nuovo sistema», sottolineando i gravi difetti di quello corrente dell’appalto, risultato «dannoso alla Cassa Communitativa, che non ricavava Provento alcuno dall’affitto del Forno». Il dibattito ruota attorno a due punti fondamentali: in primo luogo, il contratto vigente era «dannosissimo al Povero stesso, e da ogni Legge riprovato»; in secondo luogo, «l’Annona come Corpo separato dall’Economia della Comunità non deve impiegare i suoi effetti ricavati dalli Poveri in beneficio delli Possidenti, a’ quali appartiene principalmente la soddisfazione de’ Debiti della Comunità, come i Poveri soddisfano quelli dell’Annona» [55].
Nello stesso 1763 gli Ecclesiastici, pretendendo per i loro grani dall’appaltatore Andrea Bagli una cifra superiore a quella stabilita da un decreto del Buon Governo del 24 gennaio 1757, aprono un loro forno «con moltiplicità di spacci, e Botteghe per tutta la città». La Municipalità «si risolse di comprare» il grano degli Ecclesiastici al prezzo che essi «volevano maggiore» di quanto legalmente previsto, «ad effetto restasse chiuso quel Forno».
L’episodio si conclude con la sottomissione del potere laico al clero: negli atti della Municipalità riminese [56], leggiamo che essa riteneva di non far valere la privativa del pane anche nei confronti degli Ecclesiastici, «essendo stata conceduta da una Potestà laica, qual’è quella del Em. Legato, ed accio avesse una simil forza era d’uopo che l’ottenesse dal Papa». Inoltre, la Comunità ammonisce l’appaltatore Bagli che egli era «obbligato pagare il prezzo giusto» agli Ecclesiastici, secondo una disposizione del 1689 la quale stabiliva genericamente che «si doveva lasciare alle Sagre Congregazioni dell’Immunità, e del Buon Governo di provvedere ne’ casi particolari»: per cui, alla fine, si dà ragione agli Ecclesiastici che non hanno rispettato il decreto del 1757, invocato dall’appaltatore Bagli. Forse anche questo episodio, assieme alla situazione derivante dalla grave carestia del ’64, fa sì che nell’anno successivo non si trovi «verun Oblatore a cotesto pubblico Forno» [57].
La discussione sull’appalto della pubblica panificazione, con la difesa degli interessi dei «Poveri», è del 1763, cioè dell’anno in cui, come abbiamo visto, «molti Consiglieri» richiedono ai Consoli di «escludere li Matrimonj disuguali di nascita». Non poteva essere più forte il contrasto fra gli aristocratici conservatori e Nicola Martinelli che è molto presente in quel dibattito, anche per compiti istituzionali: a partire dal novembre ’63, a meno di dodici mesi dal suo ingresso nel Consiglio riminese (avvenuto con il giuramento del 22 novembre 1762), inizia il suo cursus honorum con l’estrazione a Console [58].
Egli è sempre attivo nei momenti cruciali di una crisi che si articola in due periodi. Il primo (1763-64) è caratterizzato dalla mancanza di grano provocata da vari fattori: i pre-lievi da parte del governo di Roma per le proprie necessità; l’incetta compiuta dai marchigiani confinanti, a causa dei cattivi raccolti; le incursioni di contrabbandieri del Riminese e della Romagna che obbligano i proprietari terrieri a vender loro il grano, messo poi in circolazione al doppio del prezzo pagato. Il secondo periodo è costituito dalle «quattro consecutive carestie» [59] che vanno dal 1765 al ’68 compreso [60].
Dapprima Nicola Martinelli è tra i deputati «a riveder i conti alli Signori Abbondanzieri» [61], poi nel ’65 viene mandato dalla Municipalità a Ravenna «per tentare se fosse possibile di liberare la Città dall’Appalto sempre egualmente funesto al Popolo e ai Possidenti», come ricorderà nella Risposta [p. 17], dove il sistema della privativa dell’Annona è definito come un «monopolio de’ Potenti» [p. 30]. La missione ha successo: proprio nell’anno annonario 1765-66 a Rimini viene ripristinata la panizzazione diretta dell’Abbondanza.
Il 24 gennaio 1767 Martinelli è incaricato, assieme ad altri tre Consiglieri (il cap. Carlo Mancini, lo scienziato veterinario conte Francesco Bonsi e Giuseppe Guidantoni), di «stabilire un Piano» di soccorso per «riparare, come la Divina, ed umana Legge strettamente ingiunge, al gravissimo disordine di vedersi morire di fame i Casarecci del Bargellato, ed altre Persone miserabili, che nulla possedono, come pur troppo sentesi sia sin ora seguito» [62]. La commissione, dopo aver richiesto ai Parroci, attraverso il Vescovo, un elenco dei poveri (ne risultano 1.025 in Città, 1.124 in Campagna), propone una sovvenzione per i primi di un bajocco e per gli altri di un bajocco e mezzo al giorno «o in denaro o in farina di Formentone», con il suggerimento di far una scorta di danaro per quelli che «saran fra breve nel deplorabil caso degl’altri Infelici compresi, ed involti», per un totale di tremila scudi.
All’attivismo di Nicola Martinelli vanno contrapposti il disinteresse ed il timore di esporsi di molti suoi colleghi del Consiglio, dimostrato dalle ben venti rinunce degli eletti all’ufficio di Cassiere dell’Abbondanza il 30 maggio 1767 [63], proprio quando lo stesso Consiglio concede ai quattro Abbondanzieri in carica, su loro stessa richiesta, un premio complessivo di trecento scudi per ripagarli delle «loro straordinarie fatiche». Al Governatore della città, invece, si regala un pezzo d’argento di scudi cento, attingendo al già misero bilancio dell’Annona, «in rimostranza di gratitudine, e sincera riconoscenza per le tante cure, applicazioni, e sollecitudini» da lui dimostrate «per la sovvenzione somministrata alli Poveri, e Coloni del Bargellato, e Contado di questa città» [64]. Lo stesso 30 maggio il Consiglio è costretto pure a decretare un’«altra sovvenzione alli Coloni», stante la gravità della loro situazione.
Il 1° maggio 1768 Nicola Martinelli è eletto «capo Console nel rango dei Conti» [65]. Nell’agosto ’69 viene chiamato a «presiedere, e governare l’Annona frumentaria» (con il conte Francesco Bonsi, il cap. Ottaviano Vanzi e Domenico Garattoni), attirandosi feroci critiche delle quali troviamo traccia nei pettegoli Commentarj di Ernesto Capobelli [66]. L’accusa rivolta da Capobelli a Martinelli ed ai suoi colleghi, è di aver gestito l’Annona per «arricchirsi col vero sangue de’ poveri», e di voler far regnare «una vera carestia». Per «uno de’ soliti impuliti raggiri», essi rifiutarono di acquistare il grano [67] degli Ecclesiastici: in questa decisione, possiamo individuare l’origine del malcontento per il loro operare e delle ‘osservazioni’ di Capobelli che non conclude i propri argomenti, soprattutto contro Domenico Garattoni, dichiarando con aria di mistero: per non «pregiudicare il mio scrivere, ho pensato di tacere».
Nel 1770, come Martinelli stesso ricorda nella sua Risposta, egli distende nuove «leggi» per l’Annona che sostituiscono all’Appalto l’amministrazione diretta ed esclusiva della panizzazione [68]. In questo momento egli è contro «ogni genere di privativa». Di queste «leggi» si dovette discutere a lungo in città, se un anonimo progetto per l’Appalto le chiama in causa tre anni dopo. I Consoli difendono «l’esperienza […] della presente ben regolata Amministrazione dell’Annona», perché essa «fa discernere evidentemente, che tanto per il Povero quanto per la Comunità è sempre migliore l’Amministrazione dell’Appalto»: in quel periodo c’è stato un utile di circa seimila scudi, ed è stato mantenuto invariato il peso del pane. I Consoli si chiedono per quale motivo quell’utile dovesse andare a vantaggio di un privato anziché della Comunità. Ed aggiungono: «E quando anche dovesse seguire l’Appalto, converrebbe farlo col mezzo dell’incanto, per promuovere colle Offerte il maggior utile per il Pubblico» [69].
Martinelli, quando nel ’91 difende la libertà di panizzazione, non solo ripropone il problema della difesa dei «Poveri» già dibattuto nel ’63 ed affrontato concretamente con le «leggi» del ’70, ma suggerisce un superamento del sistema diretto dell’Annona e di quello dell’appalto, rompendo gli schemi tradizionali della dottrina economica del tempo. Questo dato di fatto e tutte le esperienze da lui compiute nell’attività pubblica, ci permettono di osservare che egli, nel ’96, ci si presenta non come un barricadiero improvvisato, ma quale intellettuale illuminato e riformista, la cui cultura ha radici più remote delle fresche avventure rivoluzionarie. Martinelli ben rappresenta un ambiente non conformista, che considera la cultura come principio ispiratore del mutamento sociale: per pura comodità concettuale, possiamo anche chiamarla francese (essa infatti sembra ispirarsi alla lezione dell’Illuminismo), ma al di là della semplice definizione, va ricordato che noi ritroviamo quella stessa cultura nel Beccaria del ’69 che esaltava i «benèfici lumi della ragione» ed il freno dell’opinione pubblica per sconfiggere i pregiudizi [70].
Dinanzi ai comportamenti repressivi dell’armata francese, Martinelli mantiene una salda autonomia di giudizio. Dopo che il 26 marzo ’97 «i Forusciti stanzionati in Santarcangelo» sono stati attaccati e dispersi dalle truppe napoleoniche, egli, quale presidente della Municipalità di Rimini, invia alla Giunta di Difesa della Cispadana una dura lettera, dichiarando che quell’attacco ad un’«orda di banditi» non meritava «l’onore della nostra paura» [AP 503].
La Giunta di Difesa reagisce con altrettanta severità, accusando Martinelli di essere sempre stato uno sfrontato doppiogiochista. Egli invero si è semplicemente comportato da sottile mediatore in momenti difficili, per evitare danni maggiori. Per queste sue qualità, lo ritroviamo al centro delle trattative sul «sopravanzo».



6. La richiesta al Buon Governo
Nella restituzione del «sopravanzo» venne individuato lo strumento con il quale cercare di avviare il mutamento dallo statu quo, come possiamo rilevare dalla passione con cui i pubblici amministratori di Rimini pongono e discutono il problema. I Consoli ritengono che se la restituzione avvenisse in parti uguali sia per i Laici sia per gli Ecclesiastici ed i «Luoghi Pii», «la massima parte di un Peso sì enorme piomberebbe sui Laici, i quali non vantano i Privilegi, e le Esenzioni, che gli Ecclesiastici pei loro beni di prima erezione, e patrimonj sagri da più rimoti tempi godono dai Pesi comuni ed estendono fin ai beni acquisiti». Dal Buon Governo si impetra una legge «che equitativamente conciglj l’indennità de’ privati Cittadini spogliati di quei Capitali, che li solevavano nelle loro urgenze, e del Pubblico esausto nelle sue Casse, coll’obbligo, che ànno specialmente gli Ecclesiastici di contribuire il superfluo agli Impotenti; superfluo, che loro deriva dalla generosità degli stessi Laici, che loro hanno dato i Capitali stessi in tempi più felici, e dalla esenzione, che godono per tanti secoli dai Pesi comuni a carico dei Laici medesimi». La Municipalità vorrebbe aver mano libera per poter agire direttamente «senza riguardo veruno a privilegj, ed esenzioni anche speciali» [71].
Nella missiva con cui i Consoli trasmettono questo Pro Memoria all’abate Quaglia si parla, con toni più accesi (e nello stesso tempo più sinceri), dell’«opulenza superflua degli Ecclesiastici» appartenenti ai «due Cleri»: i capitali da loro versati per la contribuzione sono «morti, e di solo lusso, che custodirono i Conventi, e le Sagrestie». Gli Ecclesiastici, sostengono i Consoli con mons. Luigi Martinelli (fratello di Nicola), che si trova a Roma, hanno «minor bisogno della Moneta, e capitali d’oro e d’argento somministrati» [72]. Il Pro Memoria era stato preparato per Quaglia e Luigi Martinelli affinché essi curassero l’estensione di una «supplica» che lo stesso Luigi Martinelli avrebbe dovuto presentare alla Congregazione del Buon Governo [73].
Quaglia, il 31 dicembre, avverte i Consoli che per quanto «risguarda la domanda, che si vorrebbe fare, qualunque sia il maggior possesso degli Ecclesiastici, Luoghi Pii, e Monasterj, e da qualunque fonte si voglia questo ripetere, è sempre certo, che la stessa domanda alquanto avvanzata, né produrrà il suo effetto, se non si colorisca al punto che copra almeno in parte la sua acerbità» [AP 999]. Quaglia suggerisce ai Consoli «d’esprimersi in termini più chiari della Legge, che si vorrebbe, e che a confronto degli Ecclesiastici, Monasterj e Luoghi Pii conciliasse la indennità de’ privati, che per le sofferte contribuzioni, [h]anno perduti i Capitali» [74].
A sua volta Luigi Martinelli il 14 gennaio comunica ai Consoli che collaborerà con il «procuratore» Quaglia a combinare «una supplica nella quale sull’esempio di quanto è stato fatto a Roma per ordine di S. Santità riguardo agli Argenti, ed Ori lavorati somministrati da questi Luoghi Pii, e Chiese di Roma, si domandi, che almeno interinamente, se non sarà possibile ottenerlo per sempre, venga sospesa la restituzione dei medesimi, e il pagamento de’ frutti corrispondenti» [AP 999].
Sempre del 14 gennaio è la lettera con cui Quaglia comunica ai Consoli che, a chi abbia somministrato «Argenti, ed Ori sopra scudi cento di capitale è permesso, o di percepirne il frutto al cinque per cento, o di ripeterlo con la dazione in solutum di qualche fondo spettante alle Confraternite, o Luoghi Pii della Città, o Luogo, di cui sia il creditore» [AP 999].
Il 25 gennaio Quaglia fa sapere a Rimini di aver, quella mattina, combinato con Luigi Martinelli «la supplica diretta al S. Padre per la grazia che venghino i secolari reintegrati del capitale, che hanno dato di più nella contribuzione, oltre al pagamento de frutti alla ragione del cinque per cento, con escludere i Luoghi Pii e Regolari per qualunque somma avessero somministrato in oro, ed argenti lavorati» [75]. La petizione «viene ad essere analoga alle provvidenze presesi e per Roma e per tutte le altre Provincie dello Stato, che sono andate esenti dall’invasione dell’Armata Francese» [AP 999].
Quaglia conclude: «Siccome poi la Provincia della Romagna non è stata compresa sotto la esattiva legge di dovere mandare in Zecca la metà di tutti gli Ori, ed Argenti lavorati, così non possono i Laici profittare dell’altro temperamento presosi in tutto il resto dello Stato di costringere i Luoghi Pii a dare in solutum i loro beni, ragion per cui non credo di azzardare la petizione della grazia» che i Consoli avrebbero desiderato «venisse estesa anche a cotesta Città» di Rimini.



7. Le trattative con il Vescovo Ferretti
Nei documenti del 29 dicembre [AP 502] inviati al Segretario di Stato Busca ed al Prefetto del Buon Governo Filippo Carandini, i Consoli di Rimini non accennano al problema della restituzione del «sopravanzo», implorando soltanto «il necessario soccorso di somme corrispondenti al bisogno»: l’argomento evidentemente era troppo scottante per poterlo affrontare attraverso i consueti canali epistolari, come testimonia lo stesso progetto della «supplica» romana.
Carandini risponde il 7 gennaio ’97 manifestando il proprio «sommo dispiacere» per «lo stato deplorabile» nel quale si era ridotta la Comunità di Rimini, ai cui bisogni avrebbe provveduto il Segretario di Stato Busca [AP 496]. Il quale scarica il problema «di trovar danaro» sul Vescovo, mons. Vincenzo Ferretti, al quale Busca «in Pontificio nome» affida l’incarico «d’impegnare tutta la sua Autorità, ed efficacia per procurare» alla città «dalle Case Religiose, e da Luoghi Pii i più facoltosi quelle maggiori somme, che si potranno, ad imprestito, sotto un interesse però discreto, e proporzionato all’angustia de tempi». Busca promette che «il peso di questo interesse» sarà a carico della Comunità stessa soltanto «per ora […] ma verrà in seguito ripartito sopra tutto lo Stato Pontificio» [76].
Ai Consoli riminesi non resta altro che iniziare «la trattativa» con il Vescovo della loro città, «per l’effetto dell’imposta provvidenza» [77]. Allo scopo, il 18 gennaio quattro deputati [78] della Municipalità (Nicola Martinelli, Ippolito Tonti, Aurelio Valloni e Gaetano Urbani), si recano da mons. Ferretti: l’accoglienza che essi ricevono è glaciale. Come siano andate le cose, i Consoli lo spiegano al Cardinal Busca: la «particolar Deputazione» è rimasta «sorpresa in udir» dal Vescovo che egli «aveva già convocato il Clero, e che l’aveva trovato amareggiato del nostro Pubblico per supposto, che lo avesse rappresentato» allo stesso Segretario di Stato «nimico della Patria, ed avaro de suoi soccorsi, e che già ne aveva accompagnate le sue doglianze» alla Segreteria di Stato, da dove mons. Ferretti attendeva una risposta, prima «di impegnarsi più oltre col Clero per l’adempimento degli Ordini Pontifici ingiuntigli» il 7 gennaio [79].
«Maggiore per[ci]ò è stata la sorpresa, ed amarezza nostra», aggiungono i Consoli al Cardinal Busca, «in sentirci imputata un’azione, che non abbiamo commessa, né potevamo pure pensarla, contro di un Clero, che rispettiamo ed amiamo per le sue esemplarità, ed attaccamento alla Patria». I Consoli aggiungono un altro motivo del loro stupore: vedere «differito, se non anche difficultato, l’effetto delle sovrane disposizioni». Il Vescovo Ferretti non ha esaminato la Memoria [80] recatagli il 18 gennaio dai quattro deputati, e contenente la proposta di creare con i «denari rimasti pel non seguìto intiero pagamento della Contribuzione all’Armata Francese, e depositati nel Sagro Monte di Pietà», un credito fruttifero da parte degli Ecclesiastici «contro la Comunità, la quale se ne valesse di tale somma negli urgenti bisogni della Cassa di guerra» [81].
Al tempo della contribuzione, aggiungono i Consoli a Busca, il clero non ha dato «veruna somma di danaro, ma solamente ori, ed argenti delle loro chiese», per cui ora si viene «a rendere in questo modo fruttifero un Capitale, che prima non lo era, e non lo poteva essere». Il clero, «nel nostro Distretto», sottolineano i Consoli, ha una possidenza «nella proporzione a quella dei Laici di Quindici, a Diecidotto», mentre ha versato, in metalli preziosi, «soli scudi 18.700 circa», contro «la vistosa somma di scudi 45.000, buona parte della quale in moneta effettiva», data dai Laici. Cioè, il clero che rappresenta il 45,5 delle proprietà registrate con l’estimo, ha soltanto versato il 30% delle somme raccolte: esattamente sono stati 19.168 gli scudi degli Ecclesiastici, e 44.654 quelli dei Laici [82].
Nel Pro Memoria per mons. Ferretti [83], era esposto il progetto steso dal «Consiglio piccolo» dei Signori Dodici: non potendo «imporre nuove gravezze […] senza portar l’ultima ruina ai Proprietarj, si è fissato di restituire ai Contribuenti la rata proporzionata al Danaro esistente nel Monte, ed al “dippiù” somministrato oltre la loro tangente per conto della Contribuzione, affine di abilitare le Case Religiose, e Luoghi Pii a somministrarne alla Comunità l’importo a titolo dell’ingiusta prestanza al discreto Fruttato però del tre per cento, e coll’obbligo di restituzione in que’ modi, e tempi» che sarebbero stati prescritti dal Pontefice. Gli amministratori della città confidavano d’incontrare presso gli Ecclesiastici «tutta la propensione a soccorrere in queste ristrettezze la Patria col Danaro, che deriva da capitali morti delle loro Chiese particolari, ossia dal Tesoro Generale della Chiesa».
Il Segretario di Stato Busca, il 21 gennaio, ordina a Ferretti «di prendere senz’attendere a veruna eccezione possesso del “sopravanzo” della Contribuzione Francese che resta tuttora in Deposito […] e di tenerlo a disposizione del Signor Conte Marco Fantuzzi Commissario Generale di Guerra per le provvidenze da darsi nelle pubbliche urgenze del giorno»: così leggiamo nella lettera indirizzata il 26 gennaio dallo stesso Vescovo ai Consoli di Rimini, con la garanzia che il «sopravanzo» sarebbe stato «reintegrato agli Illustrissimi Signori Comunisti a miglior tempo, e tosto che le circostanze» lo avessero permesso [84].
Il 28 gennaio a mons. Ferretti, per mezzo del Prefetto d’Entrata Pellegrino Bagli, sono consegnate quattro cedole del Monte di Pietà, per un valore complessivo di 10.875 scudi [85], facendo presenti «la necessità, e la ragionevolezza, che detta somma anziché errogarsi pei comuni bisogni», fosse destinata «a sollievo della Comunità» riminese «per la particolar causa di guerra» [86].
Come abbiamo anticipato, le quattro cedole non costituiscono però l’intera «vistosa somma» [87] del «sopravanzo»: in AP 927 si parla di 27.785 scudi ed in AP 880 di 29.608. Trasferendone al Vescovo soltanto 10.875, la Municipalità ha conservato una riserva destinata ad affrontare i problemi del momento.



8. La questione del «sopravanzo»
Il 29 gennaio i Consoli riminesi redigono un Pro Memoria diretto al Commissario Fantuzzi [88], in cui osservano che essi stessi «in venerazione dell’ordine sovrano allegato da Mons. Vescovo» non hanno «fatta veruna opposizione alla consegna» dei diecimila scudi, benché esso fosse «ben diverso dal progetto da loro fatto in Segreteria di Stato», al fine di usare tale somma «per le urgenti spese di guerra», e benché la stessa somma non fosse «di pubblica ragione quasi derivasse da un riparto proporzionale sui Possidenti ma piuttosto di ragione privata, appartenente cioè a quelli, che nell’istante generosamente contribuirono i loro Capitali non solo per la rata che ad essi poteva spettare, ma eziandio per quella, che molti, e particolarmente gli assenti non ànno pagata, e che per ciò dev’essere restituita per il “dippiù” ai primi, ed obbligati gli altri a riffonderla».
Il «sopravanzo», sostengono i Consoli, è una «somma spremuta dalle sostanze de’ generosi cittadini Riminesi»: di ciò, confidano che Fantuzzi tenga conto per non imporre nuovi pesi. Inoltre il «sopravanzo», «in diffetto di ogni altro mezzo poteva e doveva anzi per natura sua impiegarsi nell’estremo bisogno della Patria», ma il Vescovo ha «spogliati» i Consoli di quella somma.
A Fantuzzi si chiede che essa, in tutto o in parte, possa essere utilizzata per la locale pubblica cassa di guerra, «caricata già di debiti fruttiferi, ed esausta ciò non ostante di assegnamento alle sue spese, quando ciò sia in di lui potere; e diversamente sospendesse l’erogazione pei comuni bisogni finché si ottenga l’oracolo di Nostro Signore».
Nella lettera che accompagna il Pro Memoria, i Consoli spiegano a Fantuzzi che la sera del 29 gennaio era giunto «un dispaccio della stessa Segreteria di Stato» che aveva loro «dato adito di far costare» al Vescovo di Rimini «la natura della suddetta somma, e la spettanza di essa a chi sì degli Ecclesiastici, che dei Laici ha nell’istante contribuito di più della propria tangente nella buona fede di essere in proporzione dispensato dal contribuire alle altre Comunità ove possedeva; e di fargli toccare con mano la necessità, o la ragionevolezza, che detta somma anziché errogarsi pei comuni bisogni ceda a sollievo della Comunità nostra per la particolare causa di guerra».
Il 25 gennaio il Segretario di Stato Busca [89] scrive ai Consoli, dichiarando di essersi «compiacciuto della ingenuità, con cui si è secoloro espresso cotesto Monsignor Vescovo». «Al medesimo», aggiunge Busca, «ho significati già i sentimenti e gli Ordini di Nostro Signore rapporto agli oggetti di cui si tratta. Ad esso Prelato perciò potranno continuare a diriggersi» i Consoli medesimi, «dovendo aspettarsi ogni buona corrispondenza dal di lui zelo, e dalla giusta stima che» il Vescovo Ferretti professa nei loro confronti.
Busca conclude: «Nel resto sebbene non vada ben conforme quanto Elleno asseriscono rispetto alla possidenza, ed alla contribuzione degli Ecclesiastici, con quello che ànno essi realmente contribuito, e che possiedono, non lascia il S. Padre di confidare moltissimo nel loro attaccamento, ed Amore per la Religione, per la Patria, e lo Stato». È in questa lettera che Busca, come si è riportato, definisce Rimini un «Paese opulento», dai cui «ricchi Abbitanti» il Pontefice si attendeva «le maggiori prove di spontanea generosità, e grandezza d’animo».
A commento del dispaccio del Segretario di Stato, i Consoli scrivono a Fantuzzi [90]: «Non ci dispensiamo perciò dal rimettere a V. S. Ill.ma la stessa Memoria, affinché da essa rilevi i motivi, pe’ quali Monsignor medesimo si è rimasto tanto persuaso, che si è ripromesso di sospendere ogni atto sul predetto Deposito, e sulle Cedole, che ne aveva da Noi esatte, e di scriverne in corrispondenza» al medesimo Fantuzzi. I Consoli chiedevano, pertanto, di poter utilizzare per la cassa di guerra «quella somma che si dovrebbe restituire alle Chiese, e Luoghi Pii per gli argenti lavorati, che hanno somministrato di più della loro quota, come Mons. istesso ne accorda, e sospendere la disposizione della suddetta somma, ad altro uso, benché di pubblica urgenza, fintantocche dal Sovrano, cui ci diriggiamo immediatamente colle nostre ossequiose rimostranze, si ottengano ordini più precisi».
Le «rimostranze» vengono esposte il 31 gennaio [AP 502] al Segretario di Stato, in una lettera inoltrata attraverso l’abate Quaglia. La missiva personale all’agente romano, riassume i termini del problema: gli Ecclesiastici, «ignari del Progetto di far passare gli Argenti delle Chiese lavorati esistenti nel Monte per supplire alle spese di Guerra ingiunte alla nostra Comunità, ed urtati dall’ordine di Segreteria di Stato di dover somministrare a questa delle somme a tenue usura», avevano fatto ricorso alla stessa Segreteria di Stato «per esimersi da questo Carico». I Consoli di Rimini, dal «risultato di tale rimostranza» hanno ricavato la conferma di ciò che sospettavano: che gli Ecclesiastici medesimi hanno «rappresentato cose, o false, o calunniose».
Dopo che la Segreteria di Stato aveva fatto «sapere che a riempire il vuoto della pubblica Cassa si ordinava agli Ecclesiastici di somministrare al Pubblico delle somme a tenue usura [91], l’ordinario dopo per organo di Mons. Vescovo» veniva presentato «un Ordine Sovrano» con cui si comandava «di consegnare il «sopravanzo» della Contribuzione Francese, che esisteva nel Monte, «al Sig. Conte Marco Fantuzzi, e (noti bene) non per supplire alle spese di guerra ingiunte alla nostra Comunità; ma per supplire alle spese, alle quali è tenuta la cassa della Rev. Camera». La «singolarità maggiore di quest’ordine» (che confermava i consoli «nel sospetto della mala fede delle rimostranze fatte dagli Ecclesiastici»), era che il Vescovo aveva «occultate» tali rimostranze e non aveva voluto degnarsi di mostrare «la lettera originale» della Segreteria di Stato, inviando «il Precetto di consegnare la somma con un Decreto suo particolare appoggiato per quanto si dice all’ordine» ricevuto da Roma.
A Quaglia si fa osservare che la Segreteria di Stato aveva imposto al Vescovo di andar di concerto con I Consoli «in tutto questo affare» [92]. Mons. Ferretti invece ha mantenuto un «contegno clandestino» per mettere in cattiva luce i Laici. Presso il Cardinal Busca occorreva ora «provare ad evidenza, che gli Ecclesiastici, non hanno somministrato quello, che di giusto avrebbero dovuto, avuto rispetto all’Estimo rispettivo de’ Laici, e degli Ecclesiastici»; che non si poteva utilizzare per la Camera Apostolica «il denaro privato, e dato spontaneamente dai Cittadini privati per sollievo della loro Comunità»; e che, infine, «allorché i Francesi invasero la Provincia, si accumularono le somme della Contribuzione, ricevendo dai particolari o in moneta di banco, o in Argenti, ed Ori tutto quello che volevano, o potevano dare, dimodocché molte famiglie assi ricche non ànno contribuito per niente, e moltissimi, che in ragione dei loro capitali esistenti nel nostro Comune avrebbero dovuto dare per esempio scudi 200 di tassa ne ànno dato chi mille chi due mila, e chi tre mila» [93].
Per questo particolare, l’avanzo depositato al Monte, che «per le false rappresentanze spedite alla sordina dagli Ecclesiastici» si voleva «far passare nella cassa del Principe», era invece denaro «sacro» da restituire ai privati, i quali con le loro offerte avevano «liberato dall’esecuzione militare non solo la Città, ma anche la Provincia».
Nel messaggio a Busca del 31 gennaio [AP 502], in riferimento alla consegna delle cedole al Vescovo, i Consoli scrivono di non aver fatta «veruna opposizione in ossequio di un ordine sovrano», riservandosi «solo di giustificare» la natura di quel deposito «e la necessità di restituire con esso il di più pagato dai contribuenti». La mattina del 30 gennaio «una particolare deputazione» si è presentata a Ferretti, forte del messaggio inviato da Busca il 25 e giunto il 29 sera: «abbiamo avuto il contento di vederlo persuaso di sospendere l’errogazione di detto deposito nei comuni bisogni quando appartiene ai Privati». Il deposito poteva sostituire il prestito che non era sta stato concesso da Case Religione e Luoghi Pii, nonostante le «Sovrane disposizioni date allo stesso Prelato».
A Busca si rifà tutta la storia della contribuzione, come «un cumulo di volontarie offerte presentate nell’istante dell’invasione della Provincia», con la garanzia da parte del Pubblico che il «di più della rispettiva tangente» sarebbe poi stato restituito. Per mantenere fede alla parola data, la Municipalità aveva preparato il piano presentato a Ferretti in base alla lettera dello stesso Busca che il 7 gennaio aveva suggerito di «trovar denaro» presso il Vescovo della città. Dopo l’iniziale alzata di testa di Ferretti contro la Municipalità e la successiva sua persuasione di sospendere l’erogazione dei diecimila scudi, i Consoli ripropongono a Busca il vecchio piano, «per le istesse ragioni» esposte in precedenza «e per l’adesione in oggi del degnissimo Prelato» riminese. Tale piano, «senza ledere la giustizia dovuta ai Contribuenti può mettere in istato la Comunità di continuare le proprie spese di guerra, e sollevare i Cittadini dalla rovina, cui gli esporrebbe il sopracarico di nuovi pesi a tal uopo, dopo le sofferte calamità, e lo sproprio della Moneta e dei Capitali preziosi per la salvezza della Patria non solo ma anche della Provincia».
Per convincere il Segretario di Stato Busca alla loro tesi, i Consoli elencano i dati sulla contribuzione di scudi 63.822 «pagata dagli Ecclesiastici e dai Laici». Sono notizie che Busca conosce già per sommi capi e che ora vengono riproposte in maniera più analitica, per dimostrare la validità delle tesi avanzate.
Città e Bargellato dovevano versare scudi 17.238: «se ne sono pagati effettivamente» 37.356, «onde per le Comunità povere della Provincia li cittadini Riminesi hanno contribuito» con scudi 20.118. I Laici, sulla base di un estimo di 4.111 scudi, come abbiamo visto, hanno dato scudi 44.654, cioè 9.648 in più. Gli Ecclesiastici, che hanno un estimo di 3.383, «hanno dato solamente» scudi 19.168, cioè scudi 9.639 in meno di quanto avrebbero dovuto, cioè 28.807 scudi [94].
La Municipalità riminese spera che il Segretario di Stato Busca in vista della «sproporzione che passa frà il pagato dai Laici, e dagli Ecclesiastici in ragione del rispetivo estimo», approvi il piano, «anche per la riflessione che diecimila scudi non danno che un tenute sollievo allo Stato, ma portano bensì una risorsa alla Città, da cui sono stati spremuti». Cioè, se il Papa vuol farsi la guerra, se la paghi.
La lettera dei Consoli resta senza risposta. Gli eventi precipitano. Nelle stesse ore in cui il 31 gennaio viene steso questo documento diretto a Busca, Napoleone pubblica l’avviso che annunzia l’ingresso del suo esercito nello Stato del Papa. Il primo febbraio, Bonaparte proclama la rottura dell’armistizio, dichiarando guerra a Roma. Il 2 febbraio la resa di Mantova assicura ai francesi il dominio nell’Italia settentrionale, mentre a Faenza le truppe pontificie sono sconfitte dai soldati repubblicani. Il Vescovo di Rimini ed il Governatore della città, Luigi Brosi, fuggono a San Marino [95]. Lo stesso giorno i Consoli comunicano all’abate Quaglia: «Per meglio assicurarci, che non si levasse e non si divertisse intanto il Deposito, spedimmo al Sig. Conte Fantuzzi una Memoria ragionata per la sospensione di ogni atto».
Fantuzzi ha risposto «che non ricevette dalla Segreteria di Stato che l’ordine secco di disporre di quegli effetti di questa Comunità che Monsignor Vescovo per ordine della stessa Segreteria di Stato doveva» ricevere dai Consoli. Fantuzzi, inoltre, non poteva «farsi carico» delle ragioni avanzate da Rimini. «Questa sospensione», concludono i Consoli con Quaglia, «ci dà più campo di agire pel nostro intento».
La formula della «sospensione» usata in questa lettera ed il passo che abbiamo incontrato nelle missive a Fantuzzi ed a Busca [96] circa mons. Ferretti apparso ai Consoli «persuaso di sospendere l’errogazione» degli scudi ricevuti con le cedole del Monte, significano, con buona probabilità, che il Vescovo restituì le somme ricevute al «Pubblico». Forse ciò avvenne per la minaccia dell’avanzata napoleonica.
Il 3 febbraio ’97 al Prefetto d’Entrata Pellegrino Carlo Bagli è consegnato un Libro di Riparto delle Contribuzioni [AP 942] che reca la stessa data, affinché egli restituisca «quel di più» che era stato «pagato a norma del riparto ragguagliato al rispettivo Estimo». La restituzione deve avvenire «secondo in tutto della Parte presa nella Congregazione dei Signori Dodici, con far far in contro alla Partita di ciascheduno la ricevuta» [97]. Dalle cifre riportate nello stesso Libro di Riparto, si deduce che il rimborso è nella misura del 29,6 per cento soltanto per Laici ed Ecclesiastici. I «due Cleri» ne restano quindi esclusi.
Il 3 febbraio è anche l’ultima data [98] che appare nel registro dei verbali del Consiglio generale [AP 880], per l’adunanza nel corso della quale il Segretario della Comunità, Nicola Antonio Franchi, informa: si può «credere» che l’armata francese, dopo la vittoria a Faenza sui pontifici, stia per «occupare la nostra Città, e Territori, ora che tutti i Signori Superiori con una precipitosa fuga si sono spogliati di ogni Autorità». Per «non lasciare il Paese nell’Anarchia», si nominano due governatori provvisori: quello civile (il dottor Giannadrea Agli), e quello criminale (il conte Ippolito Tonti, già «deputato della Municipalità» presso mons. Ferretti). Il 4 febbraio sera i primi soldati napoleonici entrano a Rimini. Il giorno successivo sul Copia Lettere della Municipalità [AP 502], si scrive a grossi caratteri: «Governo francese».
Il Prefetto Bagli, incurante della rivoluzione politica provocata dalla conquista militare, continua nella sua attività secondo le direttive dei Signori Dodici, iniziata immediatamente lo stesso 3 febbraio [99], quando gli è stato consegnato il Libro di riparto, dove sono elencate 126 «quote» che assommano a 11.051 scudi. Quelle effettivamente pagate a 111 persone [100], sono pari a 10.789 scudi.
Le due cifre si avvicinano alla somma delle quattro cedole del Monte di Pietà (10.875 scudi). Ciò, tenendo conto della ricordata formula della «sospensione», potrebbe far pensare ad un utilizzo per il rimborso della «quota» del medesimo fondo costituito dalle quattro cedole del Monte. La percentuale del rimborso (29,6) è stata probabilmente determinata partendo dalla cifra disponibile con quelle cedole, per non intaccare la parte residua del «sopravanzo», ancora depositata al Monte di Pietà.
Dalla rielaborazione dei dati grezzi contenuti in AP 942, collegati a quelli presenti nei documenti finora esaminati, emerge una serie di elementi statistici [101], il più clamoroso dei quali riguarda l’evasione rispetto al dovuto, che per i Laici raggiunge il 73%, contro il 41 dei Religiosi, mentre la media è del 58,7.
Il 7 febbraio la Municipalità riminese scrive al «Cittadino Generale in Capite dell’Armata Francese in Italia Buonaparte», ricordandogli che nel luglio ’96 «quest’infelice Città senza la più piccola colpa per sua parte e solo per l’altrui acciecamento, fu costretta di pagare in tre giorni all’Armata francese la rispettabile somma di scudi sessantatremila settecento in moneta sonante di banco»; e che nei mesi precedenti all’arrivo dei francesi, il Papa aveva «esaurite tutte le nostre risorse forzandosi a dispendj, e sussidj straordinari per preparare una guerra, che è sempre stata disdetta dal nostro cuore» [102].
L’8 febbraio al Cittadino Guicciardi, presidente dell’Amministrazione Centrale romagnola (detta «dell’Emilia»), si ribadisce: «dopo lo spoglio che ha fatto il Papa del poco resto, che ci rimaneva in cassa per preparare la guerra, il nostro Comune è così depauperato, che non sapiamo dove, e come trovar danaro».
Bastava, per racimolare qualcosa, sfogliare i registri della Municipalità per scoprire che pochi mesi prima, nell’estate della contribuzione francese, il Ministro del Signor Marchese di Bagno si era trovato ad «avere una somma ragguardevole di Moneta fina», che non sapeva a chi concedere in prestito [103].



Appendice I. Il Generale Consiglio di Rimini dalle origini (1509) al XVIII secolo.
In origine (1509) il Consiglio era composto di 130 rappresentanti: «Nobili, Dottori, Mercanti, & Artigiani» [104], come ricorda R. Adimari nel suo Sito riminese del 1616 [t. II, pp. 7-8]: i «Gentil’huomini» erano cento; con l’andar del tempo nacquero «molti disordini, & emulationi» fra i due gruppi sociali di Nobili e Cittadini. Il numero dei consiglieri viene diminuito da 130 ad 80, fra 1653 e 1657.
Il 23 agosto 1653 il Consiglio [105] esamina la proposta di riduzione, ma senza prendere nessuna decisione: «Sopra che doppo molti Arringhi e pro, e contra non fù rissoluto cosa alcuna». La proposta era stata giustificata con due argomenti: che al momento della erezione del Consiglio «si trovava la Città più numerosa che non è di presente»; e che «in Romagna non si trova Consiglio il più numeroso del nostro».
Essa viene nuovamente discussa, con esito diverso, il 15 ottobre dello stesso 1653: per la «resecatione dei Signori Consiglieri» da 130 ad 80 («secondo, ch’andranno mancando le famiglie senza successori, fratelli, figlioli, e nepoti ex fratri»), si registrano 66 voti a favore e 24 contrari [106]. La decisione del consesso riminese è dapprima approvata nel corso del medesimo anno da un decreto legatizio; poi è confermata l’8 maggio 1657 da un «breve» di Papa Alessandro VII [107].
Nel 1687 si aumenta di dieci il numero dei Nobili e di tre quello dei Cittadini, «a condizione, che i primi dovessero pagare Scudi 1.000, e i secondi Scudi 300 per ciascuno» [108]. Le somme raccolte dovevano servire «per utilità pubblica massime della Povertà», per i debiti dell’Abbondanza e della Comunità: l’approvazione avviene con 44 voti pro e 13 contro.
Cinque anni dopo, il 18 ottobre 1692, le cifre vengono ridotte a metà (rispettivamente a 500 scudi per i Nobili ed a 150 per i Cittadini), «già che più non si ritruova chi voglia spendere» le somme stabilite, e si decide l’aggregazione di altri dodici Nobili e di quattro Cittadini, «senza pregiudizio d’altro numero»: lo scopo dichiarato, è di «levar il debito dell’Abbondanza» in Roma e di terminare la fabbrica del palazzo pubblico, con «tutto il denaro che si estraherà» dai Nobili (risultando da ciò «l’utile al Povero»), mentre le somme versate dai Cittadini dovevano servire «per accrescimento di Apparati, e Mobili per il Palazzo suddetto»: i voti a favore sono 44 e 30 quelli contrari [109].
La riduzione del 1692 è limitata ai dodici Nobili ed ai quattro Cittadini ‘nuovi’ previsti per quell’anno, come dimostra il provvedimento preso il 5 dicembre 1722, quando per i Cittadini viene ribassata la cifra originale (del 1687) da trecento a duecento scudi [110].



Appendice II. Contribuzione del 1796.

tabella buona

 
ABC  DE  [B-D] F  [A-E] 
CategoriaDovutoVersato[B-A] «Dippiù»Parte versataEvasione
Rel.28.80719.168- 9.639   2.21816.950 11.857 
Laici35.00644.654 +9.648 35.230  9.42425.582 
Tot.63.81363.822       +937.44826.37437.439 
Eccl.---30.032---13.74016.292---
TOT.---93.854---51.18842.666---


Legenda:
«A», Dovuto, cifra stabilita dalla Municipalità in base all’estimo.
«B», Versato, cifra versata complessivamente dalla categoria di appartenenza.
«C», differenza B-A.
«D», «Dippiù» registrato nei versamenti, rispetto alle quote dovute da chi non ha evaso.
«E», Calcolo del versamento delle parti dovute, senza il «dippiù» (B-D).
«F», Calcolo dell’evasione delle singole categorie (A-E).

Commento.
«Dovuto». Relativamente ai Religiosi (esclusi i «due Cleri»), va osservato che essi, oltre ai 19.168 scudi offerti, ne avrebbero dovuti dare altri 9.639 per un totale di 28.807, al fine di essere proporzionati al loro estimo di 3.383 scudi. Dividendo il totale previsto per l’estimo censito, si ottiene che ad ogni scudo di estimo corrispondono scudi 8,5152 di contribuzione. Questo coefficiente di 8,5152 moltiplicato per l’estimo di 4.111 dei Laici, dà per essi 35.006 scudi dovuti.
«Dippiù». Non tutti i Laici hanno versato il dovuto; quelli che lo hanno fatto, hanno dato anche 35.230 scudi in «dippiù» sui 44.654 complessivamente raccolti tra loro, per cui la parte versata del «dovuto» è di 9.424 scudi.
Evasione. Calcolando che i Religiosi hanno dato 9.639 scudi di meno e 2.218 di «dippiù», la somma delle due cifre indica il totale della loro evasione, pari a 11.857 scudi. Essendo il dovuto totale di Laici e Religiosi di 63.813 ed il versato di 26.374, la diffe-renza fra queste altre due cifre (cioè 37.439 scudi) corrisponde all’evasione totale di Laici e Religiosi. Detraendo da questi 37.439 scudi gli 11.857 dell’evasione dei Religiosi, restano 25.582 scudi di evasione per i Laici.
Parte versata del «dovuto». La parte versata regolarmente dai Laici si ricava sottraendo dal versato totale di 44.654 scudi il «dippiù» di 35.230: essa è di 9.424 contro quella di 16.950 dei Religiosi.
Statistiche.
• L’evasione dei Laici raggiunge il 73%, contro il 41 dei Religiosi, sopra una media del 58,7: «molti, e particolarmente gli assenti non ànno» pagato, avevano infatti comunicato i Consoli al conte Fantuzzi. Per gli Ecclesiastici dei «due Cleri» non possiamo determinare l’entità e la percentuale d’evasione, come si è precisato.
• Sul versato totale di 93.854 scudi, la parte complessiva relativa al dovuto ed effettivamente versata [colonna «E»] è di 42.666 scudi: 16.950 sono dei Religiosi (39,7%), 9.424 dei Laici (22,08), e 16.292 degli Ecclesiastici dei «due Cleri» (38,18).
• Riferendoci all’intero versato di 93.854 scudi [colonna «B»], la parte dei Religiosi (19.168 scudi) corrisponde al 20,42%; quella dei Laici (44.654 scudi) al 47,58; quella degli Ecclesiastici (30.032 scudi) al 32.
• Il «dippiù» dei Religiosi (2.218 scudi) è del 4,3%; quello dei Laici (35.230 scudi) del 68,8; quello dei «due Cleri» (13.740 scudi) del 26,8, sopra un totale di 51.188 scudi [colonna «D»].



Appendice III. Contribuzione del 1796, elenco alfabetico generale con dippiù e quota restituita, in scudi, bajocchi e denari.
Il nome è preceduto dalla categoria sociale (Nobile, Cittadino, Religioso) di appartenenza. L’asterisco che segue la categoria indica che non c’è stato ritiro del «dippiù»: sono in tutto 11 casi per complessivi 262 scudi. (Dati relativi a Laici e Religiosi, ma non ai «due Cleri».)

Le cifre sotto riportate vanno lette secondo questo schema:
catcognomenome«Dippiù»Quota
NoAgolanti Giambattista71 76 1021 19 6

No Agolanti Giambattista 71 76 10 21 19 6
No Almieri Michelangelo 157 55 11 46 61 2
Ci Ambrosi Felice e Giacomo f.llo 45 38 1 13 40 6
Ci Angelini Luca 77 22 1 22 81 6
Ci Angelini Ceci Barbara 30 84 3 9 9 6
Re* Antonelli Francesco, parroco di Morciano 7 42 6 2 17 6
No Baldini Giuseppe 748 9 2 221 39 0
No Bartolini Luigi 99 0 0 29 25 0
Ci Bartolucci fratelli 30 44 10 9 44 0
No Battaglini Gaetano Francesco 1189 96 7 352 18 6
No Battaglini Lodovico 433 66 5 128 12 0
No Belmonti Eredi del fu Pietro 26 70 3 7 84 8
Re Beltramelli Nicola, don 45 34 11 13 39 6
Ci Bentivegni fratelli 55 99 10 16 53 6
Re* Bernucci Luigi, don 8 75 0 2 51 0
Ci Berzanti Antonio 4 81 8 1 42 4
Re Berzanti Giovanni, don 32 45 9 9 54 0
Ci Bianchi Giuseppe, Cioccolatiere 27 91 11 8 21 6
Re Bianchini Dionigio, don 29 67 10 8 70 6
Re Bianchini Giacomo, don e f.lli 103 80 0 30 70 0
No Bonadies Carlo 47 49 4 14 3 2
No Bonadrata Ercole 446 03 6 131 19 0
No* Bonsi Francesco 26 25 0 7 74 0
Ci Bontadini Gaetano 21 0 0 6 19 6
No Bonzetti Marco 1698 33 6 502 96 0
Ci Borghesi Giuseppe, dott. e f.lli 781 12 1 231 17 6
Ci Bornaccini Luigi 107 70 7 31 86 6
Ci Bottini Domenico 46 78 8 13 81 0
Ci Bussetti Giambattista 226 33 5 66 25 0
Ci Campana Antonio 50 0 0 14 80 0
Ci Carli Giuseppe, paron 249 60 0 73 82 6
Ci Carpentari Bernardino 25 50 0 7 51 6
No Carradori Fregoso Federigo 53 65 4 15 84 2
Ci Ceccarelli Gaetano 83 17 7 24 57 6
Re Ceccarelli Gaetano, don 64 90 0 19 18 0
Ci Ceccarelli Luigi 23 44 3 6 91 0
Ci* Cherubini [Eredità] 22 82 6 6 71 0
No Cima Galeazzo 508 22 9 150 36 0
Ci Colucci Biagio Antonio 14 53 7 4 28 0
Ci Contessi Vincenzo 355 10 11 105 4 6
Ci Costa Franco Luigi 19 95 0 5 88 6
Ci Dionigi Carlo 103 07 6 30 44 0
No Diotallevi Francesco Maria 923 62 0 273 36 2
Ci* Donati Domenico Antonio 16 76 7 4 94 0
Ci Draghi Paolandrea, dott. 68 72 9 20 22 0
No Fabbri Ganganelli Lorenzo 1845 16 11 546 13 6
Re Fabbrini Domenico, don 26 66 5 7 85 8
No Fagnani Pietro 34 63 9 10 21 8
Ci* Faini Domenico 25 60 0 7 51 6
Ci Fantini Francescantonio 13 51 8 3 98 2
No Felici Daniele 96 68 10 28 55 8
Ci Ferrari Bernardo 66 70 0 19 63 0
No Ferrari Banditi Luigi, conte 714 89 3 211 60 0
Re* Ferretti Vincenzo, Vescovo 494 84 7 146 21 0
Re Foresti Antonio, don 33 31 4 9 82 4
Re Foschi Marco, don 1029 01 4 304 55 6
Re Franchini Luigi, don & f.llo 100 0 0 29 60 0
Re* Galeffi Carlo, don 10 0 0 2 96 0
No Galli Domenico, cap. 139 97 8 41 39 6
No Garampi Francesco, conte 125 49 8 37 11 6
No Garattoni Domenico 2894 15 11 856 62 0
Ci Giangi Nicola e f.llo 77 47 10 22 80 0
No Graziani Giambattista 65 80 8 19 42 6
No Graziani Girolamo, & f.llo 99 8 6 29 27 6
Ci Guidantoni Giuseppo 23 60 6 6 95 6
Ci* Leonardi Gregorio 10 13 4 2 98 8
No Lettimi Claudio 1513 98 10 448 12 6
Ci Magalotti Vincenzo 35 16 8 10 30 2
No Mancini Francesco 89 93 3 26 56 6
Ci* Manzaroli Niccola 105 73 7 31 28 6
No Marazzani Camillo 2 35 7 69 6
No Martinelli Niccola 2584 84 9 764 98 8
No Martinelli Pietro, conte 429 95 11 127 4 6
Re Massani Pietro, don 40 7 1 11 82 0
Ci Mattioli Fratelli 2965 63 6 877 70 6
Ci Morelli Maria 18 92 11 5 52 0
Ci* Morri Carlo, Corpolò 30 0 0 8 85 0
Ci* Mussoni Marco 15 0 0 4 42 6
Ci Nanni Pietro da Corpolò 30 34 1 8 93 0
No Nanni Torninbeni Salustio 445 43 2 131 60 6
Ci Nardini Pietro, eredità 1804 17 8 534 2 0
Ci Niccolini Francesco da Corpolò 44 17 3 13 4 0
No Paci Ippoliti Nicolò 154 84 11 45 77 0
Ci Palotta Filippo e f.lli 67 44 7 19 86 6
Ci Palotta Giovanni 28 73 5 8 47 0
Re Pani Nicola, don 28 1 11 8 19 0
Ci Panzini Antonio 53 80 0 15 87 6
Ci Panzini Gaetano 161 36 2 47 69 6
Ci Pasolini Lelio, avv. 278 30 0 82 32 0
Ci Passeri fratelli 241 0 0 71 31 6
No Piccioni Francesco 173 52 7 51 30 6
Ci Polverelli Domenico 44 50 8 13 14 0
Re* Prandi Vincenzo, padre dom. 14 57 6 4 28 0
Re Preti Carlo, don 45 87 8 13 54 6
Ci Ricci, e Semprini Lorenzo, dott. 93 30 9 27 55 6
No Ricciardelli Annibale 868 99 5 257 20 0
No Ricciardelli Filippo, conte 22 86 7 6 71 0
Ci Riccioli Niccola 55 21 9 16 27 6
Ci Rocchi Bartolomeo 94 2 18 27 78 0
No Ruffo Pompeo, conte 173 84 9 51 38 6
No Sartoni Garattoni Teresa 1556 34 3 460 64 0
Ci Selva Costantino & f.llo. 51 71 2 15 26 6
Ci* Sensoli Luigi & f.llo 59 51 3 17 56 0
No Simbeni Gaetano 109 66 2 32 27 0
No Soardi Luca 1292 96 4 382 67 0
No Soleri Girolamo 20 85 6 6 15 0
No Soleri Giuseppe 248 2 3 73 42 0
Re Sora Nicola, don 47 30 0 13 96 0
No Sotta Carlo 47 58 4 14 4 6
Ci Stacchi Nicola 19 54 2 5 75 2
No Stivivi Pietro 140 28 0 41 49 6
Ci Tacchi Antonio 34 62 8 10 21 4
Ci Tonini Vincenzo 196 77 2 58 10 0
No Tonti Ippolito 53 17 8 15 60 6
No Tonti Varzagli Virginia, cont.a 152 1 0 45 0
Re Tosi Giuseppe, don 9 31 3 2 75 6
Ci Urbani Gaetano 84 82 1 25 7 0
No Valloni Aurelio, dott. 1068 20 3 316 18 0
Re Vanucci Giuseppe, don 7 06 0 2 7 6
No Vanzi Francesco 88 84 5 26 28 0
No Vanzi Ottaviano, cap. 10 33 10 3 4 6
Ci Vasconi Gaetano, m° 50 0 0 14 80 0
Re* Vici Luigi, don 40 8 8 11 83 6
No Zanzani Francesco, cap. 107 25 0 31 74 70
Ci Zavagli Francesco, dott. 658 42 4 194 89 0
No Zollio Carlo 1310 35 0 387 85 0





NOTE AL TESTO
1 Della crisi economica del 1796 e delle reazioni popolari all’occupazione del Riminese nel febbraio ’97, abbiamo trattato nella comunicazione intitolata Fame e rivolte nel 1797, Documenti inediti della Municipalità di Rimini, presentata alle Giornate di Studi della nostra Società (1998, Cervia). Sulle rivolte popolari nel triennio rivoluzionario, cf. A. M. RAO (a cura di), Folle controrivoluzionarie, Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, Roma 1999; e G. TURI, Viva Maria, Riforme, rivoluzione e insorgenze in Toscana (1790-1799), Bologna 1999. Per il quadro sociale riminese nel 1700, cf. A. MONTANARI, Per soldi non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «romagna arte e storia» n. 52/1998, pp. 5-20.
2 Cf. la Notificazione in AP 999, Carte concernenti le fazioni militari, Archivio Storico Comunale di Rimini, in Archivio di Stato di Rimini [ASR]. La sigla AP indica gli «Atti Pubblici» della Municipalità di Rimini, conservati in ASR. Molti documenti non hanno numerazione progressiva delle carte o delle pagine. La riproduzione dei testi è fedele ai manoscritti: le integrazioni sono riportate tra parentesi quadra. I corsivi delle espressioni latine sono stati aggiunti da noi. Sulla Notificazione, cf. pure in M. A. ZANOTTI, Giornale di Rimino 1796, t. VII, pp. 119-121, SC-MS. 314, Civica Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR].
3 Cf. nel cit. AP 999 il modulo a stampa per intimazione ad personam.
4 Il convoglio riminese era stato «ritardato per due giorni per la deficienza del passaporto»; esso fu scortato «dalle nostre Guardie Civiche a cavallo sebben non munite di salvacondotto»: cf. ZANOTTI, Giornale di Rimino 1796, cit., p. 192-193.
5 Cf. AP 502, Copia Lettere della Municipalità, dal 1° maggio 1796 al 28 febbraio 1797, 2.7.1796. Le lettere di seguito riprodotte, ed in partenza dalla Municipalità di Rimini, appartengono al cit. AP 502.
6 Questo dato si ricava dal quadro riassuntivo definitivo esistente in AP 927, Giornale di Entrata e di Uscita dal 1790 al 1796, dove la somma riscossa finale è indicata in scudi 95.117, dai quali, per ottenere la cifra da noi riportata, vanno detratti scudi 1.446 («accrescimento di valore») e vanno aggiunti 183 scudi di spese [95.117-1.446=93.671+183=93.854]. Nello stesso documento si legge che 19.436 scudi erano stati versati dalle Municipalità «annesse». In AP 880, Atti del Consiglio Generale, 1796-1801, si parla di una raccolta di 96.687 scudi e della spedizione di 67.079. Anche in AP 943, Giornale Contribuzioni 1796-1797, il «dare» nel luglio 1796 è indicato in 67.079 scudi, con la precisazione che la tassa militare dovuta da Rimini «e suoi annessi» era soltanto di 51.408 scudi, per cui alla città spettava un «sopravanzo» di 15.671 scudi portati a debito della «Provincia di Romagna». (Questi 15.671 scudi, in altro prospetto di AP 943, sono portati a debito della «Provincia di Romagna» assieme ad altre tasse, spedite fra 14 febbraio e 18 marzo ’97, per complessivi scudi 38.436.) In una petizione inviata a Napoleone il 7 febbraio 1797, il totale della contribuzione è indicato in 63.700 scudi. Il cit. ZANOTTI, Giornale di Rimino 1796, p. 265, stabilisce la prima rata della contribuzione in 68.985 scudi, più altre spese tra le quali quelle «per calmare il popolo» (scudi 49:93), e per ventiquattro cavalli (scudi 3.290), per cui il totale di bilancio è di 78.340 scudi.
7 Si può spiegare facilmente la differenza tra le due cifre di 67.332 e 63.822 scudi, pari a 3.510. I 67.332 scudi indicati in AP 927, comprendono i 3.290 scudi per i ventiquattro cavalli requisiti dai militari francesi (già ricordati nel cit. Giornale di ZANOTTI, p. 265); ed altre piccole spese (per 220 scudi) non calcolate nella cifra precisata al Segretario di Stato il 31 gennaio 1797. Il 29 dicembre 1796, al medesimo Segretario di Stato era scritto di una raccolta di «67, e più mila scudi».
8 Il Clero Secolare comprende: 1. Angeli, Venerabile Monastero; 2. Carmine, Venerabile Compagnia di Cattolica; 3. Casale, Oratorio della Beata Vergine; 4. Celibate Venerabile Collegio di Santa Cecilia; 5. Centura, Venerabile Compagnia in Sant’Agostino; 6. Concezione, Venerabile Compagnia ne’ Servi; 7. Croce, Venerabile Compagnia di Rimino; 8. Giglio, Venerabile Cappella della Madonna; 9. Mastini, legato; 10. Monte Altano, Chiesa parrocchiale; 11. Oratorio del Rosario in San Vito; 12 Reverendo Capitolo della Cattedrale; 13. Santa Chiara, Venerabile Monastero; 14. Santa Cristina, Cura; 15. Sagro Cuor di Gesù, Venerabile Monastero; 16. San Bartolomeo, Venerabile Ospedale dei Pellegrini; 17. San Fortunato, Cura; 18. San Giacomo, Venerabile Compagnia; 19. San Giovambattista Venerabile Compagnia; 20. San Girolamo, Venerabile Compagnia; 21. San Giuseppe, Venerabile Compagnia di Rimino; 22. San Lorenzo in Coregiano, Cura; 23. San Martino, Cura di Rimino; 24. San Martino Montelebate, Cura; 25. San Matteo, Venerabile Monastero; 26. San Rocco, Venerabile Compagnia di Rimino; 27. San Sebastiano, Venerabile Monastero; 28. San Tommaso, Cura di Rimini; 29. Sant’Antonio, Oratorio sul Porto; 30. Sant’Antonio, Venerabile Compagnia della Piazza; 31. Sant’Ermete, Cura Sig. Don Domenico Gudi, Maestro; 32. Sant’Eufemia, Venerabile Monastero; 33. Sant’Innocenza, Cura; 34. Santa Croce, Cura di Rimino; 35. Santa Maria in Accumine, Compagnia; 36. Santa Maria in Corte, Cura. Clero Regolare: 1. Agostiniani, RR. PP.; 2. Carmelitani, RR. PP.; 3. Colonnella, RR. PP. del Terzo Ordine; 4. Domenicani, RR. PP. Predicatori; 5. Francescani, RR. PP. Conventuali; 6. Girolomini, RR. PP. Romiti; 7. Minimi, RR. PP. di San Francesco di Paola; 8. Reverendissima Inquisizione; 9. San Bernardino, RR. PP. Minimi Osservanti, Monastero; 10. Santa Maria delle Grazie RR. PP. Minimi Conventuali Osservanti; 11. San Gaudenzo, Venerabile Monastero; 12. Serviti, RR. PP. di Rimino; 13. Teatini, RR. PP. Chierici Regolari.
9 L’estimo è ricavato dai Libbri Volture del cosiddetto «Catasto Calindri», creati nel 1774: cf. in ASR i registri nn. 16, Catasto de’ Nobili; n. 17, Catasto. de’ Forestieri; n. 18, Catasto degli Ecclesiastici. Nel registro n. 18, p. 3, sotto il titolo «Cleri, Beni Acquisiti, Beni Antichi» si legge: «L’estimo è regolato uniformemente a quello de’ Secolari in proporzione del fruttato a grano, e considerato il solo nudo terreno».
10 Cf. AP 942, Restituzioni in causa Contribuzioni pagate dippiù.
11 Di questi 13.740 scudi, 7.395 sono del Clero Secolare, e 6.345 del Clero Regolare.
12 Nicola Martinelli ha guidato il convoglio del 3 luglio a Cesena (cf. ZANOTTI, Giornale di Rimino 1796, cit., p. 192). Sul conte riminese si veda anche il nostro Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli», XLVIII (1997), pp. 570-574.
13 Il documento è intitolato «Articolo addizionale al trattato d’armistizio» (Fondo Gambetti di Stampe Riminesi, BGR).
14 Cf. il cit. Fame e rivolte nel 1797.
15 Per tutto il secolo, Rimini aveva dovuto subire il continuo passaggio di truppe, con le conseguenti spese e sofferenze: cf. in A. MONTANARI, Lumi di Romagna, Il Settecento a Rimini e dintorni, Rimini, 1992-93, il cap. 9, «15 mila soldati, compresi 4 mila cavalli», pp. 85-92.
16 Il passo rivela un atteggiamento politico che nasce non soltanto da immediate considerazioni relative alle disastrate finanze cittadine, ma anche da una più generale visione filosofica, legata alle idee illuministiche, diffuse specialmente in alcuni gruppi aristocratici.
17 Cf. la lettera all’abate Quaglia del 29.12.1796 [AP 502, cit.]: «privi come siamo di ogni providenza da parte della Legazione».
18 L’originale è in AP 999, cit., 4.1.1797; la copia in AP 496, Corrispondenza del Governatore di Ri-mini 1794-97, c. 45.
19 Cf. AP 496, cit., 25.1.1797.
20 Sull'argomento, cf. A. MONTANARI, Una fame da morire, in «Pagine di Storia & Storie», V/10 (suppl. a Il Ponte, Rimini), 14.3.1999. Il Buon Governo spiega a mons. Garampi che per i «40 giorni incirca che mancano al raccolto, non può essere la Città tanto sprovvista, quanto si rappresenta, e che intanto la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali supplire a qualche deficienza di Pane». Commenta Garampi: «In somma nulla è da sperarsi. […] Compiango vivamente la presente nostra calamità, la quale resta anche più sensibile, perché non compatita» [AP 662, 1700. Corrispondenze epistolari colla Magistratura, 9.5.1767]. A Garampi, i Consoli rispondono che per le quarantamila anime di Città e Territorio (la Diocesi di Rimini, compresa la città, ne conta 67.374), vi è «la mancanza di tutti i generi necessarj al vitto umano»: la campagna non dà «frutti, ed erbe da alimentare», per cui i contadini non sono «capaci a sostenere le fatiche de’ presenti necessari lavori per la coltura delle Terre. […] Ella sa di quale natura sieno i terreni del nostro Territorio, i quali esiggono una gravissima fatica, e tutta la robustezza per lavorarli coll’aratro, e molto più colla vanga, ond’è necessario che i contadini si cibino di cose sostanziose, ed a sazietà» [AP 487, Registro delle lettere, 1766-68, 14.5.1767].
21 Cf. ZANOTTI, Giornale di Rimino 1796, cit., p. 266.
22 Così si legge in AP 502, cit., a tale data.
23 Sull’argomento cf. il cit. Per soldi….
24 La lettera (dei Consoli di Rimini ai «Signori Anziani di Faenza»), è relativa all’«Ordine civico»: cf. AP 502, cit., 27.9.1796. Sull’argomento si veda l’Appendice I. Il Generale Consiglio di Rimini dalle origini (1509) al XVIII secolo.
25 Riportiamo anche la parte restante del documento: «Gl’Individui di questo secondo ordine sono amessi tanto alla prima Magistratura, quanto agli uffizj, ed elezioni subalterne, non in numero eguale ai Nobili, ma per la quarta parte. Nella stessa proporzione intervengono ai Consigli ed alle Congregazioni, e vi hanno il voto decisivo egualmente che i Nobili, trattandosi di affari pubblici, ed economici: ma non hanno parte nei meri onorifici, come sono le ambascerie, l’elezione al nobile casino, ai veglioni, ed alla corsa de Barberi. Nell’adunanze giornaliere, ed ordinarie del Magistrato costituito di otto soggetti hanno luogo i Signori Cittadini in numero di due. Nell’esercizio de’ pubblici impieghi, come di abbondanzieri, grascieri, ed in qualunque altro, vi sono impiegati al paro dei nobili, sempre però colla suddetta proporzione di numero. Così egualmente nelle Congregazioni del conto privilegiato, ed altre economiche. Ogni cittadino ha lo stesso onorario che hanno i nobili per la magistratura, e la stessa parte che quelli in individuo nelle altre propine, e distribuzioni. Nei Consigli, e nelle Congregazioni cui intervengono il magistrato e i nobili, sogliono i cittadini prendere l’ultimo luogo. Alle funzioni pubbliche per solennità, ed altre intervengono colla Magistratura coll’abito del tutto uniforme a quello dei Nobili. Il posto di Consiglio vacato per morte del Padre appartenendo alli Possidenti, il Consiglio ha diritto di conferirlo al più idoneo, ma ordinariamente si dà al figlio primogenito. Per legge imposta dalla Santa Memoria di Giulio II, ed osservata dai suoi commissarj nella erezione del Consiglio ecclesiastico del 1509, e riformata in quanto al numero di 18 da Alessandro VII, il Second’Ordine ha luogo nell’esercizio delle Magistrature, e cariche pubbliche. Le ha al pari dei Nobili nell’ordine le Podesterie, e Giudicature, cui sieno eletti i cittadini dai rispettivi Consigli delle 23 Terre, e Castella del nostro Contado, e nel conseguire certi Uffizj pubblici, che sotto il titolo di Grazie si estraggono ogni tanto a benefizio dei Consiglieri Nobili e civici partecipanti. […]». Il territorio riminese comprendeva: la Città, il Contado [con 25 Castella, come Saludecio, Montefiore, Roncofreddo] ed il Bargellato [costituito da 28 Ville o Fondi, come Bellaria, Santa Cristina].
26 Nel 1761 Lettimi è accusato di contrabbando di farina dall’Appaltatore dell’Annona per aver pagato gli «operarj del Filatojo» con la stessa farina «in scomputo della mercede». A lui il Bargello non ha fatto nulla, mentre ha incarcerato «due de’ medesimi Filatoglieri» coinvolti nella vicenda. [Cf. AP 876, Atti del Consiglio Generale, 1760-1766, cc. 25v-26r.] La storia si ripete in seguito. Il 30 luglio ’63 ad Angelo Sagramora, «conduttore» della privativa del pane e della farina, la Giustizia di Roma dà torto: Andrea Lettimi può tranquillamente pagare i salari della sua officina serica con il grano di sua proprietà. Sull’argomento, cf. A. MONTANARI, Il pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII. Documenti inediti, in «Romagna arte e storia», n. 56/1999, pp. 5-26. L’aggregazione fra i Nobili di Andrea Lettimi, è del 1770. [Cf. AP 877, Atti del Consiglio Generale, 1766-1777, p. 150.] ZANOTTI nelle sue Genealogie di famiglie riminesi [t. II, SC-MS. 188, c. 62v, BGR], scrive che «per vari favorevoli accidenti» Lettimi era salito «a felice stato di ricchezze».
27 Cf. il cit. Per soldi…, p. 9. Anche le successive notizie sui «Matrimonj disuguali» sono riprese da questo nostro testo.
28 Tali «Capitoli», votati a Rimini il 24 marzo, sono approvati dalla Sacra Consulta romana il 2 maggio 1764. Cf. AP 876, cit., cc. 115v-116r/v.
29 Cf. C. TONINI, Rimini dal 1500 al 1800, t. I, Rimini 1887, pp. 751-752.
30 Nel cit. Fame e rivolte nel 1797, abbiamo parlato di «un sogno municipalistico che lo Stato coincidesse soltanto con le mura della città». Riportiamo da F. VENTURI, L’Italia fuori d’Italia, in «Storia d’Italia, 3, Dal primo Settecento all’Unità», Torino 1973, p. 1135: la conquista francese scatena «innanzitutto un moto cittadino, comunale», con una volontà di autogoverno della propria città, e con la conseguente «lotta sociale, tra cittadini e paesani, tra nobili e borghesi, tra patrizi e plebei». In V. SANI, Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (nel cit. «Folle controrivoluzionarie», pp. 195-196), leggiamo che «la svolta repubblicana venne inizialmente interpretata dal ceto dirigente locale come riconquista di quell’autonomia municipale sempre più duramente contrastata e negata, a partire dalla seconda metà del Settecento dalla politica centralista dei pontefici riformatori».
31 Cf. in AP 561, Intimazioni e biglietti, 1774-1800.
32 Copia del chirografo di Pio VI è conservato in AP 690, Causa Gambalunga 1700, ASR.
33 Alessandro Gambalunga, fondatore dell’omonima Biblioteca riminese, morì nel 1619. Sulle vicende culturali della Gambalunghiana nel XVIII sec. e sopra alcuni aspetti della disputa ereditaria, cf. A. MONTANARI, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti inediti, «romagna arte e storia», n. 49/1997, pp. 57-74.
34 Cf. AP 875, Atti Consigliari 1735-1745, c. 95r.
35 Cf. AP 875, cit., 31.10.1744, c. 157v-162v. Circa queste liti, già nel 1651 esisteva una commissione di «eletti della città» che dovevano affrontare le controversie con gli ecclesiastici: cf. AP 867, Atti Consigliari 1629-1655, c. 297v. In AP 876, cit., 9.9.1763, c. 36v, leggiamo che fu approvato di «dare fa-coltà […] d’istruire giudizio in questo Tribunale Vescovile, ed in qualunque altro Tribunale anche di Roma, contro tutti quei sacerdoti che sono provveduti di Beneficj Ecclesiastici per ottenere la secola-rizzazione de’ di loro Patrimonj Sagri, onde potersi gravare ad instar di tutti i Pesi Camerali ed altre Gravezze».
36 Agli ecclesiastici, con i «Capitoli» del 1744, inoltre si riconosce il diritto ad ottenere il rimborso per aggravi che fossero stati decisi dal Contado e «che ferissero i Beni Antichi o sopra le Grascie, o sopra altro genere» [AP 875, cit., 31.10.1744, 162v].
37 La transazione del 1664 riguarda un «sussidio somministrato» alla Santa Sede per tremila scudi nei «bisogni di guerra», con denari in parte disponibili ed in parte presi a censo con «l’ordine preciso che vi devano concorrere li tre corpi, Ecclesiastici Regolari, e Secolari, Contado, e Barigellato». I denari disponibili erano «destinati all’estinzione de Luoghi di Monti assunti per la guerra d’Urbano Ottavo» del 1642, durante la quale «Rimino sofferse molto dalla sola fermata di compagnie del reggimento Pepoli, composto in gran parte di ladri e d’omicidarj»: così scrive A. BIANCHI nella Storia di Rimino. Manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, p. 161. Il testo della transazione si trova in AP 869, Atti Consigliari 1665-1676, 2.2.1664, cc. 113v-114r. Una clausola riguarda tutti i «nuovi Dazj» che, dopo le estinzioni dei debiti esistenti e fino a che non fossero stati tolti, dovevano restare a favore «della sola Communità», cioè dell’amministrazione cittadina.
38 Ogni Castello aveva, «rispetto alle Collette, ed altre Provvisioni economiche il suo territorio distinto, sopra cui cader non possa qualunque gravezza imposta». Questo principio si pone specularmente rispetto alla decisione del 1664 che aveva fatto convogliare sulla «Communità» cittadina i «nuovi Dazj» appena citati.
39 Per quello che TONINI, op. cit., t. I, p. 646, ricorda esser stato definito «l’iniquo accomodamento» fra Chiesa ed Austria del dicembre 1744, Rimini doveva sborsare un mensile di 1.978 scudi. Sui soldi presi a censo fra 1742 e 1743 per il passaggio e la permanenza di truppe estere (si tratta in tutto di 31.500 scudi), cf. in AP 875, cit., sub 23.1.1742, 12.5.1742 e 29.3.1743. Per i ‘rimborsi’ romani, si veda dal 27.4.1743 al 21.11.1745.
40 Cf. il cit. Una fame da morire. La lettera a Garampi è nel cit. AP 487.
41 Un interessante esame della situazione romagnola prima dell’occupazione francese, però limitatamente a Cesena, è in F. FOSCHI, Utopia e realtà. I rapporti della comunità di Cesena con i papi concittadini Pio VI e Pio VII, in «Due papi per Cesena», a cura di P. ERRANI, Bologna 1999, pp. 4-57. Il discorso di Foschi, al di là dei riferimenti legati all’ambiente cesenate, sottolinea aspetti generali di quel momento: da una parte esiste, nella nobiltà, un filone di cauto riformismo (p. 16); dall’altra c’è quel patriziato che è «più aperto alle novità» ma che «non poteva facilmente accettare la fine della società ordinata per ceti esportata dai rivoluzionari francesi con la conseguente eliminazione dei privilegi», per cui esso cerca «di addomesticare le novità […], orientandole semmai a discapito di altri, per esempio del clero ritenuto pretenzioso ed arrogante» (pp. 27-29). Questo particolare accomuna Cesena a Rimini, per la vicenda di cui ci occupiamo. Un’altra osservazione di Foschi è utile riportare: «La nobiltà cesenate sul finire dell’ancien régime si credeva ancora eterna, celebrava compatta i suoi fasti e si preparava ad una mutazione che ne conservasse alterato il predominio» (p. 29).
42 Il fenomeno avviene anche altrove. Ad esempio, V. SANI, op. cit., p. 196,parla di «un unico blocco trasversale all’interno del ceto dirigente ferrarese», fra ex nobiltà ed il «nutrito ceto medio cittadino».
43 Sul problema dell’interpretazione del giacobinismo come corrente ideologico-politica, «i cui confini, peraltro, non è sempre agevole tracciare con nettezza», cf. L. GUERCI, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Bologna 1999, p. 10.
44 «Corre il quart’anno della libera panizzazione», scrive Nicola Martinelli in un’operetta di cui diremo, la Risposta (p. 30). Sull’argomento, cf. il cit. Pane del povero.
45 Cf. ZANOTTI, Giornale di Rimino 1779-1793, t. V, SC-MS. 312, BGR, pp. 294-307. Zanotti sottolinea che Devais era «di favorevole sentimento al libero mercimonio». (Il testo del Giornale è ripreso da TONINI, op. cit., t. I, pp. 761-764.)
46 In calce all’ed. conservata in BGR [segn. 11.MISC.RIM.XLVIII, 3], si legge questa frase scritta a penna: «Je n’ecris pas pour les personnes qui, même en matiere bocoup important, eppreuvent tout et ne veulent rien approfondir».
47 Osserva ZANOTTI, Giornale di Rimino 1779-1793, t. V, p. 299: «I sostenitori dell’Annona nulla risposero», mentre «i fazionarj della libertà non si appagarono di un tal silenzio, ma fermi nel loro pensamento, aggiunsero alle prime invetive le seconde col saldo de’ loro sentimenti, procurandone la sollecita impressione».
48 Cf. alle pp. 3-4. (La pubblicazione a stampa è inserita nello stesso t. V del Giornale di ZANOTTI.) Se contrapponiamo le parole di Martinelli al giudizio espresso da Zanotti («sottilissimi sofismi»), constatiamo come la mentalità di quest’ultimo avesse un’impronta codina, e fosse più portata a credere nelle verità delle leggi e del potere che le incarnava, piuttosto che nel primato del divenire storico. (Cf. il cit. Fame e rivolte nel 1797.) Si rammenti, al proposito, anche l’espressione usata da Zanotti sulla «Plebe ignorante».
49 In BGR [segn. DSS 278] è presente il t. XLI del Journal des Sçavans (Amsterdam, 1769), con il discorso pronunciato da C. Beccaria Bonesana all’apertura della nuova Cattedra d’Economia politica alle Scuole palatine di Milano, ampiamente commentato dalla redazione dello stesso Journal.
50 Cf. l’introduzione di C. A. VIANELLO ad Economisti minori del Settecento lombardo, Milano 1942, pp. LXIV-LXVII. Qui v. (p. 372) l’«aritmetica politicoeconomica» del Piano di scienza politico economica di G. BIUMI, 1773.
51 Già nella cit. comunicazione su Aurelio Bertòla politico, abbiamo ricordato che, ricacciati i francesi nel ’99 dagli austro-russi, gli Amministratori riminesi stilano un riservato riconoscimento dell’attività di Martinelli allorquando da Milano la Commissione generale di Polizia richiede «un’esatta informa-zione» sulla sua condotta dopo l’invasione e l’occupazione da parte di soldati di Napoleone. La rispo-sta sottolinea che tale condotta «lontana dall’aver ispirato cattiva opinione di se stesso è stata piutto-sto riconosciuta plausibile in rapporto all’interesse, che indefessamente in sì terribile occasione ha adoprato per migliorare la funesta sorte della stessa sua Patria invasa dal Nemico, come altresì per lo zelo, ed impegno dal medesimo addimostrati per conservare il buon ordine, e la pubblica tranquillità, essendovi in ambidue gli oggetti riuscito per quanto lo portavano le in allora luttuose circostanze» [AP 545, Lettere Segrete della Magistratura, 5.11.1799]. Alla sua scomparsa nel 1805 a 63 anni, si meriterà un elogio da parte del cronista N. GIANGI: «È morto il conte Nicola Martinelli, l’uomo più bravo in politica che avevamo» [cf. Cronaca, SC-MS. 340, BGR]. Nel 1764 a 22 anni non ancora compiuti, Martinelli aveva sposato Diamante Garampi, «donna di grande spirito, e di particolare avvenenza» [ZANOTTI, Genealogie di famiglie riminesi, t. II, SC-MS. 188, BGR]. Diamante era figlia di Maria Angela Valentini che aveva sposato nel 1741 Francesco Garampi, fratello del Cardinal Giuseppe, Nunzio Apostolico di Santa Romana Chiesa. Quindi Nicola divenne, per parte della moglie Diamante, nipote acquisito del porporato (defunto nel 1792). Inoltre, nel 1769 in seconde nozze, Francesco Garampi sposa Geltrude Martinelli, cugina di Nicola. Questo intreccio di parentele con una famiglia così importante come quella del Cardinal Garampi, non dovrebbe essere sottovaluto nel prender in considerazione il ruolo che Nicola Martinelli svolse soprattutto nei momenti più drammatici del ’96-97. Sulle nozze di Diamante, oltre ai Commentarj di E. CAPOBELLI, t. V, SC-MS. 307, rimandiamo ad un passo della pubblicazione a stampa sulla causa Garampi-Martinelli-Soardi, Per il tribunale d’Appello di Bologna nella causa riminese di cessione e rinuncia del Sig. Lorenzo Garampi contro la Signora Maria Martinelli, ecc. [BGR, segn. 11.MISC.RIM.,CLXXXI, 32], dove si legge che la ragazza «vivendo a capriccio volle anche a capriccio e contro il volere del Padre unirsi in matrimonio» [p. 13].
52 Cf. AP 876, cit., c. 75v. La presenza dei nobili Martinelli nel Consiglio riminese è attestata già dal 1509. Nel corso del sec. XVIII due rami collaterali si contendono la rappresentanza della loro famiglia nell’attività politica, come è documentato in AP 731, Diplomi, patenti, certificati 1600-1700, in un fascicolo intitolato «Attestato della Famiglia Martinelli 1773». Inizialmente (1716) prevale Ignazio sul nipote Giuseppe (figlio di un fratello), il quale però nel 1727 riesce a farsi nominare nobile «in ubbidienza agli Ordini Pontificj». Giuseppe è padre di Nicola, di cui parliamo. Il ramo di Ignazio recupera nel 1767 con l’inserimento tra i nobili di Pietro, del quale Ignazio è il nonno. Anche Pietro viene ammesso in anticipo sull’età prescritta, a circa 18 anni.
53 Si ha appalto dall’anno annonario 1744-45 al ’46-47. Poi il sistema diretto dell’Abbondanza dal 1747-48 al ’54-55, con ripresa dell’appalto dal ’55-56 al ’64-65.
54 I documenti si trovano in AP 876, cit., cc. 92-97, 11.6.1763.
55 Queste affermazioni sembrano rimandare alla dottrina di Nicola Martinelli, per quanto almeno essa appare nella Risposta, dove egli tratta dei «poveri Contadini», definiti la classe «la più indigente, la più utile, e numerosa della società»: cf. a p. 28 della Risposta, dove il concetto viene ripetuto a p. 35 («Contadini, classe infinitamente più numerosa, più utile, più indigente). Diversa è l’opinione sui marinai, definiti «classe meno bisognosa e che ha più risorse» (p. 35).
56 Cf. AP 876, cit., cc. 100-104r. Si trattava del grano della Mensa vescovile e delle abbazie (rette dal Cardinal Luigi Torregiani) di San Giuliano e di San Gaudenzio: cf. ibid. c. 101v.
57 Sull’argomento, e sulle difficoltà incontrate per gli acquisti di grano e l’accumulo del denaro occorrente, cf. AP 876, cit., cc. 142-167. L’emergenza economica può essere la causa della bocciatura della proposta circa la riapertura della «Fiera sul Porto», sospesa nel 1730 [ibid., c. 104]. Per la «straordinaria carestia», nel 1766 si decidono due sovvenzioni per i poveri e distribuzioni di «elemosine». La prima è del 12 luglio, quando si delibera «d’iniettare per ora mille rubbj di Formentone», a favore «de’ poveri Coloni solamente di questo Barigellato nel presente anno di straordinaria carestia […] solamente con idonea sigurtà però de’ rispettivi Padroni» [cf. AP 876, cit., pp. 163-164]; la seconda del 29 novembre, quando la fornitura del Formentone è estesa pure ai poveri della Città [cf. AP 877, cit., pp. 19-23].
58 Egli resta in carica come Console per due bimestri consecutivi, dal novembre ’63 al febbraio ’64. Sarà Console poi ininterrottamente per tre bimestri dal maggio all’ottobre ’66; quindi nel marzo-aprile ’68, nel luglio-agosto ’69, e tra marzo-aprile 1771, per limitarci a questo periodo.
59 La definizione è in AP 877, cit., 8.8.1768, p. 83.
60 Non dal 1765 ma dal ’64 partono nel calcolo delle carestie i «Possidenti nelle Castella», in un memoriale inviato al Legato di Romagna nel novembre 1766, dove si legge che quello era il «terzo anno di successiva carestia»: cf. AP 877, cit., pp. 10-11 ed AP 54, Congregazione dei Signori Dodici, 1765-1775. Essi invocavano per i «poveri Coloni del Contado» lo stesso provvedimento preso il 12 luglio ’66 per quelli del Barigellato, di somministrare a credenza il formentone. Gli Abbondanzieri il 25 novembre 1766 rifiutano, nonostante l’aumento del costo della farina, la proposta di «moltissimi Possidenti ricchi della Città», rivolta a «calare l’oncia del Pane locché all’incontro poteva far temere di qualche comozione nel Popolo». La perdita conseguente era di scudi 2:15:7 per stajo. [Cf. AP 54, cit., 28.11.1766; ed AP 877, cit., pp. 9-10.] Con un bajocco, si aveva un «pane bianco» di once otto e mezzo, oppure uno «bruno» di once nove e mezzo.
61 L’incarico è ricordato in AP 876, cit., 14.4.1764, c. 120v.
62 Cf. AP 877, cit., p. 19. Il «Piano stabilito» è approvato all’unanimità dai Signori Dodici il 3 febbraio [cf. AP 54, cit.] e giunge in Consiglio il 4 febbraio [AP 877, cit., p. 23], quando si differisce la risoluzione ad altra adunanza: esso permette il 30 maggio [AP 877, pp.33-34] una terza «sovvenzioni alli Coloni» di formentone, con i criteri stabiliti il 12 luglio ed il 29 novembre 1766. In AP 54, cit., 23.1.1767, si ricordano «le continue suppliche de’ Parochi, e l’istanza personalmente fatta da medesimi Casarecci della Campagna ridotti presso a morire di fame per un qualche provvedimento».
63 Cf. AP 877, cit., 11.8.1777, p. 41. Il problema si risolse soltanto dopo il deciso intervento del Legato. Il nobile Carlo Agolanti dovette accettare l’incarico di Abbondanziere, pur avendo ottenuto, in prima battuta ed avanti le altrui rinunce, un voto in meno dei due terzi richiesti per la validità dell’elezione.
64 Ibid., pp. 33-34.
65 Ottiene 39 voti a favore e quattro contro: cf. AP 877, cit., p. 72.
66 Cf. il cit. t. V. Quanto Capobelli racconta, è uno spaccato vivace della realtà riminese. Le sue pagine vanno valutate con la massima attenzione, perché esse non espongono dati di fatto ma contengono interpretazioni molto tendenziose, la cui chiave di lettura è possibile decifrare soltanto conoscendo il più ampio contesto dei fatti ai quali egli fa riferimento.
67 Si tratta sempre del grano della Mensa vescovile e delle due citt. abbazie.
68 Il testo delle nuove «leggi» («Stabilimento per l’amministrazione dell’Annona della Città di Rimino»), è pubblicato nel Panfangolo Riminese cit., p. 70-76. L'originale si trova in AP 112, Abbondanza 1768-1776, sotto la data del 16 agosto 1770. L’approvazione legatizia è del 3 settembre ’70 (cf. lettera al Governatore nel Panfangolo, p. 69).
69 Cf. AP 539, Registro informazioni, 1767-1775, 25.5.1773. L’anonimo accusa l’Annona di aver perso in sedici anni ben 11.585 scudi, oltre ad altri 19.576 in seguito alla carestia.
70 Si veda a p. 469 del cit. Journal des Sçavans.
71 Cf. il cit. Pro Memoria del 25.12.1796.
72 Cf. AP 502, cit., 25.12.1796. Il nome di Luigi Martinelli appare tra gli «agenti ed incaricati» della città: cf. la busta 14 del Carteggio, ASR. A Roma ricoprì incarichi presso la corte pontificia e nella Curia.
73 Si legge nell’appena cit. lettera indirizzata a Martinelli: «Occorrendo pertanto di averne una regola dalla Sagra Congregazione del Buon Governo riverentemente preghiamo S. V. Ill.ma accogliere le nostre istanze dal sig. Ab. Quaglia, che avrà l’onore di esporle nel presentarle questa nostra, ed interessare i validissimi di Lei Ufficj pel conseguimento di quella Legge, che più favorisca la giusta causa dei Laici».
74 Prima di questo brano, nella lettera di Quaglia troviamo scritto: «Non sò poi se sussista che la R. Camera non restituisca» agli ecclesiastici «quanto [h]anno versato per le contribuzioni in Roma, lo che se ancora sussistesse, prego le SS. VV. Ill.me a riflettere, che tali contribuzioni sono state date direttamente alla Camera per il Bene di tutto lo Stato, ed in cose di cui non [h]anno Eglino, che il solo uso».
75 Scrive Quaglia che Martinelli «si è poi caricato di presentarla [la supplica] all’E.mo Sig. Cardinal Segretario di Stato, con implorare da questo, che di proprio pugno del S. Padre venghi rimessa all’E.mo Prefetto del Buon Governo».
76 Cf. AP 496, cit., «Commissione Sovrana a Mons. Vescovo di ottenere dalle Case Religiose e Luoghi Pii le maggiori somme a discreto interesse pei bisogni della Comunità», Roma 7.1.1797.
77 Cf. AP 502, cit., 12.1.1797, lettera dei Consoli all’abate Quaglia.
78 Sono gli stessi che abbiamo visti nominati dalla Congregazione dei Dodici per altro incarico: cf. il cit. documento AP 561, 22.12.1796.
79 Questa lettera [AP 502, cit., 19.1.1797] viene inoltrata a Busca attraverso Quaglia, a cui i Consoli raccomandano di insistere con il Segretario di Stato «perché con un ordine positivo al Vescovo tronchi ogni indugio e ogni ettichetta».
80 La Memoria è in AP 502, cit., 19.1.1797.
81 Cf. la lettera del 19.1.1797 nel cit. AP 502.
82 Cf. al proposito in AP 999, cit., un foglio con dichiarazione ufficiale dell’estimo del 30.1.1797; ed in AP 502, cit., la lettera al Legato del 31.1.1797.
83 Cf. nel cit. AP 502, 19.1.1797.
84 Il documento originale è in AP 999, cit., la copia in AP 496, cit.
85 Copia della ricevuta è in AP 496, cit., ad diem.
86 Così si legge nella lettera a M. Fantuzzi, AP 502, cit., 30.1.1797.
87 La definizione è nel Pro Memoria a mons. Ferretti, nel cit. AP 502, cit., 19.1.1797.
88 Il documento, datato 30 gennaio, è allegato in AP 502 alla cit. lettera con pari data al medesimo Fantuzzi, sulla quale ritorneremo.
89 La copia è in AP 496, cit.
90 Si tratta sempre della cit. missiva del 30.1.1797, AP 502, cit.
91 Cf. il già cit. documento del Cardinal Busca, AP 496, cit., 7.1.1797, «Commissione Sovrana a Mons. Vescovo […]».
92 Anche Quaglia aveva scritto ai Consoli: «Su di un tale affare vadino di concerto coll’istesso Monsignor Vescovo per combinare un Piano più facile all’Esecuzione» [AP 999, cit., 21.1.1797].
93 A Giuseppe De Carli, «uno dei migliori Proprietarj» di Rimini, le autorità avevano inviato una doppia sollecitazione con la minaccia di una «escussione militare» [AP 561, cit., 2 e 3.7.1796].
94 Cf. il cit. Pro Memoria a Quaglia, AP. 502, 25.12.1796. Sulle proprietà ecclesiastiche, riportiamo dallo stesso Pro Memoria questa notizia: a Rimini, le undici Congregazioni monastiche «in forza di una Lite promossa nel 1711 avanti la Congregazione del Buon Governo, e canonizzata ingiusta con più voti dalla Sagra Rota, e diretta soltanto a defraudare le Comunità dello Stato dai Pesi arretrati», avevano risparmiato con quella di Rimini «venti, e più mila scudi».
95 Mons. Ferretti fece ritorno a Rimini il 13 aprile. La Municipalità gli scrisse il 18: «Abbiamo tutta la compiacenza che il Generale Francese vi abbia restituito alla vostra greggia. Ce ne congratuliamo vivamente certi di sperimentare propizj effetti del vostro ristabilimento» (cf. AP 503, Copialettere 1797, ASR, pp. 237-238).
96 Si tratta dei documenti rispettivamente del 30 e 31 gennaio 1797, AP 502.
97 Non è stato possibile rintracciare in nessun documento questa «Parte» (delibera) dei Signori Dodici.
98 Il verbale successivo è del 13.1.1800. Sugli eventi precedenti, a partire dal 30 maggio 1799, «insorgenza» dei marinai riminesi, ci siamo sommariamente occupati pubblicando una serie di documenti inediti: la cronaca di N. GIANGI [cf. il cit. SC-MS. 340, BGR], alcune composizioni poetiche inneggianti all’imperatore austriaco (tra cui una che maledice all’«infame Roma»), e quelli che abbiamo definito «i verbali della rivoluzione dei marinai» [ASR], in articoli apparsi sul settimanale riminese Il Ponte (19.9; 3, 10 e 31.10.1999). Tali articoli sono leggibili su Internet, all’interno del sito «Riministoria», all’indirizzo «http://digilander.iol.it/monari/1799.html».
99 Il 3 febbraio, al conte Nicola Martinelli sono restituiti scudi 764, bajocchi 98 e danari 8. Il suo «dippiù» versato nell’estate ’96 (2.584:84:9) era stato uno dei più alti, il terzo nella classifica che vede in testa i cittadini Fratelli Mattioli (877:70:6) ed il nobile Domenico Garattoni (856:62). Quarto risultava il nobile Lorenzo Fabbri Ganganelli (546:13:6). Il religioso più ‘ricco’ era don Marco Foschi (con 304:55:6). Il nome di Nicola Martinelli appare anche nel registro AP 936, Contribuzioni di Luglio 1797, relativo alla contribuzione del luglio ’97 per scudi 216.
100 Per la «quota» non ritirata (pari a 262 scudi, per 15 casi su 126), sono interessati un Nobile (Francesco Bonsi), sei Religiosi, fra cui il fuggitivo mons. Ferretti (creditore di scudi 146:21, la sua offerta per la contribuzione era stata di scudi 494:84:7), ed otto Cittadini. I «due Cleri», Regolare (36 nominativi) e Secolare (13), hanno versato un «dippiù» di 13.740 scudi: ne avrebbero dovuto quindi riceverne indietro 4.067.
101 Per un quadro riassuntivo, cf. l’Appendice II, Contribuzione del 1796.
102 Questo documento è riportato ampiamente in Fame e rivolte nel 1797.
103 AP 561, cit., 29.6.1796.
104 Dice l’art. LI della «Bolla o Costituzione Sipontina» di Giulio II (1509): «de genere Nobiliorum, Doctorum, Mercatorum, aliorumque civium, nec non Artificum ad regimen idoneorum». Cf. nel II t. di TONINI, op. cit., pp. 852-853.
105 Cf. AP 868, Atti del Consiglio Generale 1641-1653, c. 72v.
106 Ibid., c. 331v.
107 Cf. TONINI, op. cit., t. I, p. 481. Il «breve» del 1657 è riportato da TONINI, op. cit., t. II, pp. 951-953.
108 Cf. AP 873, Atti del Consiglio Generale, 1684-1702, cc. 58v-59r; e TONINI, op. cit., t. I, p. 518.
109 Cf. AP 873, cit., c. 135v-136r; e TONINI, op. cit., t. I, p. 522.
110 Cf. AP 872, Atti del Consiglio Generale, 1703-1724, c. 307v; e TONINI, op. cit., t. I, p. 550. Cf. pure C. CASANOVA, Comunità e governo pontificio in Romagna in età moderna, Bologna 1981, pp. 94-95.

Antonio Montanari


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679/30.08.2003