Riministoria

Antonio Montanari

Lettori di provincia nel Settecento romagnolo

Giovanni Bianchi (Iano Planco)

e la diffusione delle «Novelle letterarie» fiorentine.

Documenti inediti

 

 

Lo scienziato, medico e poligrafo riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) collaborò alla diffusione in Romagna e nelle Marche delle «Novelle letterarie» di Giovanni Lami, pubblicate a Firenze dal 1740 in avanti [[1]].

Lami, uno dei principali protagonisti della vita culturale italiana del XVIII secolo (come ha scritto Franco Venturi), «contribuì non poco a stabilire una nuova scala di valori (…), meglio indirizzata ad una puntuale conoscenza dei fatti e delle cose, più cosciente dei propri limiti e delle proprie possibilità»: dopo la sua esperienza, «non fu più possibile tornare indietro ad una pura e semplice compiacenza erudita, ad un accademico e letterario accumularsi di bei concetti, di belle parole e di belle notizie» [[2]].

La collaborazione di Bianchi alla diffusione delle «Novelle letterarie» nasce dai rapporti di lavoro e di amicizia ch’egli aveva con Lami, per il quale nel 1742 scrisse un’autobiografia in latino pubblicata (anonima) nel primo tomo dei Memorabilia [[3]]. Nel 1742 Planco si trova a Siena dove, sino alla fine del novembre 1744, occupa la Cattedra di Anatomia umana in quell’Università [[4]]. Rientrato a Rimini, Bianchi s’impegna in altre attività culturali, come la rifondazione dell’Accademia dei Lincei [[5]] nel 1745. A partire da questo anno, datano le notizie relative agli abbonamenti che Bianchi trasmette a Lami per le «Novelle letterarie». Nel 1750 Lami è nominato accademico dei Lincei riminesi [[6]], ai quali appartennero anche alcuni degli abbonati che elenco in seguito.

Tramite il periodico fiorentino, i ‘lettori di provincia’ che ruotano attorno a Planco, s’inseriscono in un circuito più vasto di quello offerto dall’angusto panorama dello Stato ecclesiastico, nel quale tuttavia, dopo l’elezione di Benedetto XIV (1740), si assiste al riaffiorare di «quei segnali di rinnovamento che avevano già caratterizzato alcune fasi del primo Settecento» [[7]].

Fra i circoli romani in cui si elaborano le nuove tematiche, ed una città di periferia come Rimini, esiste poi una lontananza non soltanto fisica, che si rivela come incapacità di comprendere quei medesimi «segnali di rinnovamento». Ciò avviene a causa di ingombranti nostalgie arcadiche e di una mentalità freddamente erudita che caratterizza e condiziona i superciliosi raccoglitori di materiale antiquario, ai quali era riservato il compito d’indirizzare la vita intellettuale di Rimini [[8]]. La città resta anche del tutto estranea ai tentativi di svecchiamento culturale e di rigenerazione spirituale provenienti da altre aree geografiche, come quelli che ad esempio incontriamo negli scritti di Ludovico Antonio Muratori.

Nel 1739 Bianchi confida allo stesso Muratori «come la di lui nobilissima raccolta de’ scrittori delle cose italiche» non figurasse nella «libreria pubblica» Gambalunghiana di Rimini, dandoci così la conferma che verso le opere del Bibliotecario di Modena la cultura locale aveva dimostrato totale indifferenza [[9]]. Muratori non è l’unico grande assente in quella biblioteca. Qualche anno dopo, nel 1744, Stefano Galli [[10]], ex allievo di Planco [[11]] scrive infatti al maestro che i libri degli ultimi «50, o 60 anni» mancavano del tutto nella stessa Gambalunghiana: dove Galli stava lavorando per aggiornarne la dotazione [[12]], a fianco di Giuseppe Garampi, altro discepolo di Bianchi, nonché futuro cardinale, nunzio apostolico e grande studioso di Storia.

Contrasta con questa disattenzione delle pubbliche istituzioni culturali riminesi, l’interesse intellettuale dimostrato da alcuni dei nostri ‘lettori di provincia’, per i quali Bianchi svolge il ruolo di consigliere che suggerisce i libri da studiare, soprattutto in campo scientifico (e medico in particolare), come risulterà dagli esempi che presento: segnalo subito, però, che l’argomento è molto più vasto di quanto non possa apparire da questi pochi esempi, per cui esso meriterebbe un ulteriore approfondimento [[13]].

Le «Novelle letterarie» nell’agosto 1742 subiscono una scissione redazionale che porta alla nascita del Giornale de’ Letterati. Ne giunge voce anche a Rimini da dove Galli il 22 settembre scrive a Planco (già trasferitosi a Siena), di aver appena appreso che «in Firenze si preparavano da alcuni de’ Giornali de’ Letterati», e chiede «come si potranno avere, e a qual prezzo». La lettera accenna pure alle iniziative editoriali di «quei Fratelli Pagliarini» che «stampano giornali: ma intendo a dire, che non sia opera da farne gran conto. E siccome che dovranno essere migliori que’ di Firenze, così bramerei di provvedermi di questi lasciando gli altri».

Il ventunenne chierico Galli evidentemente ignorava che i Pagliarini, legati ai giansenisti ed alla corona portoghese [[14]] dibattevano sui loro fogli argomenti scottanti sotto il profilo religioso. E soprattutto non sapeva che quel barone Philipp von Stosch [[15]], al quale egli accenna (in altra parte della stessa lettera a Bianchi) come a chi aveva mano nel Giornale de’ Letterati, era stato cacciato da Roma per irreligiosità, ed apparteneva al cosiddetto filone libertino-materialistico [[16]].

La pagina di Galli, oscillando tra desiderio di novità e mancanza di informazioni circa le scelte da compiere, riflette pienamente la mentalità erudita che aveva visto dominare nella scuola di Planco. Qui si praticava una pedagogia dell’intelletto mirante all’affastellamento di dottrine e materiali, ed orientata verso un enciclopedismo accademico che non imponeva atti di accettazione o di rifiuto, ma formava l’uomo dotto come spettatore quasi impassibile rispetto al panorama che gli veniva offerto. Era ovviamente un procedimento del tutto opposto a quello teorizzato da Muratori, ed a quello realizzato da Lami nelle «Novelle letterarie» con lo scopo di distinguere, come è stato osservato [[17]], l’Antiquaria dalla Storia, e per far «vedere cioè la differenza tra la ricerca pura, priva di qualsiasi rapporto con i problemi del mondo attuale, e la ricerca impegnata, quella di coloro che ‘si servono delle antiche iscrizioni e monumenti per illustrare qualche argomento che da loro si tratta o provare qualche proposizione che da loro si avanza’» [[18]]. Questa differenza tra Antiquaria e Storia, oltre a riguardare il metodo pedagogico di Bianchi, tocca pure strettamente alcuni dei suoi scritti apparsi proprio sulle «Novelle letterarie». In tali scritti Planco si dimostra lontano dalle caratteristiche di Lami e dalle sue linee programmatiche, come ad esempio si vedrà circa la disputa relativa al «vero Rubicone degli Antichi».

Per i giovani intellettuali riminesi e per le istituzioni pubbliche della città, Bianchi è un punto di riferimento fondamentale ed esclusivo. Non per nulla Galli si rivolge a lui, con quella lettera del 1744 (contenente la notizia sui libri degli ultimi decenni ignorati dalla Gambalunghiana), allo scopo di ottenere «un catalogo» relativo a volumi di «Fisica, Storia Naturale, Medicina e sue parti, Mattematica, Istoria &cc», e confessando: «Io adunque che non ho la necessaria cognizione de’ libri, conoscendo di non potere far nulla da mé mi raccomando a chi sa, e può darmene notizie amplissime, e fra tutti gli altri a lei» [[19]].

Galli diventerà abate e poi minutante alla Segreteria di Stato a Roma, dove si trasferisce nell’estate del 1751, dopo aver ricoperto la carica di segretario dei rinnovati Lincei planchiani e di vice-bibliotecario pubblico a Rimini [[20]]. La sua figura, sinora del tutto oscura e dimenticata, ha una precisa rilevanza storica, nonostante gli scarsi riferimenti biografici che possediamo, perché assurge a simbolo della soggezione psicologica e culturale di un’intera generazione di studiosi riminesi nei confronti di Bianchi. Il quale, da protagonista unico della vita intellettuale della sua città a metà del secolo XVIII, vi esercita un fascino che ne condiziona gli studi che vi si svolgono ed anche la vita pubblica, come dimostrano i suoi interventi nella questione della Marecchia e del porto canale [[21]]. Ma l’influenza di Planco si estende pure negli ambiti limitrofi, in Romagna e Marche, da dove (in parte con ammirazione ed in parte con sarcastico rifiuto), si guarda al suo magistero, consolidato a livello non soltanto locale da molteplici esperienze e dai numerosi viaggi compiuti in gran parte d’Italia, secondo il costume di quel secolo.

Nel mondo ovattato della provincia, ha scritto Angelo Turchini, «se la circolazione delle idee giungeva con rapidità, mancavano tuttavia gli strumenti e gli spazi per poter intervenire adeguatamente» [[22]]. A favorire la circolazione delle idee provvedono anche i fogli fiorentini di Lami, i quali permettono ai propri lettori di aprirsi verso orizzonti più vasti, ascoltando voci diverse dagli orgogliosi silenzi della sterile erudizione locale, la quale impediva di proiettarsi verso il presente europeo e lo stesso futuro dell’Italia. E’ significativo il fatto che un personaggio illustre come Bianchi collabori non soltanto redazionalmente alle «Novelle letterarie», ma anche attraverso la diffusione del periodico tra allievi, conoscenti e colleghi, per testimoniare il suo desiderio di partecipare ad un’impresa culturale della quale avvertiva tutto il significato.

Presso allievi, conoscenti e colleghi, la sua parola ha il significato di un oracolo, come avviene nel caso di Galli e del Giornale dei Letterati. La relativa risposta di Bianchi ci è nota mediante una successiva epistola dell’allievo al maestro: «La debbo ringraziare infinitamente per gli avvertimenti, che Ella mi ha cortesemente dato intorno ai giornali nuovi di Firenze, de’ quali per opinion sua non mi dovrò provvedere». Plancus locutus est, causa finita est, verrebbe da commentare parafrasando sant’Agostino.

Bianchi è costantemente aggiornato da una fitta rete di corrispondenti che lo informano sulle ultime novità del mondo editoriale e culturale. Una fonte privilegiata [[23]] è il suo allievo Giuseppe Garampi che gli trasmette notizie su tutta l’Italia [[24]], da quella Roma che il giovane erudito riminese considera una «città di negozi» in cui si stenta a trovare «novità letterarie» [[25]].

Galli aveva appreso della notizia dell’uscita del «Giornale de’ Letterati» dal concittadino «Signor Dottor Genghini» [[26]] il quale, oltre ad essere un esperto di Diritto, materia che insegnava [[27]] e praticava come avvocato, esercitava pure l’arte della poesia dimostrando un «carattere faceto e irriverente» [[28]]. Giuliano Genghini, lo apprendiamo da una missiva di Garampi a Bianchi [[29]], era appena stato a Roma, da dove aveva fatto ritorno a Rimini passando prima da Firenze e poi da Bologna. Invece, sul «Giornale de’ Letterati», Garampi era stato informato direttamente da Bianchi come ricaviamo da questa epistola che Garampi da Rimini gli scrive [[30]] a Firenze:

 

Dalla penultima sua dei 4 del corrente intesi come sia escito alla luce il primo Tomo di un nuovo Giornale che si stampa in Firenze sotto la cura e direzione del famoso Signor Barone di Stosch, e del Padre Adami insieme con varii altri Letterati. Ora io bramerei ch’Ella mi facesse sapere se questi Giornali si potranno ritruovare in Venezia, mentre volendoli far venire ci riescirebbe molto più facile, e comoda la via di Venezia, che quella di codesta Città.

 

Garampi, dunque, è a conoscenza della novità editoriale fiorentina prima del collega Stefano Galli, suo compagno di lavoro alla Gambalunghiana, al quale però non racconta nulla. E Galli osserva [[31]] con Bianchi:

 

(…) io non avrei incomodato Lei, se il Signor Contino Garampi m’avesse comunicato la lettera sua [[32]], nella quale Ella parlava di quelli. Ma, sia detto infra di noi senza offesa di quel signore per altro verso di me amorevolissimo, dove egli mi legge molte lettere, che riceve alla giornata da altrui, io non so poi intendere per qual cagione si rimanga di leggermi non pure, le lettere sue, nemmeno di dirmene una parola giammai, o rade volte affatto. (…) Per altro io non debbo neppur per questo lamentarmi di Lui, perché forse ciò farà egli per qualche giusto motivo, che io non so.

 

L’episodio del silenzio garampiano è certamente di poco conto rispetto a temi più importanti, ma mi sembra utile ricordarlo, dato che sto riferendo di circolazione di idee. Esso mi pare un (piccolo) esempio di gelosie da intellettuali, capace però di rispecchiare un ambiente, o di raccontare persino un carattere. Garampi stava coltivando la sua geniale precocità con modi ed atteggiamenti che agli altri non sempre riuscivano graditi. Nel 1741, a soli sedici anni, era stato fatto «vicecustode» della Gambalunghiana, come lui stesso dichiara a Muratori chiedendogli invano, in quello stesso anno, il catalogo che poi Galli avrebbe domandato a Bianchi nel 1744. Con il suo contegno, Garampi urta persino il responsabile della Biblioteca, conte Ludovico Bianchelli, sopraffacendolo in modo tale che «a questi par che niun altro sappia provveder libri», come Galli osserva con Bianchi, aggiungendo: «Io per mé non ci potendo avere il mio luogo, che a cose fatte, sto a veder senza impicciarmene» [[33]].

Dal comportamento individuale di questo giovane bibliotecario, che merita attenzione anche per gli sviluppi futuri della sua carriera di studioso, torniamo all’ambiente riminese, sul quale una pennellata non incolore ci è offerta dallo stesso Garampi quando riferisce [[34]] a Bianchi gli umori locali nei confronti del professore di Anatomia che due anni prima aveva rifiutato di diventare medico della città per andare a lavorare a Siena [[35]]:

 

(…) ho udito alcuni (già suoi parziali) ora essere alquanto mutati da quel buon animo che prima per essolei nutrivano contuttociò gran fidanza io averei che venendo ella in Rimini potesse e colla sua presenza e col suo discorso facilmente rivoltarli in suo favore. Oltredicché forse alcuni ch’ella avea già contrarii spererei che ora non le potessero fare ostacolo alcuno.

 

Evidentemente in città non si guardava ai meriti di una persona per valutarla, ma alla simpatia che poteva suscitare [[36]], od alla docilità con cui essa si adeguava ai voleri delle classi dirigenti. Pure questi due elementi condizionano lo sviluppo culturale di una comunità, nella quale i gruppi di pressione politica non si identificano con le menti migliori, ma con un’aristocrazia del privilegio, fosse essa di origine nobiliare o di derivazione borghese [[37]]. Da questa realtà sono inevitabilmente condizionate anche le pubbliche istituzioni culturali, come dimostra il fatto che la stessa Biblioteca Gambalunghiana era nata da una privata donazione e viveva con grandi stenti, e non soltanto per fattori economici, il suo ruolo pubblico allora degradato a «ridotto da ciarle», come denuncia nel 1742 lo stesso Bianchelli [[38]].

Attorno alle «Novelle letterarie» si raccolgono diverse vocazioni culturali. Gli abbonati che, tra 1745 e 1759, vi si associano tramite Planco, sono sicuramente tredici [[39]], oltre allo stesso Bianchi, e ad un altro ‘lettore’, Bernardino Brunelli, bibliotecario gambalunghiano [[40]], che nel 1755 richiederà a Planco di procurargli tutta la raccolta della rivista. Citerò questi associati nella successione cronologica che emerge dai documenti gambalunghiani, con essenziali cenni biografici per quanti di loro mi è stato possibile rintracciare notizie.

 

1. Giovanni Paolo Giovenardi

L’arciprete Giovanni Paolo Giovenardi (1708-1789), accademico dei Lincei riminesi, risulta abbonato nel 1745 quando si trova a Santarcangelo dove è «pubblico lettore di Scienze» [[41]]. Nominato il 6 maggio 1749 parroco della chiesa plebale dei santi Vito e Modesto in località San Vito, nel novembre dello stesso anno [[42]] fa porre sulla sponda orientale del fiume Uso, sul terreno del cimitero della stessa chiesa [[43]], una lapide recante la scritta «Heic Italiæ Finis Quondam Rubicon», «volendo farsi far pompa di sua erudizione» [[44]].

Già nel 1743 il matematico modenese Domenico Vandelli aveva sostenuto «la corrispondenza dell’Uso al Rubicone» nella biografia di san Gimignano, patrono di Modena. Su Vandelli, secondo Alfonso Pecci, ricade la responsabilità di aver scatenato la «piccola scintilla» da cui «doveva sorgere quel grande incendio» della disputa sul fiume varcato da Cesare [[45]]. Nello stesso anno Bianchi, dalle «Novelle letterarie», rivendica en passant la gloria del «famoso Rubicone» al paese di San Vito [[46]]; e nel 1746 ribadisce che il «Luso» non andava confuso con l’«Aprusa di Plinio», cioè l’Ausa, come invece pretendevano i Cesenati, e che esso era «il vero Rubicone degli Antichi» [[47]].

Nel 1748 Bianchi ripropone la polemica con una novella di stile boccacciano, in cui il fiume Uso «disturbato come Pier delle Vigne, incomincia a parlare» [[48]], confessando «che appo tutti gli intendenti sono et sarò sempre per lo vero Rubicone riputato» [[49]]. I Cesenati diranno, con una battuta che risponde a verità, che il «nuovo Rubicone» era stato generato da Bianchi e battezzato da G. P. Giovenardi [[50]].

Poco dopo la collocazione della lapide [[51]], nel 1750 l’Accademia dei Lincei riminesi si occupa della questione rubiconiana con due dissertazioni, rispettivamente di G. P. Giovenardi (15 marzo) e dello stesso Bianchi (21 marzo). Quella di Planco è la seconda di due Lettere che egli invia alle «Novelle letterarie» [[52]], non tanto per sostenere le ragioni dell’ex allievo, quanto per difendere le proprie opinioni al riguardo.

Nella prima Lettera, del 6 marzo 1750, Bianchi definisce falsa l’iscrizione posta dai Cesenati «sulla ripa occidentale del Pisciatello», e racconta che, prima della collocazione della lapide a San Vito, i Conservatori della città di Cesena per il bimestre settembre-ottobre avevano mandato «un Monitorio, o sia una Inibizione, alla Città di Rimino, acciocché non ponesse una Lapida al Suo fiume Luso».

Nella seconda Lettera, datata 20 marzo 1750, Bianchi porta «i fondamenti che noi Riminesi abbiamo di credere che il nostro Luso sia il vero Rubicone degli Antichi» [[53]]. Scrive Alfonso Pecci:

 

Era da qualche tempo che s’adoperava egli [Bianchi, n.d.r.]con mille espedienti di persuadere il Consiglio Comunale della sua Città a porre sulle sponde del fiume Uso un cippo marmoreo, che in opposizione ai Cesenati indicasse come quello era il vero Rubicone degli Antichi.

 

Pecci ricorda anche che Cesena mandò «contro la Comunità di Rimini un severo Monitorio con divieto solenne di apporre nel proprio territorio, sulle sponde dell’Uso, quella iscrizione». Rimini non si oppose, e Bianchi (aggiunge Pecci), ricorse a Giovenardi il quale «abbracciò ben volentieri la causa del Maestro e fece porre (…) il cippo già preparato dal Bianchi (…) [[54]].

Attraverso inediti documenti dell’Archivio Storico Comunale di Rimini [[55]], posso ricostruire gran parte della vicenda.

Al «Sindico» della città nel 1749 giunge «una Inibizione» su «istanza della Comunità di Cesena, [la] quale pretende non si possa eriggere una Lapide vicino al Fiume Uso coll’iscrizione indicante esser quello l’antico Fiume Rubicone» [[56]]. Poi, quando perviene alla Municipalità di Rimini una «Citazione», per «la purgazione degl’Attentati, e per la levata d’una Lapide, che dicesi incastrata in altra in vicinanza del Fiume Uso», i Consoli osservano con il loro procuratore romano, Filippo Eleuterj: «Non sappiamo che questa Comunità sia incorsa in alcun’attentato, non avendo essa dato alcun assenso, né essendo stata mai intesa di un tale Incastro di Lapide» [[57]]. Sotto la data del primo gennaio 1750, incontriamo due documenti. Nel primo i Consoli uscenti ribadiscono:

 

questo Pubblico non ha mai avuto la minima ingerenza ne prestato alcun assenso perché sia eretta la nota Lapide, ne tampoco sapiamo per opera di chi sia ciò accaduto, essendo sul territorio di Santarcangelo la detta Lapide eretta. Onde pare a noi, che la nostra Comunità non sia incorsa per ciò in alcuna purgazione d’Attentati.

 

Con successiva lettera, i nuovi Consoli appena entrati in carica tengono a precisare che non è vero che non si sappia chi sia l’autore della collocazione della lapide incriminata: «una tale novità», sostengono, è seguìta «per opera del Sig. Arciprete medesimo di S. Vito». Ma il «contenzioso», essi sottolineano, non è di competenza del Foro bensì del «Tribunale degli Eruditi» [[58]]. A questi ultimi accenna una successiva lettera dei Consoli ad Eleuterj [[59]], che merita di essere riprodotta integralmente:

 

Sentiamo la risoluzione presa dal Giudice sopra l’Affare dell’Iscrizione fatta imporre dal Sig. Arciprete Giovanardi [recte: Giovenardi] sulle sponde del Fiume Uso; e per darne a V.S. qualche lume per quello che riguarda la Erudizione, o sia Istoria della Iscrizione medesima, potiamo succintamente dirle essere antichissima controversia fra questa nostra Città di Rimino, e quella di Cesena, qual de due Fiumi, se il nostro Uso, o il loro Pisciatello sia l’antico Rubicone passato da Cesare così chiaro nelle Istorie, e per cui li Geografi antichi, e moderni pendono ancora irresoluti. Benche stiano per noi i migliori autori, nulladimeno li Cesenati già tempo fa apposero una Iscrizione sulla ripa del lor Pisciatello, riputata però da buoni scrittori per apocrifa.

Ne’ mesi scorsi alcuni Eruditi di nostra Patria pensavano di far collocare altra Lapide sulla sponda del nostro Fiume Uso, ma penetrando ciò il Pubblico di Cesena fece presentare alla Comunità nostra un Monitorio di codesta Sagra Congregazione per impedirne l’erezione. Contro tal Monitorio non ha innovato, ne ha attentato cosa alcuna questo Pubblico, che non volle rendere Causa pubblica questa tale Controversia litteraria più tosto che contenziosa, che non credette doversi agitare con dispendio della Città, restringendosi, come Ella sa a fare il semplice Nihil fieri; ma siccome il detto Fiume Uso scorre ancora parte del Territorio di Santarcangelo, così gli Eruditi di quella terra impegnati anch’Essi per le glorie di detto Fiume come non inibiti, e compresi in detto Monitorio si prevalsero del Sig. Arciprete Giovanardi, che ha la sua Parocchia sulla sponda di detto Fiume Uso, il quale fece incidere in una Collonna già esistente, ed eretta nel suo Cimitero, situata nelle Pertinenze di Santarcangelo queste Parole di Plinio Hic finis Italiæ quondam Rubicon. Questo fatto del Sig. Don Giovanardi come consumato in Territorio non nostro, e senza nostra intelligenza prova abbastanza non esservi attentato non solo per parte del Pubblico, ma per parte ancora del Signor Arciprete, che fece la innovazione nel Territorio di Santarcangelo senza poi nemeno contravenire al Monitorio, giacche non eresse nuova Pietra, ma sull’antica Collonna fece incidere le surriferite Parole.

Dalla narrativa suddetta, oltre la notizia, e storia del fatto potrà Ella rilevare, che sebbene per parte nostra non si è commesso attentato, ciò non ostante dobbiamo prendere tutta la parte nel sostenere l’Erezione di detta Lapide, che riguarda un Monitorio antico della Città, la quale sebbene non ha creduto proprio di sostenerlo in Foro contenzioso per essere Causa da rimettersi al Tribunale degli Eruditi, e Geografi, è obbligata però di assistere Uno, che si è adossato il pubblico decoro difendendolo validamente.

Su tal fondamento La preghiamo caldamente a procurare tutte le dilazioni, acciò non venghi aterrata la lapide controversa, dando tempo al Sig. Arciprete di fare que’ passi, ch’Ella medesima ci suggerisce proprj per la manutenzione nel possesso di tener incastrata la suddetta Iscrizione, come sentiamo, ch’Egli voglia fare.

 

A questo punto, Rimini si attiva «affinche si sostenga la Lapide nel luogo, ove è posta» [[60]]. La nostra Comunità, si sostiene, «deve interessarsi per quest’onorifico della Città», anche se non è stata chiamata in causa [[61]]. Nel febbraio, G. P. Giovenardi ottiene da Roma un primo decreto favorevole: non si deve demolire «la controversa lapide» [[62]]. La Comunità di Rimini, pur non avendo «avuto mano» all’iniziativa, «pure dovrà (…) interessarsi, perché si sostenga detta memoria così gloriosa per la nostra Città (…) di cui pretende spoliarci la Città di Cesena» [[63]].

Da Roma, il procuratore Filippo Eleuterj ritiene che sia utile alla Municipalità di «non dovere scopertamente comparire nella Causa del Rubicone in oggi accesa dalla Comunità di Cesena contro l’Arciprete di San Vito, ad effetto di non risvegliare la pretensione degl’Attentati» [[64]].

Dalle lettere che Giuseppe Garampi invia da Roma a Planco in questo periodo, apprendiamo altri particolari. Anzitutto Garampi, su richiesta di Bianchi, fa presentare dall’abate Giulio Cesare Serpieri, agente ufficiale di Rimini a Roma [[65]], «un nihil fieri in nome del nostro Procuratore Fiscale del Vescovado in tutti questi tribunali» romani [[66]]. In un secondo momento, Garampi cerca di scaricare la questione sulle spalle dell’abate Giuseppe Battaglini [[67]], considerando anche che Eleuterj si è dimostrato troppo arrendevole: «si contentò di una tenue dilazione di 5 giorni soli, quando vi era modo di poterla tirare innanzi fin a Quaresima» [[68]]. Infine, veniamo a sapere che Bianchi ha fornito a Garampi (ed indirettamente all’abate Serpieri), informazioni errate: il «Monitorio» cesenate non era stato diretto al Procuratore Fiscale del Vescovado, il già ricordato avvocato e poeta dottor Giuliano Genghini (in nome del quale «fù fatta dall’Abate Serpieri la solita protesta nihil fieri in tutti questi Tribunali»), ma «contro la Comunità» di Rimini, per cui «non ha servito a nulla il suddetto nihil fieri»:

 

E intanto i Cesenati ottennero il Decreto, perché Eleuterj non compariva per la Comunità ò aveva ordine di cedere a questa lite, come ella mi accenna, ò si contentò della dilazione di soli cinque giorni per sospenderne l’esecuzione [[69]].

 

Le cose si mettono bene per Rimini: il 17 febbraio 1750 è stato firmato

 

il Decreto procedi ad formam juris, cioè che non si dovesse demolire punto la Lapide per essere posta sul territorio di S. Arcangelo; cosicché rimarrà preclusa a’ Cesenati la via che aveano presa degli attentati per la demolizione suddetta, quando non volessero vedere la causa in petitorio, cosa che veramente non è più da legali, bensì da eruditi [[70]].

 

Quest’ultimo concetto era già stato espresso da Garampi a proposito di un suo precedente intervento romano, affinché la causa fosse lasciata «in mano degli eruditi» [[71]]. Altra alternativa non c’era, a meno che non si fosse scelto di ricorrere a mezzi più sbrigativi:

 

Per mezzo di paraguanti, poi qui non si finiscono liti, quando uno non s’imbattesse con qualche furfante di mozzorecchio: ma per questa strada non le consiglio giammai di camminare [[72]].

 

Il 15 giugno 1750, nei diari di Bianchi [[73]] si legge:

 

La mattina verso le 13 partij nel mio sterzetto, ed andai a San Vito dal Sig. Arciprete Gian Paolo Giovenardi alla festa di S. Vito titolo della sua Chiesa avendomi egli invitato. Ivi trovai molti conoscenti ed amici, e tra gli altri il Sig. Canonico Mattias Giovenardi [[74]] uomo dotto in lingue, e in varie scienze, con esso, e con altri si discorse di cose di scienze, e di erudizione, e con loro andai a vedere il cippo, nel quale il Sig. Arciprete Giovenardi ha fatto incidere queste seguenti parole per segno che il Luso lungo del quale è la sua Chiesa e Parocchia sia il vero Rubicone degli antichi, il qual cippo è una Colonna di marmo greco venato alta quasi un uomo, che è conficcata dentro d’un marmo che le serve per base, e ci ha fatto fare un poco di capitello sopra del quale ci ha posta la Croce perche serve insieme per segno che fin lì arriva il Sagrato della Chiesa; onde il Padre Guastuzzi in una lettera inserita nel tomo 42 degli Opuscoli del Padre Calogerà malamente ha scritto che l’inscrizione è in longo e rozzo sasso conficcato; quando non è un longo e rozzo sasso, ma è una Colonna di marmo greco, e non conficcata in terra, ma in un altro marmo che le serve di base; ed in oltre ha il capitello, e la Croce che le fanno ornamento. Di più non è vero che quella inscrizione fosse incisa di Dicembre, ma fu incisa di Novembre, ne comparve allora solamente conficcata quella Colonna, ma ci era sempre stata per segno della fine del Sagrato, e del Cimiterio della Chiesa. In oltre le parole non stanno così come le scrive il Padre Guastuzzi: Hic finis Italiae quondam Rubicon ma stanno così:

HEIC

ITALIAE

FINIS

QUONDAM

RUBICON

 

Dopo aver ascoltato la messa e terminate le funzioni, conclude Bianchi, «s’andò a tavola essendoci molti convitati», tra cui l’abate Mancini, arciprete di Savignano [[75]].

Quando i Cesenati intentano causa a Santarcangelo ed al parroco di San Vito, la Comunità di Rimini presta a quella del paese confinante il proprio agente Serpieri per aiutarla ad agire validamente in giudizio. Serpieri, in una lettera a Bianchi del 1753, parla della «risata, non solo del Giudice, ma ancora di tutti quelli che si ritrovarono presenti» alla discussione della causa [[76]]. La quale si conclude il 4 maggio 1756, con una sentenza [[77]] che dà torto ai Cesenati e li condanna al pagamento delle spese.

Nello stesso 1756 Bianchi scrive sulle «Novelle letterarie» che la sentenza romana ha «imposto silenzio alla parte vinta», ponendo oltre le «tante ragioni letterarie, che avevamo», anche quella legale: «non abbiamo fatto attentato né spoglio alcuno con quella Lapida, onde ora con jure, e per decreto del Giudice, ce la possiamo seguitare a tenere» [[78]].

Nella sentenza, ovviamente, non si affrontano i problemi della Scienza, sui quali un tribunale non avrebbe avuto competenza, ma si decide soltanto che era impossibile sottoporre alla giustizia civile questioni non legate a possessi giudiziari, come sono quelle relative alle «cose di antiquaria» od alle «erudite disquisizioni» [[79]].

Ai problemi della Scienza accenna soltanto il cesenate padre Gianangelo Serra [[80]], quando scrive che i «fautori» dell’Uso avrebbero dovuto «far vedere come contro il corso naturale di tutti gli altri Fiumi, potessero le sue acque salire su le colline di Castel Vecchio, e di Ribano. Questo sì è quell’impossibile, che fa vedere pazza, e sciocca la question letteraria promossa da i Scioli [[81]], col fine di gettar a terra l’antica tradizione favorevole» al Pisciatello. Padre Serra cerca di far valere le sue ragioni scientifiche, rilanciando la questione rubiconiana a livello addirittura europeo con un Avviso avanzato alli Signori Accademici delle Reali Accademie di Parigi, di Londra, di Lipsia, e di Berlino [[82]], redatto in italiano e latino.

Nella prima Lettera Bianchi riferisce che G. P. Giovenardi, sul Rubicone, aveva scritto «tre dissertazioni da lui recitate nella nostra Accademia de’ Lincei» [[83]], e che era allora in procinto di pubblicare un testo contenente «note critiche» al De vero Rubicone del cesenate Giovanni Battista Braschi [[84]], apparso a Roma nel 1733. In due biografie gambalunghiane di G. P. Giovenardi [[85]], si precisa che due di quelle tre dissertazioni ricordate da Bianchi, erano in latino. Non abbiamo trovato conferma, nelle stesse biografie, che una di tali dissertazioni fosse critica verso lo stesso Planco, come invece è stato sostenuto [[86]]. G. P. Giovenardi compose pure una dissertazione «sopra la utilità della scienza medica a parochi spezialmente di campagna» [[87]], che andava controcorrente rispetto al divieto di esercitare la medicina, imposto dal Diritto canonico alle «Persone consegrate all’amministrazione de’ Sagri Misteri».

G. P. Giovenardi, al tempo del suo insegnamento santarcangiolese, legge pubblicamente «nella scuola, et anche in questo nostro Caffè» la dissertazione planchiana sui «Vescicatorj» [[88]]:

 

L’ò letta ancora nel caffè [[89]], dove concorre ogni sorte di Persone. Giacché ogni sorte di persone è soggetta a poter essere martoriata da certi Medici, o siano Fanfaroni della Marca collo strano, e crudele rimedio de’ Vescicatorj, e perciò quivi ancora ò stimato bene di diffondere que’ Lumi, che in quella sono sparsi a comune vantaggio di tutta la Società, acciocche se per avventura non si volessero astenere i Fanfaroni dal farne uso, imparino almeno i Malati o gli Assistenti a rifiutarli.

 

Nel voler diffondere i «Lumi» che lo scritto planchiano spargeva, G. P. Giovenardi dimostra un’attenzione alla nuova Scienza che gli deriva dalla stessa scuola di Bianchi, e che contrasta (fatto questo che succede pure per il suo maestro), con lo spirito erudito sterilmente incarnato nella polemica sul «Rubicone degli Antichi» oppure in alcune dissertazioni lette presso i Lincei riminesi da altri accademici [[90]].

Giovanardi compose l’Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi [[91]], alla pubblicazione della quale era contrario il vescovo di Rimini, monsignor Francesco Castellini, che minacciava, in caso di edizione di quel testo, una «vendetta trasversale» al nipote ex fratre di Bianchi, Girolamo, medico dell’ospedale cittadino [[92]]. Lo stesso G. P. Giovenardi si adopera, alla morte di Planco, per la riapertura della sua scuola privata, assieme a Girolamo Bianchi e a don Filippo Zambelli [[93]].

 

2. Mattia Giovenardi

Nel diario planchiano del 15 giugno 1750, relativo alla visita a San Vito ed alla questione della colonna rubiconiana, abbiamo già incontrato il nome di Mattia Giovenardi, cugino di Giovanni Paolo, ex alunno di Bianchi ed accademico dei Lincei riminesi. Mattia Giovenardi il 30 aprile 1746 scrive a Planco di ricevere regolarmente «le novelle di Firenze». Il 14 giugno dello stesso anno gli preannuncia:

 

darò a lei il denaro per l’altro semestre, se ella ci favorirà di venire: altrimenti o glie lo manderò capitandomi l’occasione, oppure glie lo porterò io in persona nel tempo delle vacanze, che incominciano verso la metà di Agosto.

 

Ed il 12 novembre dichiara che le Novelle gli «piacciono». Non sempre però esse gli giungono con puntualità perché «malamente indirizzate» (8 giugno 1748).

Di Mattia Giovenardi mi sono occupato, in ambito di Studi Romagnoli [[94]], con una comunicazione del 1996, dalla quale ora riprendo soltanto alcune notizie. Egli era considerato assai dotto in tutte le discipline, dalle umanistiche alle scientifiche. Fu autore di novelle ed insegnante al Seminario di Bertinoro, da dove nel 1749 lo licenziò quel vescovo che lo stesso Mattia Giovenardi definisce un «fanatico». Dopo averlo scacciato, il vescovo lo accusò di essere «fuggito dalla sua Diocesi».

Allegata all’epistola di Mattia Giovenardi a Bianchi dell’8 giugno 1749, c’è una lettera che Planco gli aveva inviato il 29 ottobre 1748, di cui trascrivo la parte iniziale:

 

Il Sig. Pasquali Librajo [[95]] mi scrive d’aver già spediti i due tomi del Dizionario delle Scienze [[96]] per lei, e forse a quest’ora sarebbero giunti, se non fosse stato il cattivo tempo [[97]]. Io terrò gli otto paoli che mi avvanzano, com’ella dice, o per conto delle Novelle dell’anno venturo, o per conto del terzo tomo, e quando saranno giunti i due primi le ne darò avviso.

 

Il 27 marzo 1747, Mattia Giovenardi aveva scritto a Bianchi:

 

Rendo grazie infinite a V. S. Ill.ma, ed Ecc.ma del favore che essa mi ha fatto di far venire da Vinegia i libri, che ordinai al Sig. Abbate Cenni. Se più si ritrova in Rimino il padre Cristofano Berzanti, li potrà consegnare allui, dicendo che sono libri che vanno al padre Cristofano Montalti Filippino di Cesena, e che [h]anno da servire per li suo fratelli, che sono qui in Seminario.

 

Infine ricordo che l’8 giugno 1748 Mattia Giovenardi si complimenta con Bianchi per quanto appena letto nelle «Novelle letterarie» : sul foglio ventesimo, gli scrive,

 

in data di Verona ho veduto che ella è onorevolmente nominata, dove è lodata meritatamente una sua ricetta pel male epidemico delle bestie, e la sua condotta insieme nell’impedire il comercio de contadini, per cui finì presto il male epidemico sul territorio Riminese [[98]].

 

3. Padre Antonini

Un padre Antonini di Montalboddo, ora Ostra, è ricordato da Lami l’11 febbraio 1747.

 

4. Nicolò Paci Ippoliti

Ha da poco compiuto vent’anni, il riminese Nicolò Paci Ippoliti (1726-1799), quando il suo nome appare per la prima volta, l’11 febbraio 1747, nella corrispondenza di Lami a Bianchi. Ex allievo di Planco, ha completato la sua formazione a Modena ed a Bologna, dove frequentò le lezioni di Francesco Maria Zanotti. Non fu soltanto studioso di lettere e di scienze, ma coltivò con successo pure la poesia, componendo «parecchi sonetti, che sono altrettanti ritratti di insigni riminesi» [[99]], tra i quali figura lo stesso Bianchi a cui fu sempre legatissimo, come testimoniano le epistole a lui dirette.

Il 21 aprile 1747, «di casa» (a Rimini), Paci Ippoliti trasmette a Planco «una insolentissima lettera d’un pazzo modenese», dichiarando di far ciò non per «mancanza di stima», ma per sapere come rispondere all’epistola stessa. Quel «pazzo», apprendiamo, è un «Prete» che ha preso le parti di Domenico Vandelli il quale era intervenuto contro un lavoro di Bianchi (il già ricordato De’ vescicatorj), come ricaviamo da una lettera inedita dello stesso Vandelli che scrive a Bianchi definendolo autore di «imposture e maldicenze» e di «moltissime infedeltà»: questo accenno rimanda ad una precedente polemica di Vandelli sulla Storia dell’Accademia de’ Lincei pubblicata da Planco nel 1744, quale premessa all’edizione da lui curata del Fitobasano di Fabio Colonna. La lettera di Vandelli prosegue: «Ora la tengo nel numero de’ letterati superficiali, e fra Montambanchi di mala natura, che mordono ad ogni capo» [[100]].

Paci Ippoliti definisce Vandelli un «poveretto» che «non sapendo in qual altro modo rendersi nominato, vuole acquistarsi fama con gli spropositi» e con dicerie che non meritano che Bianchi perda tempo «per dar loro risposta». Ma dovendo egli stesso, Paci Ippoliti, ribattere al prete «pazzo», chiede al maestro di «favorirgli, come l’altra volta una minuta, a tenore della quale ei possa dar risposta a questo Vandellista».

Il 21 ottobre 1753, da Bologna, Paci Ippoliti racconta a Planco:

 

Ieri, trovandomi al caffè, udii da un Uffizial Franzese una cosa, che mi parve strana assai, ed incredibile, cioè, che in Normandia una vacca partorì due Gemelli, i quali amendue erano perfetti fanciulli in tutte le loro parti. Quello, che più mi fà stupire si è, che cotesti fanciulli nulla aveano del Bovino neppure nella voce, e nella fisionomia. L’Ufficiale non è però uno sciocco, ma Persona di credito, ed assicura, essergli ciò stato scritto poc’anzi da Persona degna di fede. Una così strana novella è stata materia di moltissimi discorsi; ed io non ne ho mai favellato, perché non l’ho mai creduta vera. Ho però voluto recarlene notizia per sentirne il suo sentimento, il qual certo non può essere, che di gran peso.

 

Per comprendere il significato di questa missiva, occorre ricordare che Bianchi aveva pubblicato a Venezia nel 1749 una sua dissertazione, tenuta ai Lincei nello stesso anno, ed intitolata De monstris ac monstrosis quibusdam [[101]]. Questo studio, al di là degli aspetti più o meno teoricamente validi ancor oggi sotto il profilo scientifico, merita considerazione per una questione che sta alla base della problematica trattata da Planco, cioè il concetto di Natura così come emerge attraverso il sistema della classificazione scientifica da lui usato. Bianchi dà ormai per scontato che la perfezione naturale, presupposta dai filosofi aristotelico-tomisti, sia smentita dai fenomeni cosiddetti mostruosi. Questa sua posizione non dovette piacere agli ambienti ecclesiastici curiali cittadini che nel 1752, dopo che Bianchi tenne una dissertazione accademica In lode dell’arte comica, poi subito stampata a Venezia, ne approfittarono per colpirlo, creando uno scandalo che approdò alla condanna all’Indice dell’operetta di Planco, il 4 luglio del medesimo anno [[102]].

 

5. Padre Forni

Il padre Inquisitore Forni, del quale non abbiamo nessuna notizia biografica, figura abbonato nel 1750, come dimostra un pro memoria anonimo del primo maggio di quell’anno, ritrovato tra le epistole di Lami a Bianchi [[103]]. In precedenza, il 13 febbraio 1750, Lami aveva scritto a Bianchi:

 

Ho ricevuto le cinquanta lire della cambiale rimessami da S. V. Ill.ma per pagamento delle cinque associazioni alle «Novelle letterarie» del corrente anno, dipendenti da lei, e gliene ho dato credito.

 

A tali «cinque associazioni» va aggiunta anche quella dello stesso Planco, il quale è inserito, il primo gennaio 1752, in un elenco di sei abbonati [[104]], dove (oltre ai già considerati Bianchi, Forni e G. P. Giovenardi), appaiono tre nomi nuovi: Franciolini, Sartoni e Vitali. Non risultano quindi più associati Antonini, Mattia Giovenardi e Paci.

 

6. Federico Sartoni

Il conte Federico Sartoni (1730-1786) appartiene alla dotta categoria dei cultori di cose antiquarie e numismatiche. Il catalogo delle sue monete imperiali romane fu stampato da Pietro Borghesi (che vedremo al n. 13 di questo elenco).

Sartoni scrisse una Raccolta di memorie patrie «registrate senz’ordine cronologico» [[105]]. Fu autore della lapide commemorativa di Planco [[106]], che ora si trova nel cortile della Biblioteca Gambalunghiana.

 

7. Abate Giuseppe Vitali

Nel 1752 era maestro di Lettere umane e di retorica al Seminario di Iesi. Nato a Verucchio ed ex alunno di Planco, fu considerato da G. P. Giovenardi [[107]] espertissimo nelle lingue greca e latina.

Di Vitali, Bianchi parla numerose volte nelle «Novelle letterarie» , in relazione ad argomenti di antiquaria [[108]].

 

8. Lodovico Franciolini

Anche il gentiluomo avvocato Lodovico Franciolini risiede ad Iesi. Bianchi, in una sua lettera, apparsa sulle «Novelle letterarie» e relativa a materiale antiquario scoperto da lui e da Vitali, lo definisce

 

cavaliere di spirito, e molto versato nell’erudizione, e massimamente nella Legale, per cui è diventato un acerrimo Difensore de’ Privilegi della nobilissima, e regia città di Iesi contro gli attacchi de’ popoli de’ Castelli ad essa sottoposti [[109]].

 

9. Lucantonio Cenni

Lucantonio Cenni insegnò al Seminario di Bertinoro, dove fu collega di Mattia Giovenardi. Anch’egli ex alunno di Planco ed accademico dei Lincei riminesi (dove recitò «dissertationes aliquas»), è ricordato come pubblico maestro di Lettere, regista teatrale, attore e poeta.

Pure lui fu cacciato dal Seminario di Bertinoro. La causa, certi «pericolosi amoretti», conclusisi con un matrimonio e la nascita, dopo poco la celebrazione delle nozze, di una bambina [[110]].

Il 14 gennaio 1753, da Cesena, Cenni prega Bianchi di fargli «venire le Novelle Fiorentine del corrente 53», e di dirgli «a chi e quanto debba mandarli d’importo per un semestre, giacché so, che si paga a semestre per semestre».

 

10. Gian Carlo Vespignani

L’abate [[111]] Gian Carlo Vespignani da Santarcangelo il 19 dicembre 1755 invia a Bianchi la somma di scudi 1:60 «per anticipato delle «Novelle letterarie» dell’anno venturo», pregandolo di «darne credito al chiarissimo Sig. Lammi (sic)».

Il 22 agosto 1756 da Loreto egli scrive a Planco:

 

prendo occasione di supplicarla a voler recuperare le mie «Novelle letterarie» , e farmele diriggere in Amelia, dove sarò fra poco, a Dio piacendo. Scrivendo anche al Signor Lami, se mi vuol far questa grazia, perche le faccia in avvenire colà mandare.

 

Nella stessa lettera Vespignani aggiunge:

 

le reco a notizia ch’io ô lasciato al Sig. Canonico Muccioli il Gentili De Patriciis perche il consegni al Sig. Canonico Giovenardi, ritornato che sia in S. Arcangelo, il quale m’â promesso di farlo pervenire sicuramente di mano di V. S. Ill.ma.

 

11. Canonico Nobili

Un non meglio precisato canonico Nobili è ricordato da Lami a Bianchi il 6 gennaio 1757, assieme a Vespignani. In questa lettera Lami parla complessivamente di «dieci associati» [[112]] alle Novelle, Bianchi compreso, aggiungendo: «attenderò dai P. Vespignani e Nobili se vorranno continuare a prenderle» [[113]].

Il dato dei «dieci associati» obbliga ad una parentesi. Tra 1755 e 1756 le Novelle hanno avuto nove abbonati ‘planchiani’, come abbiamo visto citando le sei associazioni risultanti al primo gennaio 1752 (Bianchi, Forni, Franciolini, G. P. Giovenardi, Sartoni, Vitali), e le tre successive adesioni (Cenni, Nobili, Vespignani). Manca quindi un nome per raggiungere la cifra indicata da Lami  («dieci associati»): ed è quello che appare qui di seguito (Bertozzi). Occorre però fare un’altra, fondamentale precisazione: poiché Nobili e Vespignani sono da Lami dichiarati incerti, e non possono quindi essere considerati tra i «dieci associati» sicuri, per far tornare i conti dobbiamo ipotizzare che il posto di Nobili e Vespignani sia stato preso o da vecchi abbonati ricuperati o da associati nuovi (ignoti). Dei quali si dovrà tener conto in sede di bilancio conclusivo. Un nuovo associato, come vedremo, potrebbe essere il riminese Bernardino Brunelli.

 

12. Giannantonio Bertozzi

Il medico Giannantonio Bertozzi di Montefiore, da una lettera di Lami a Bianchi del 3 settembre 1757, figura abbonato a 15 paoli l’anno. Il 31 agosto 1759, Bertozzi scrive a Planco:

 

Circa l’anticipazione per le Novelle Fiorentine bisognerà aspettare la risposta del Sig. Dottor Lami, dispiacendomi al sommo per la perdita cui Ella hà dovuto soccombere per tali associazioni.

 

Quattro mesi dopo, il primo gennaio 1760 Bertozzi comunica a Bianchi:

 

Dalla qui annessa che mi prendo la libertà d’inviare a V.S. Ill.ma a sigillo alzato sentirà quanto scrivo al Sig. Lami circa la mia anticipazione per le Novelle; quando questa sia di suo piacimento, avrà la bontà di lasciarla correre per la Posta. Credo però che questa richiesta d’anticipata per il corrente 1760 non sia stata coll’intelligenza del Sig. Lami, ma piuttosto per trascuraggine di chi ha l’incarico di spedire le Novelle, [il] quale dovendo mandare ad altri tali ordini, ne avrà annesso uno anche alle mie senza ricercare il Sig. Lami se sia stato sodisfatto.

 

Il 28 gennaio 1760 Bertozzi scrive a Planco:

 

In quest’ordinario hò ricevuto la risposta del Sig. Dottor Lami, in cui mi accusa la ricevuta della mia anticipata per le Novelle del 1760 e già mi ha mandato li tre fogli arretrati.

 

L’8 giugno 1762 da Orciano (le precedenti lettere provengono tutte da Montefiore), Bertozzi parla di un’altra iniziativa editoriale propostagli da Bianchi, e dell’intenzione di «lasciare» la gazzetta fiorentina:

 

Le rendo ben distinte grazie del manifesto favoritomi della Gazzetta salutare la quale certo sarà una cosa buona ed utile, ma ora non posso fare questa spesa di associarmi, perché oltre li 22 paoli all’anno vi sarebbe ancora l’altra della posta non ostante che venisse a V. S. Ill.ma per Barca, essendo molto scarse le occasioni di quì a Pesaro, o per costì, quando mi trovarò più commodo allora mi prevalerò de’ di lei favori.

Alla fine del corrente anno voglio lasciare quella di Firenze perché conosco che poco utile mi porta, e con quel denaro potrei provvedermi di libri più utili, oltrediché questa benedetta Posta di Fossombrone ora me la fà avere degl’Ordinarj doppo, ora non me la vuol passare per Lettera semplice fuori di stato, come faceva il maestro di Posta di costì.

 

Tra i «libri più utili» che interessano Bertozzi, ci sono ovviamente quelli di Medicina. Molti glieli procura Bianchi a Venezia:

 

Mi scrive il Signor Pasquali (…) averla incomodata per un altro fagotto di libri. Se dunque questi li sono giunti la prego inviarmeli per il latore della presente, e significarmi il costo, e la spesa occorsa, che nel futuro ordinario sarà da me prontamente rimborsata [[114]].

Per mano di questo Postiglione le mando paoli dieci per le Tavole anatomiche del Kulun, al quale potrà consegnarle, se sono ancora giunte da Venezia, come Ella aspettava, e se in questi dieci paoli non fosse compreso il trasporto, e gabelle, la prego avvisarmelo che sarà prontamente rimborsata [[115]].

 

Il 12 aprile 1762 Bertozzi parla di un «noto libro coll’erbe» procuratogli e speditogli a Pesaro per Orciano, via Fossombrone. Il 24 aprile 1762, Bertozzi comunica a Bianchi:

 

quando potrò mi provederò ancora del Fitobasano di Fabio Colonna da lei illustrato [[116]], ed avrò piacere ancora d’avere la di lei dotta dissertazione sopra i vescicatorj, e però la prego avvisarmi il prezzo dell’uno e dell’altro per mia regola. Quello de Conchis [[117]] lo hò. Nella prossima Fiera di Sinigaglia voglio provedermi de’ comenti dell’Aller agl’Aforismi di Boerave [[118]], e della materia medica del Giaffroy [[119]], perché si (h)anno a miglior prezzo assai che farli venire a dirittura da Venezia. Bramerei ancora sentire il di lei savio parere circa l’utilità dell’Opera nuova del Sig. Morgagni De causis morborum per anatomen indagatis, perché ancora di questa vorrei provvedermi allorche mi sarò rifatto un poco delle molte spese occorsemi.

 

E’ del 23 febbraio 1769 quest’altra lettera da Urbania:

 

V. S. Ill.ma favorì indicarmi che l’opera del Sig Morgagni De causis morborum per anatomen indagatis si ristampava in Napoli in quanto più comoda dell’edizione in foglio, ed a migliore prezzo, onde prendo l’occasione di pregarla di avvisarmi se sia seguita tale ristampa, ed indicarmi la maniera di averla.

 

L’accenno alla «Fiera di Sinigaglia» (contenuto nella lettera del 24 aprile 1762), mi permette di sottolinearne l’importanza, citando un passo di uno studioso contemporaneo, Mario Infelise:

 

Non fu pertanto un caso se l’unica fiera d’Europa che nel corso del Settecento ebbe ancora importanza per i librai veneziani fu quella di Senigallia, dove ogni anno, nel mese di luglio, essi si davano appuntamento con i colleghi del centro Italia. L’effettivo ruolo ricoperto da tale manifestazione per il commercio librario italiano è ancora da chiarire. (…) Le corrispondenze tra i librai tuttavia inducono a ritenere che la fiera di Senigaglia costituisse ancora a metà Settecento un punto di riferimento fondamentale per chi operava nell’editoria. Anche se non frequentata da tutti, erano sicuramente molti i librai italiani che si ritrovavano per presentare i propri cataloghi e per scambiarsi reciproche informazioni sul mercato [[120]].

 

13. Pietro Borghesi

Nato a Savignano di Romagna, Pietro Borghesi (1722-1794), frequentò in Roma il Seminario pontificio, poi fu allievo di Planco a Rimini. Il suo abbonamento alle Novelle è documentato dal 1759. Suo padre Bartolomeo (il cui nome egli rinnoverà nel più conosciuto figlio, 1781-1860), gli lasciò il primo nucleo di un museo numismatico che arricchì grazie non soltanto ai «beni di fortuna» di cui era «provvisto largamente», ma anche ad un «approfondimento in senso scientifico della sua passione» [[121]].

A Savignano Pietro Borghesi fu segretario dell’Accademia degli Incolti [[122]], attestata dal 1651, alla quale nel 1801 seguì quella dei Filopatridi, tra i cui promotori fu il figlio Bartolomeo (che per distinguerlo dal nonno è detto comunemente Bartolino). Se in campo numismatico «odiò di prodursi colle stampe» [[123]], Pietro Borghesi intervenne invece nella disputa sul Rubicone [[124]], rivendicando al fiume di Savignano l’onore di quel nome, e polemizzando con il proprio antico maestro [[125]], a cui rivolge persino la preghiera di usar «moderatezza» nella discussione.

I loro rapporti non si guastarono per questa differenza d’opinione. Il 27 settembre 1769, ad esempio, Pietro Borghesi invita a cena Planco che ai presenti legge due sue lettere inviate all’ex allievo Clemente XIV,

 

dove nella seconda io gli dico che egli trae la sua prima origine da Verucchio, dove la trassero i Malatesti, essendo stato concepito il Papa dalla madre in Verucchio, e poi partorito in Santarcangelo, e studiò la Gramatica, l’Umanità, la Rettorica in Rimino ed anche la Filosofia vestendo l’abito religioso di San Francesco in Mondaino, o sia in Monte Gridolfo, dove andava nelle vacanze a villeggiare N. S. quando era giovinetto [[126]].

 

A proposito di Rubicone, va ricordato pure che, contemporaneamente ai Lincei, a Rimini opera l’Accademia degli Adagiati, fondata più di cento anni prima, come nel 1756 scrive lo stesso Bianchi sulle Novelle [[127]]. L’Accademia degli Adagiati era non soltanto di indirizzo filosofico e matematico ma pure poetico, per cui «era stata come assorbita, e confusa da quella degli Arcadi della Colonia Rubiconiana, dedotta (…) in Rimino sessant’anni sono, cioè fino da’ primi anni della fondazione dell’Arcadia di Roma» [[128]].

Un ricordo di tale «Colonia Rubiconiana» riminese, s’incarna nell’Accademia Rubiconia Simpemenia dei Filopatridi di Savignano, essendo il termine «Simpemenia» usato per indicare l’«adunanza dei pastori». La Rubiconia Simpemenia nasce in aperto contrasto con Rimini: infatti, proprio nell’invito diffuso il 26 febbraio 1801 alla gioventù savignanese, si definiscono «dotte chimere» le opinioni espresse mezzo secolo prima da Planco sul Rubicone [[129]].

Proprio a Rimini era stato diffuso il termine di Filopatride in un proclama diretto «Al popolo del Rubicone» [[130]], in cui si esalta «l’invitto liberatore d’Italia, il Distruttore della Oligarchia», Napoleone; si condanna la «prostituzione» dei passati governanti che avevano favorito l’egoismo e l’aristocrazia, contro i quali era necessario combattere; e si lancia questo grido di battaglia: «A terra Egoisti, Aristocratici, Disturbatori della bella Democrazia a terra» [[131]].

La parola Filopatride dunque aveva una valenza politica che non poteva non essere presente anche alla mente dei giovani savignanesi che davano vita alla Rubiconia: Girolamo Amati, Bartolomeo Borghesi e Giulio Perticari. Il che è confermato da due fatti:  la diffidenza con cui le autorità locali accolsero le adunanze accademiche [[132]]; e l’esperienza liberale di Bartolomeo Borghesi che si rifugiò a San Marino nel 1821.

Come scrisse Augusto Campana,  «se il Borghesi e il Perticari si erano procurati fin dal 3 maggio 1818 la cittadinanza nobile della Repubblica di S. Marino non era certamente per puro ornamento» [[133]]. E per Giulio Perticari vorrà pur dire qualcosa l’elogio funebre di Giuseppe Mazzini che lo definì uomo «di cui vivrà bella la memoria tra noi, finch’alme gentili alligneranno in Italia» [[134]].

 

14. Bernardino Brunelli

Nelle Novelle del 1761 appare una lettera scritta da Lami al riminese canonico Epifanio Brunelli, di argomento religioso [[135]]. Da un’epistola del 1759 di Lami a Giovanni Antonio Battarra, apprendiamo che Epifanio Brunelli era un collaboratore abituale della rivista fiorentina.

Epifanio era figlio di Bernardino, bibliotecario gambalunghiano [[136]] dal 1748 al 1767. Durante questo periodo, assieme ai due fratelli dottor Giovanni Battista e canonico don Giulio Cesare, Epifanio aveva collaborato [[137]] con il padre, a cui (dal 1767 al 1796) subentra nell’incarico [[138]]. Anche Epifanio è stato allievo di Bianchi, un cui scritto, con parere favorevole a che il figlio prenda il posto del padre alla Gambalunghiana [[139]], attesta: entrambi, padre e figlio, hanno lavorato bene in quella pubblica «Libraria», facendo provviste di volumi all’estero, «specialmente dalla Germania, e dall’Olanda».

Nel 1755 Bernardino Brunelli chiede a Bianchi di procurargli dodici dei sedici tomi usciti sino ad allora delle Novelle [[140]], con la speranza di «averne il corpo intero», cioè tutta la raccolta da procurare «in Firenze, o in Rimino che sarebbe minor spesa».

Nel 1758 Bernardino Brunelli comunica a Planco che il canonico Garampi «è sulle mosse di fare un giro nello Stato Veneto», dove potrebbe acquistare il Giornale romano dei Pagliarini.

Nel 1765 Epifanio Brunelli si trova a Todi, e qui ha l’incarico di «esigere alcune associazioni per le «Novelle letterarie» del dottor Lami», come scrive suo padre a Bianchi, citando quale abbonato un don Brighi cesenate.

 

15. Dopo i lettori, gli autori

Bianchi nel 1766 compie con Epifanio Brunelli un tour a Loreto, Assisi, Perugia, Todi, Roma, Napoli, Siena, Firenze e Bologna. L’anno successivo, proprio sulle Novelle, Giovanni Cristofano Amaduzzi, altro celebre ex alunno di Bianchi, e dal 1766 assiduo collaboratore del foglio fiorentino [[141]], ricorda l’incontro avuto in Roma con l’abate Johann Joachim Winckelman, in compagnia dello stesso Planco e di Epifanio Brunelli [[142]].

Amaduzzi fu allievo di Bianchi per sette anni [[143]], a partire dal 1755. Per questo motivo non appare nell’elenco che Planco pubblicò nel 1751, con i nomi degli scolari che aveva avuto presso di sé [[144]]. Quella lista testimonia la missione educativa che Bianchi ha sempre svolto e di cui andava giustamente orgoglioso [[145]]. In essa incontriamo personaggi divenuti importati a livello locale e nazionale, in ambito religioso, culturale o medico.

 Amaduzzi è un protagonista (non sempre riconosciuto) della scena religiosa e culturale nell’ultimo quarto del secolo XVIII, svolgendo un ruolo fondamentale tra i cosiddetti giansenisti italiani [[146]]. Compose tre Discorsi filosofici [[147]] con i quali rovescia le posizioni emergenti dalle leggi accademiche planchiane [[148]], e si fa portavoce delle istanze del nuovo pensiero: per questo fatto, incontra pericolose opposizioni, e subisce violenti attacchi dai quali lo salva il cesenate Pio VI, successore di Clemente XIV.

E proprio da Clemente XIV, come racconta una biografia di Planco attribuita a Battarra [[149]], Amaduzzi riesce a far ottenere al proprio maestro il raddoppio dello stipendio e la nomina a medico segreto onorario del pontefice [[150]]. A sua volta Bianchi, citando i favori ricevuti da Clemente XIV, inserisce anche i due incarichi attribuiti dal papa ad Amaduzzi: la cattedra di Greco alla Sapienza, e la Soprintendenza della Stamperia di Propaganda Fide [[151]].

Amaduzzi appartiene, dunque, alla generazione successiva a quella degli accademici planchiani, nel cui nucleo originario operò il già ricordato Battarra, scienziato degno di citazione [[152]] in quanto scoprì, grazie ad un’applicazione corretta del metodo di indagine sperimentale, che la generazione dei funghi avviene «per semenza e non spontaneamente dalla putredine».

I nomi di Battarra ed Amaduzzi servono simbolicamente sia per dimostrare gli effetti dell’insegnamento di Bianchi, sia per attestare il superamento dei limiti teorici e delle ambiguità che esso aveva. Planco, infatti, se da un lato con le sue indagini si oppone a tutti i sistemi vecchi o tradizionali della Filosofia, soprattutto a quelli aristotelico-tomisti, come succede con il De monstris, dall’altro rimanda ad un pensiero più da erudito ‘vecchia maniera’ che da vero scienziato moderno.

 

Riministoria

lettori.676.html

revisione 28 settembre 2003



[1] Nel 1770 Giovanni Lami muore, e le «Novelle letterarie» (in seguito, Nov.) proseguono, sempre a Firenze, con una nuova serie, ripartendo dal vol.I, presso i tipografi Allegrini, Pisoni e Compagni all’Insegna di Ercole Fanciullo, mentre il tipografo che lavora per Lami è Gaetano Albizzini all’Insegna del Sole. La raccolta delle Nov. da me esaminata è quella esistente presso la Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini (BGR), proveniente dalla biblioteca personale di Giovanni Bianchi, come attestano le scritte di mano dello stesso Bianchi in fine dei singoli tomi (con le annotazioni di articoli propri, delle citazioni che lo riguardano o di cose riminesi); e come documenta la lettera a lui diretta, dei tipografi Allegrini e Pisoni per il rinnovo dell’associazione alle Nov., dopo la morte di Lami. Tale lettera è allegata al vol. del 1770, e reca la data del 10 febbraio di quell’anno. La raccolta di Bianchi in BGR, oltre ai tomi di Lami (segn. 7.H.II.9-38), comprende anche i volumi 1771-74 della nuova serie (segn. 7.H.II.39-43). Ma in tale raccolta esiste pure quello del 1777, successivo alla scomparsa di Bianchi, con segn. 7.H.II.44, al quale sono stati allegati alcuni fascicoli arretrati contenenti scritti dello stesso Bianchi, apparsi sulla stessa rivista. (Tutti i documenti, sia manoscritti sia a stampa, sono riprodotti fedelmente rispetto agli originali. Le parti sottolineate sono rese in corsivo. Le integrazioni sono tra parentesi tonda in corsivo.)

[2] Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I. Da Muratori a Beccaria, Torino 1998, p. 334.

[3] Cfr. G. Lami, Memorabi­lia Italorum eruditione præstan­tium, i, Fi­renze 1742, pp. 353-407. Di questo testo mi sono occupato in Modelli letterari dell'autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli», XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299. Su Planco, cfr. pure A. Montanari, La Spetiaria del Sole. Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Rimini 1994; Id., G. Bianchi studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998); Id., «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995. Sui rapporti tra Bianchi e Lami, durante il soggiorno fiorentino di Planco del 1741, cfr. i cosiddetti Viaggi 1740-1774 (conosciuti anche come Libri Odeporici),  SC-MS. 973, BGR, passim, ad annum. I loro incontri avvenivano soprattutto «al Caffè dello Svizzero», in un gruppo di «soliti». Alla data del 30 ottobre 1741, leggiamo: «andai al Centauro dove ricevei le «Novelle letterarie» per tre settimane». Ma le peregrinazioni fiorentine avevano anche altri scopi, se troviamo scritto il 10 novembre successivo: «con una Viniziana andai da certe fanciulle che stanno vicino alla Dogana una delle quali impara a cantare, e l’altra a dissegnare». Queste «certe fanciulle» richiamano alla mente i «certi posti del castello» dove l’Innominato manzoniano (cap. XXI) faceva «una consueta visita».

[4] Bianchi era stato chiamato alla Cattedra senese il 24 luglio 1741: «senza alcun suo maneggio», preciserà più tardi (per sottolineare come la scelta fosse stata dovuta soltanto a chiara fama), in un testo autobiografico (anch’esso anonimo), i Reca­piti del dottore Giovanni Bian­chi di Rimino, Pe­saro 1751, p. III. Sulla paternità dei Recapiti, cfr. le Nov. (tomo XIX, 28 lu­glio 1758, col. 480). La parola «recapito» ha il significato di considerazione reputazione, stima. La data del 24 luglio, relativamente alla nomina, si ricava dalle Schede Gambetti (SG), ad vocem, in BGR. Nel fasc. 218, Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi Giovanni (FGMB), in BGR, Bianchi scrive a proposito della sua chiamata a Siena: essa era avvenuta «senza nessun mio previo impegno». Nel fasc. 150, FGMB, è conservata una sua domanda per ottenere che «il settore Anatomico» fosse «a lui onninamente sottoposto nelle cose di Anatomia»: il che fa pensare a contrasti ed a rivalità tra colleghi. Planco era noto allora anche per altri studi scientifici, come il De conchis minus notis liber, Venezia, 1739, sui foraminiferi.

[5] Di quest’Accademia ho trattato nella comunicazione (di prossima pubblicazione), svolta nel Convegno forlivese su Le Accademie in Romagna dal ’600 al ’900 (maggio 2000), ed intitolata Tra erudizione e nuova Scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745). Il nucleo originario dei Lincei comprende dieci componenti (cfr. le Nov., tomo VI, n. 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846). Oltre a Planco, «Restitutor perpetuus», ci sono: Stefano Galli, «Scriba perpetuus»; Francesco Maria Pasini, «Censor»; Giovanni Paolo Giovenardi, anch’egli «Censor»; Mattia Giovenardi, Giovanni Antonio Battarra, il conte Giuseppe Garampi, Gregorio Barbette, Lorenzo Antonio Santini e Giovanni Maria Cella.

[6] Ne dà notizia lo stesso Lami nelle Nov., tomo XI, n. 51, 18.12.1750, col. 801. Nel Lyn­ceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183 (BGR), c. 19r, si legge che Lami fu ammesso per vari meriti: l’aver pubblicato nelle sue effemeridi le leggi dell’Accademia (della quale «semper bene senserit»), e l’epistola planchiana «contra inscriptionem Pisciatelli», relativa alla secolare disputa sul Rubicone degli Antichi: epistola e disputa che torneranno in seguito anche in questo mio scritto.

[7] Cfr. R. Merolla, Lo Stato della Chiesa, «Letteratura italiana, Storia e Geografia, II, ii, L’età mo­derna», To­rino 1988, p. 1076.

[8] Cfr. Montanari, Giovanni Bianchi studente di Medicina, cit., p. 383.

[9] Ibid., p. 385. Sulla vita culturale a Rimini tra 1600 e 1700, cfr. A. Montanari, Il libertino devoto. A proposito della «biblioteca Agolanti» (1719). Libri e circolazione delle idee a Rimini tra XVII e XVIII secolo, «Gli Agolanti e la Tomba bianca di Riccione», Rimini 2003, pp. 447-470.

[10] Bianchi considerava Galli «uomo erudito specialmente nelle lingue de’ dotti, Greca e Latina»: cfr. Nov., tomo X, n. 29, 18 luglio 1749, col. 461.

[11] La sua scuola privata riminese era iniziata nel 1720, e fu ripresa dopo il soggiorno senese. Bianchi vi insegnava la Filosofia, la Medicina (materia comune a tutti gli allievi), la Geometria e la Lingua greca.

[12] Cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti inediti, «Romagna arte e storia», n. 49/1997, p. 60.

[13] Da SC-MS. 974, BGR, possiamo ricavare un elenco alfabetico dei librai italiani e stranieri con i quali Bianchi era in corrispondenza, oltre che di stampatori ed incisori. Bianchi pubblicò i propri scritti a Rimini, Pesaro, Bologna, Venezia (qui con Pasquali).

[14] I legami con la corona del Portogallo procurano disavventure giudiziarie ai Pagliarini. Cfr. M. D. Collina, Il carteggio letterario di uno scienziato del Settecento, Firenze 1957, pp. 97-98.

[15] In BGR, Fondo Gambetti, Lettere al dottor G. Bianchi (FGLB) esistono dieci lettere di Filippo di Stosch. Bianchi lo aveva conosciuto personalmente a Firenze, come si ricava dai citt. Viaggi 1740-1774, alla data del 3 novembre 1741 («(…) andai dal Sig. Baron Stosch appresso il quale mi trattenni fin passato mezzogiorno mostrandomi le sue librerie il Sig. Abbatino Mehus che gli fa come da Bibbiotecario, nella qual Libreria si trovano molti libri rari spezialmente in genere d’Antichità»). Stosch muore il 7 novembre 1757: Lami lo ricorda nelle Nov. (tomo XVIII, n. 46, 18 novembre 1757, coll. 720-724), con un commosso necrologio in cui scrive: «benché eterodosso», meritava «di essere onorevolmente commemorato (…) pel suo bel genio per la letteratura ed erudizione, e perché fu un perpetuo Associato» alle Nov., «avendone avuto sempre stima, con tutto che qualche differenza nascesse tra i compositori di esse, e lui, nell’anno 1742». Lami ricorda, di Filippo di Stosch, anche la «bella, e copiosa Biblioteca istorica, antiquaria, e di belle lettere, nella quale è un numero enorme di grossi codici, contenenti stampe e disegni geografici, e architettonici, messi insieme da lui con fatica e diligenza infinita; simil raccolta de’ quali non credo che altrove si trovi». Aveva parimenti un «ricco e raro Museo antiquario, che faceva in verità meraviglia». Tutte le lettere dirette a Bianchi citt. nel presente scritto, anche di altri mittenti, appartengono al FGLB.

[16] Su Philipp von Stosch, giunto a Firenze agli inizi del 1731, ed i suoi rapporti con l’ambiente toscano, cfr. M. A. Morelli Timpanaro, Per Tommaso Crudeli nel 255° anniversario della morte, 1745-2000, Firenze 2000, passim.

[17] Cfr. E. Cochrane, «Nota introduttiva» a La letteratura italiana. Storia e testi, vol. 44, Dal Muratori al Cesarotti, tomo V. Politici ed economisti del Primo Settecento, Milano-Napoli 1978, p. 455.

[18] Ibid.

[19] Cfr. A. Montanari, Il contino Garampi, cit., pp. 59-60.

[20] Ibid., pp. 57-58.

[21] Cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna, Il Settecento a Rimini e dintorni, Rimini 1992-1993, pp. 63-70.

[22] Cfr. A. Turchini, Scienziato, maestro e uomo di cultura, in «Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio», a cura dello stesso Turchini e di S. De Carolis, Verucchio 1999, p. 35.

[23] Il 3 dicembre 1749 Garampi comunica a Bianchi: «in breve anderò ad abitare nel Palazzo Vaticano, ove avrò il comodo eziandio della Biblioteca. Onde io sono contentissimi non solo per la speranza del lucro venturo, quanto e per l’onorificenza presente, e per la grande comodità che avrò in un Archivio e in una Biblioteca che non hanno forse pari nel mondo».

[24] Si veda ad esempio quanto scrive il 15 agosto 1750: «E’ qui in Roma il P. Fortunato da Brescia de’ Minori Osservanti Riformati, Filosofo rinomato, da cui hò saputo che certo sig. Co. Mazzucchelli Cav. Bresciano, stà attualmente stampando una Biblioteca di tutti i Scrittori Italiani, e ne va cercando d’ogni parte notizie. Bisogna che anche noi contribuiamo a questa insigne opera, con somministrare notizie di tutti i nostri Scrittori, e specialmente ora di tutti quelli ch’entrano nelle lettere A.B.C. Quando io avrò veduti alcuni fogli ch’egli ha qui trasmessi ad un suo amico gliene darò migliore contezza».

[25] Cfr. lettera del 25 novembre 1750: «Di novità letterarie, quando ne abbiano e siano di mia notizia non manco di partecipargliene. Ma in questa città di negozi, si stenta a ritrovarne».

[26] Cfr. lettera del 22 settembre 1742.

[27] Suo allievo è lo stesso Garampi: cfr. lettera a Bianchi del 17 dicembre 1741.

[28] Cfr. E. Pruccoli, L’Alberoni e San Marino nei carteggi di I. Planco, in Annuario XXIII della Scuola Secondaria Superiore della Repubblica di San Marino, San Marino 1997, p. 284.

[29] Cfr. lettera del 15 luglio 1742.

[30] Cfr. lettera del 14 agosto 1742.

[31] E’ la cit. lettera del 5 ottobre 1742.

[32] Tra le minute gambalunghiane di Bianchi (Minutario, SC-MS. 966 e 969), mancano proprio quelle del periodo che ci interessa, per cui non sappiamo nulla di che cosa scrisse Planco a Galli ed a Garampi sul tema che esaminiamo, né esistono in Roma gli originali di Bianchi a Garampi, limitatamente allo stesso periodo, in Archivio Segreto Vaticano, Fondo Garampi, vol. 275. Come mi precisa cortesemente lo storico dottor Enzo Pruccoli, in tale vol. 275 le missive di Bianchi a Garampi «cominciano con l’anno 1746: cioè con l’andata di Giuseppe Garampi a Roma. Le lettere ricevute prima (quindi anche quelle del periodo senese del Bianchi) rimasero certamente a Rimini. E’ il Garampi stesso, indirettamente, ad indicare questa circostanza nei numerosi riferimenti, contenuti nel carteggio col Bianchi e con altri corrispondenti, alle “carte lasciate a Rimini” e affidate al suo “Prete di casa” don Domenico Bernardini, che oltre a fare il cappellano dei Garampi era anche una sorta di fiduciario ed agente di Giuseppe Garampi per tutti gli affari, patrimoniali ed anche agricoli, che il monsignore, futuro Cardinale, continuava ad avere nella città natale. In definitiva il carteggio Garampi conservato nell’Archivio Segreto Vaticano non contiene (per nessun corrispondente) nessuna missiva e nessuna minuta di responsiva antecedente all’andata a Roma. Io mi ero illuso, una quindicina di anni fa, che le lettere private ricevute dal Garampi a Rimini durante la giovinezza fossero rimaste in casa e che potesse essersene conservato qualche vestigio nell’archivio domestico finito a Filottrano e, nel 1987, recuperato e depositato nella Gambalunga grazie ad Augusto Campana (e un po’ anche grazie a me); invece per quante industrie abbiamo prodigato su quelle carte, passandole e ripassandole, non vi abbiamo trovato nulla che si riferisse a Giuseppe Garampi. L’opinione che mi sono fatta è questa: quando Garampi salì in dignità ebbe una casa propria anche a Rimini (pur non abitandoci) nel Palazzo Tingoli, dove adesso c’è il Credito Italiano: residenza formale, vicina ma separata dall’abitazione che continuava ovviamente a risiedere nel palazzo di famiglia (poi Baldini, ed ora Brioli). In questa casa, dove praticamente, tranne i fugaci passaggi da Rimini di Giuseppe Garampi, risiedeva il solo Don Bernardini come suo Agente, devono essere confluiti tutti gli effetti personali lasciati a Rimini dal futuro cardinale, compresi molti libri, carte e lettere. Queste cose devono essere state conservate gelosamente da Don Bernardini, che dai documenti appare un collaboratore fedelissimo del Cardinale, e dotato di autorevolezza anche nei confronti del Conte Francesco, fratello maggiore del suo Padrone. Ma dopo la morte di Giuseppe Garampi, l’erede (il nipote Lorenzo, che per le sue doti d’animo si è meritato l’epiteto domestico, tuttora vivo, di Lorenzaccio) deve aver fatto il finimondo, vendendo e disperdendo sciaguratamente ogni cosa». (Questa lettera privata del dottor Pruccoli, del 14 agosto 2000, ha una rilevante importanza documentaria, per cui mi permetto di renderla pubblica, come servizio alla comunità degli studiosi.)

[33] Cfr. Il contino Garampi, cit., pp. 61-62.

[34] Cfr. lettera del 16 marzo 1743.

[35] L’offerta della Municipalità, come si legge in AP 875, Atti Consigliari 1735-1745, Archivio Storico Comunale di Rimini in Archivio di Stato di Rimini (ASR), c. 99r, 23 settembre 1741, aveva ricevuto in Consiglio 34 sì e 10 no. Un’annotazione nella stessa c. 99r reca: «Adì 7 ottobre 1741 non ebbe effetto, per alcun modo per non aver egli accettato».

[36] Quando Bianchi nel 1750 è riconfermato medico primario di Rimini, Garampi gli scrive: «Ho inteso con mio sommo contento la buona nuova (…). Mi dispiace soltanto che mio Fratello (Francesco, n.d.r.), impedito (…), non avrà forse potuto intervenire al detto Consiglio, per contribuire anch’esso a una sì gloriosa risoluzione. Ma godo per altro che del voto suo non vi sia stato bisogno». Il che sta a significare che si era prospettata incertezza su quel voto. Attorno al nome di Bianchi, Rimini si divide nel 1751, quando si doveva eleggere il pubblico «Lettor di logica» che, secondo le disposizioni testamentarie relative a quella cattedra, doveva essere un «prete». A Planco era stato contrapposto proprio Stefano Galli. Alla fine la scelta cadde sull’abate Giovanni Antonio Battarra, altro ex allievo di Bianchi, come ricaviamo dal fasc. 117, Comentario della vita dell’Ab. Giovanni Antonio Battarra (che sembra essere uno scritto autobiografico), SC-MS. 227, Miscellanea Ariminensis Garampiana, Apografi, BGR. (A quel tempo, leggiamo qui, la città di Rimini era «divisa in due Fazioni per certe ridicole ettichette insorte fra la Nobiltà, le quali per quanto fossero piccole tuttavia divisero ed innasprirono gli animi de’ Cittadini; gli uni s’appellavano Tabbarrini, e i contrari dicevansi Tabbarroni».) Altre notizie sull’assegnazione della cattedra si ricavano dalle lettere di G. Garampi il quale si adoprò, sua sponte, affinché Bianchi rinunciasse a favore di Galli, alla cui «povera famiglia» tornava utile «questo piccolo sussidio» da «Lettor di logica» (missiva del 6 marzo 1751). Sulla figura di Battarra, ritorno in una nota successiva.

[37] Sul tema, cfr. A. Montanari, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60; Id., Il pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII, «Romagna, arte e storia», n. 56/1999, pp. 5-26; Id., Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli», XLIX (1998, ma 2001) pp. 671-731; Id., L’«opulenza eccessiva degli Ecclesiastici». Nobili, borghesi e clero in lotta per il «sopravanzo» della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo, «Studi Romagnoli», LI (2000).

[38] Cfr. Il contino Garampi,  cit., p. 62.

[39] A questi tredici, si potrebbero aggiungere due altri abbonati ignoti, dei quali si dirà poi a proposito di una lettera di Lami a Bianchi (del 6 gennaio 1757), che citerò a proposito dell’abbonato n. 11, canonico Nobili.

[40] Bernardino Brunelli potrebbe essere uno di questi due abbonati ignoti, di cui parlo nella nota precedente.

[41] Cfr i documenti biografici conservati in SC-MS. 227 cit., e Breve notizia de' letterati della città ed agro riminese viventi a tutto il 1791, in A. Bianchi, Uomini illustri di Rimini, SC-MS. 375, BGR. Essi sono sostanzialmente identici, con la sola differenza che il primo ha delle aggiunte a margine dei fogli. Giovenardi si laureò in Filosofia a Bologna il primo settembre 1739, cfr. lettera di Giuseppe Monti a Bianchi, FGLB, ad vocem. Le Nov., tomo IV, n. 46, 15 novembre 1743, coll. 731-733, presentando di un’iscrizione trovata a San Vito e spedita in copia da Bianchi al periodico fiorentino, scrivono che G. P. Giovenardi, «Pubblico Professore di Filosofia a Sant’Arcangelo, Terra ragguardevole della Diogesi di Rimino», era «uomo erudito, ed eloquente, e nelle Lettere Latine, e Greche molto versato»: qui si dichiara pure che la parrocchia di San Vito sorge «sulle sponde del famoso Rubicone», detto allora Luso (od Uso). Le Nov., tomo VII, n. 50, 16 dicembre 1746, col. 790, ribadiscono che il Luso era «il vero Rubicone degli Antichi», mentre i Cesenati identificavano lo stesso Luso nell’Aprusa (Ausa) di Plinio (Naturalis historia, III, xv: «Ariminum colonia cum amnibus Arimino et Aprusa, fluvius Rubico, quondam finis Italiæ». Riprendo il testo dall’ed. pisana del 1977, libri I-V, p. 325. In moltissimi autori il passo è erroneamente cit. come III, xx, anziché xv.) Una biografia di G. P. Giovenardi è contenuta nel fasc. 117, FGMB.

[42] La data si ricava da una lettera pubblicata in G. L. Masetti Zannini, Il mito del Rubicone. Contributo alla «fortuna» di Roma nel Settecento romagnolo, «Bollettino del Museo del Risorgimento», Bologna 1969-1971, p. 23.

[43] Sulla posizione della lapide nel cimitero, cfr. la sentenza del 1756 in AP 635, VII, Rubicone, ASR, in cui si dice che la causa era stata promossa dai Cesenati «super prætensa remotione marmorei Lapidis, seu Cippi cum iscriptione “Heic Italiæ Finis Quondam Rubicon”, litteris majuscolis insculpta, positi ad ripas Fluminis Luso vulgo noncupati in Territorio, seu pertinentia ejusdem Oppidi Sancti Archangeli, et precise in Cœmeterio Archipresbytalis Ecclesiæ SS. Viti, et Modesti». Cfr. pure il testo di Planco di cui infra, alla nota 73.

[44] Cfr. G. Urbani, Raccolta di Scrittori e Prelati Riminesi, SC-MS. 195, BGR, p. 765.

[45] Cf. A. Pecci, Note storico-bibliografiche intorno al Fiume Rubicone, Bologna 1889, p. 25.

[46] Cfr. il cit. articolo in Nov., tomo IV, n. 46, 15 novembre 1743, coll. 731-733. Era, almeno tra gli intellettuali riminesi, costume diffuso identificare il Rubicone nell’Uso, come testimonia questo passo di una cronaca del 1742: «Tutto l’esercito Napolispano fece Campo (…) vicino il Fiume Rubicone trà il Ponte di Bellaria, e Bordonchio»: cfr.  U. Marchi, Memorie Ariminesi, I, 1739-1743, SC-MS. 179, BGR, p. 113. Alla p. 132 delle stesse Memorie, leggiamo sul torrente Pisciatello: «con tal nome devesi chiamare, non competendogli quello di Rubicone, come ingiustamente, e con falsità pretendono li Cesenati, [i] quali ridicolosamente attribuiscono ad un Rio, ò sia Torrente, che hà il suo principio da vicino, e non hà fine in mare, il nome di Fiume, e di un Fiume sì rinomato, qual fù il Rubicone. Sù questa indebita ed insussistente pretensione de Cesenati non voglio Io quì fermarmi, ne addurre ragioni in contrario, riportandomi solamente à quel tanto, che è stato scritto contro essi, e contro il detto Torrente “Pisciatello” non solo da Riminesi, mà ancora da scrittori forastieri. Il nostro celebre Dottore Gioanni Planco, che ha sù ciò scritto qualche cosa, ha promesso di diffondersi lungamente, con altro Libercolo che darà alle stampe». La cronaca di Marchi, come ho detto, è relativa al 1742, ma deve esser stata redatta successivamente, se Marchi accenna al fatto che Bianchi «ha sù ciò scritto qualche cosa», riferendosi probabilmente all’articolo cit. delle Nov., 15 novembre 1743.

[47] Cfr. Nov., tomo VII, n. 50, 16 dicembre 1746, col. 790.

[48] Cfr. Masetti Zannini, Il mito, cit., p. 19.

[49] La novella è ibid., pp. 44-51. Circa il ritrovamento di questo testo planchiano, cfr. ibid., p. 19, nota 27. La novella è stata ignorata successivamente da altri studiosi che si sono occupati della questione rubiconiana.

[50] Cfr. in Nov., tomo XVIII, n. 8, 25 febbraio 1757, coll. 117-121, la recensione al Manifesto del Letterato Bolognese (del cesenate padre cappuccino Gianangelo Serra, apparso a Faenza nel 1756), in cui si dice che esso «peggiora la cosa usando termini incivili, ed impropri» contro i Riminesi; ed in cui si richiama una precedente nota dello stesso anno (cfr. Nov., n. 3, 21 gennaio, coll. 39-40), a proposito della Nuova difesa in favore del vero Rubicone, apparsa sempre a Faenza, come commento alla sentenza romana. Nella Nuova difesa era stato appunto scritto che il «nuovo Rubicone» era stato generato da Planco e battezzato da Giovenardi. (A commento della Nuova difesa, le Nov., nel cit. n. 3, scrivono che essa era improntata a «frivoli argomenti, anzi ridicoli», ed osservano: «Che secolo curioso, in cui si vedono le controversie letterarie portate a’ Tribunali di Giustizia!».) Nel cit. n. 8 delle Nov. Lami, dopo aver sostenuto che da 250 anni il vero Rubicone era considerato il Luso, definisce Bianchi «persona integerrima, ed incapace di far cosa disconveniente», in risposta al Manifesto che aveva definito Planco «accorto, e molto ben noto».

[51] Secondo Masetti Zannini, Il mito, cit., p. 23, è stato Bianchi a promuovere «la collocazione del cippo sulle sponde dell’Uso», del quale, spinto da lui, curò l’installazione G. P. Giovenardi.

[52] Nella Lettera prima del 6 marzo 1750 (cfr. Nov., tomo XI, 1750, nn. 20, 21, 22, coll. 311-320, 323-330, 344-349), Bianchi sostiene che la questione del Rubicone era relativa ad «un punto erudito di geografia antica», da lasciare non alle dispute legali (come avvenne), ma «piuttosto ai dotti, e alle Accademie degli eruditi». La Lettera prima tratta della falsa iscrizione cesenate sulla riva del Pisciatello, che Lami (in una missiva a Bianchi del 18 aprile 1750), definisce «un prodromo della controversia Rubiconiana, alla cui intelligenza ho disposto i lettori col ragguaglio del libretto del Padre Guastuzzi, senza prendere partito alcuno, come Ella vedrà dalle Novelle». Recensendo nelle Nov., tomo XI, n. 16, 17 aprile 1750, coll. 246-256, il Parere sopra il Rubicone degli Antichi di Don Gabriello Maria Guastuzzi, apparso a Venezia l’anno precedente, Lami concludeva che erano «celebri» le «contese degli Eruditi circa il luogo e il corso dell’Antico Rubicone», sulle quali voleva mantenersi «indifferente», pronto ad ospitare ogni parere. La Lettera seconda ad un Amico di Firenze intorno del Rubicone, datata 20 marzo 1750 (fasc. 210, FGMB, Nov., tomo XI, 1750, nn. 37, 39, 41, 43, coll. 583-590, 610-618, 641-651, 678-684), appare poi, assieme alla Lettera prima, nel 1756 negli Opuscoli Calogeriani di Venezia, tomo II, pp. 321-378. L’annuncio di questa pubblicazione veneziana, è dato dalle Nov., tomo XVII, n. 42, 15 ottobre 1756, coll. 660-661. A riassumere la questione rubiconiana, valga un’affermazione di Antonio Bianchi: «è stato scritto da molti, ma sempre in contraddizione, per motivo di certe male intese glorie municipali, e per quel genio di dispute cavillatorie che regnava ne’ due scorsi secoli». Cfr. A. Bianchi, Storia di Rimino dalle origini al 1832, manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, p. 43: nella nota bibliografica finale di tale volume, sono elencati i testi degli autori intervenuti nella disputa, e citt. dallo stesso A. Bianchi. Il quale scrive: «sembra indubitato che il Rubicone degli antichi debba essere il fiume di Cesena» (ibid., p. 49).

[53] A questa seconda Lettera, si riferisce Garampi quando scrive a Bianchi il 19 dicembre 1750: «Ieri mattina fù ricapitato (…) il plico colle due copie della eruditissima dilei lettera sopra il nostro Rubicone, che hò subito letta con somma avidità, avendo gustato sommo piacere di osservare in poche parole unite insieme le più forti ragioni che assistono le nostre pretensioni, e quelle recate con tutta la forza e la vivezza».

[54] Cfr. Pecci, op. cit., pp. 29-31.

[55] Cfr. AP 479, Copialettere della Municipalità, 1749-1751, ASR.

[56] Cfr. lettera del 23 novembre 1749, c. 57v, ibid. Tutte le lettere sull’argomento sono dirette a Filippo Eleuterj.

[57] Cfr. lettera del 18 dicembre 1749, c. 63r, ibid.

[58] Le due lettere sono ibid., alle cc. 65r e 66r.

[59] La lettera è del 15 gennaio 1750, ibid., cc. 69-70r.

[60] Cfr. lettera del 29 gennaio 1750, ibid., c. 78v.

[61] Cfr. lettera del 12 febbraio 1750, ibid., c. 82v.

[62] Cfr. lettere del 12 e 22 febbraio 1750, ibid., cc. 83r e 86v.

[63] Cfr. lettera del 26 febbraio 1750, ibid., cc. 87v-88r.

[64] Questa proposta di Eleuterj si ricava dalla riposta dei Consoli, del 12 marzo 1750, mancando l’originale dello stesso Eleuterj. In ASR esiste, a quanto risulta dalle ampie ricerche effettuate, soltanto una lettera di Eleuterj sul problema rubiconiano, datata 18 agosto 1756, in AS 14 (ora Busta 15), Lettere di Agenti e Incaricati.

[65] Tutti i documenti ufficiali redatti da Serpieri per la causa nel periodo 1755-56, sono nella Raccolta di opuscoli sul Rubicone, collettanea curata da Z. Gambetti, SC-MS. 897-899, BGR, con materiale edito ed inedito appartenuto a Bianchi.

[66] Cfr. lettera del 20 dicembre 1749.

[67] Scrive Garampi il 14 gennaio 1750, che l’abate Battaglini era «assai più capace, e insieme più comodo e a portata di assisterla. Non lo dico già per mio risparmio di fatica, ma per il migliore indirizzo del negozio». In FGLB esistono soltanto tre lettere dell’abate Giuseppe Battaglini, rispettivamente del 1740, 1747 e 1760, e tutte da Roma. In nessuna di esse si parla della questione rubiconiana.

[68] Cfr. lettera del 4 febbraio 1750.

[69] Cfr. lettera del 14 febbraio 1750.

[70] Cfr. lettera del 18 febbraio 1750. Il 30 dicembre 1750, Garampi scrive a Bianchi relativamente alla interpretazione della «Tavola Peutingeriana», concludendo con questo post scriptum: «Hò sentito che alcuni Cesenati vadano cercando notizie sopra l’antico Rubicone: segno che si allarmano dadovvero».

[71] Cfr. lettera del 20 dicembre 1749.

[72] Cfr. lettera del 7 gennaio 1750. I «paraguanti» di cui si parla, sono gli oboli, le mance, cioè gli strumenti di una corruzione più politica che giudiziaria. L’ultima notizia sulla questione rubiconiana, presente nelle missive di Garampi a Bianchi, è del 29 maggio 1756, dopo la ricordata sentenza; in essa egli accenna a «tanti altri Procuratori e Mozzorecchi» che lavoravano attorno alle cause presentate ai tribunali di Roma.

[73] Cfr. i citt. Viaggi 1740-1774, ad diem.

[74] Mattia (qui detto Mattias) Giovenardi è un altro abbonato, come vedremo.

[75] Don Giovanni Battista Mancini, riminese, era stato creato pievano di San Giovanni in Compito e Savignano di Romagna nel 1732, e fu «Principe, o Presidente» dell’Accademia degli Incolti: cfr. D. Mazzotti, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Note storiche e biografiche, Santarcangelo di Romagna 1975, p. 34. Sull’Accademia degli Incolti, cfr. infra, alla nota 121. Circa i toponimi San Giovanni in Compito e Savignano di Romagna, va ricordato che un autore settecentesco, Giorgio Faberj, chiama, in una sua cronaca cittadina, il proprio paese come «Savignano in Compito». Quest’opera di Faberj, pubblicata in due parti (Rimini 1994 e 1997), dal defunto dottor G. Donati, ex primario chirurgo a Savignano e poi bibliotecario dei Filopatridi, soltanto nella seconda parte ha il titolo riportato correttamente, Origine di Savignano in Compito, Castello di Romagna, mentre nella prima appare come Origine di Savignano Incopito. Nel tomo I, alle pp. 22-26, si cita la questione rubiconiana: a p. 25 si data al 1751 la lapide di San Vito del 1749, che si dice sistemata per opera di don «Gioanardi»; a p. 26, Faberj scrive che di tutte le stampe su tale questione, furono fatte più raccolte, «talche una è stata posta nella Libraria publica di Savignano, et un’altra racolta di tre Tomi è nella picciola Libraria del Scrittore moderno, ciove di me Giorgio d’Aldrobando Faberj, con suo tittolo, Rubicone preteso dà Tre: Rimino, Cesena e Savignano». Alla p. 76 Faberj osserva che il «Fiume Fiumicino» era «detto Rubicone», quasi a voler mettere in dubbio le certezze dei suoi compaesani. Ai quali poi spiega che Savignano fu fondata dall’«Imperatore» Gajo Sabinio, usando un termine che è la traduzione errata del latino «imperator». Questa parola, quando segue il nome proprio, significa soltanto «generale», e non «imperatore», come invece pensava il cit. Donati (cfr. p. 97, nota 1).

[76] Cfr. in FGLB, nel fasc. Garatoni, Gianfelice: allegata alla missiva di questi a Bianchi del 17 marzo 1753, si trova la cit. lettera di Serpieri.

[77] Una copia della sentenza a stampa, corretta a mano, si trova nella cit. Raccolta di opuscoli sul Rubicone: tra le altre cose, vi è aggiunta la firma del giudice, mons. Giuseppe Simonetti. La stessa sentenza, senza correzioni, è nel cit. AP 635, VII, Rubicone, ASR. La Gazzetta di Rimini, n. 17 dell’11 maggio 1756, riporta: «Da questo Tribunale di Mons. Simonetti Uditore della Camera s’ottenne da’ Riminesi la Sentenza favorevole nella Lite, che loro facevano i Cesenati sopra il Rubicone» (pure in Raccolta di opuscoli sul Rubicone, cit.). La notizia è inesatta, perché la causa, come si è visto, non era diretta contro la Comunità di Rimini.

[78] Cfr. Nov., tomo XVII, n. 25, 18 giugno 1756, coll. 399-400. Il commento sulla causa rubiconiana è in conclusione ad una lettera su argomenti antiquari, che occupa le coll. 396-400. Dopo il pronuciamento romano (secondo Masetti Zannini, Il mito, cit., p. 29), si nota la «petulanza di Iano Planco» che ne rivelerebbe «una certa, benché mai confessata, coscienza d’essere in torto nel sostenere le pretese del suo fiume, e la fragilità degli argomenti, massime quello della sentenza rotale che a lui pare definitivo». Una delle ragioni che avevano spinto Bianchi a sostenere con tanto ardore le proprie tesi, è spiegata in una sua lettera pubblicata sulle Nov., tomo XVII, n. 31, 30 luglio 1756, coll. 487-490: essa è la presenza da sessant’anni in città dell’arcadica «Colonia Rubiconiana» («l’Arcadia di Roma fin dal suo principio avea chiamato Rimino col nome di Colonia Rubiconiana»). Cfr. infra, alla nota 127. All’accademia arcadica riminese accenna il secondo di quattro sonetti pubblicati nel 1756 e dedicati «A Signori Letterati Riminesi per la vittoria ottenuta in Roma nella causa del Rubicone (…) dal Sig. Dottor Jacopo Sacchi di Russi Medico di Bagnacavallo, già discepolo del Sig. Dottor Giovanni Bianchi di Rimino». In tale sonetto si fanno i nomi di Genghini, Banditi, Bianchelli e Brunori. Di Giuliano Genghini, si è già detto. Pietro Banditi fu un poeta di discreta fama locale, al pari di Anton Maria Brunori. Ludovico Bianchelli è il mentovato Bibliotecario gambalunghiano. Riporto integralmente il testo del componimento: «Genghin, Banditi, Bianchelli, Brunori, / Richiamate alle menti il furor santo, / E voi tutti d’Aprusa almi Pastori / Or sciogliete le voci a nuovo canto. / All’Arco, al Ponte, altri prischi Onori / Della vostra Città famosa tanto / Al fin ritorna dopo tanti errori / Del RUBICONE il contrastato vanto. / Voi lo ridite, e a Lei Figli ben degni / Vi dimostrate, Madre ognor ferace / Di così chiari luminosi ingegni; / Che al par di colte Storie, e incisi Marmi / Contra l’orgoglio del rio tempo edace / Può ancora il Suon de’ gloriosi Carmi».

[79] Così Pecci, op. cit., p. 39. Cfr. pure Masetti Zannini, Il mito, cit., p. 37, nota 86.

[80] Cfr. il cit. Manifesto del Letterato Bolognese, p. 10.

[81] «Scioli» ovvero saccenti.

[82] Un esemplare dell’Avviso è nella cit. Raccolta di opuscoli sul Rubicone.

[83] Cfr. Nov., tomo XI, 1750, cit., n. 22, col. 345. Come si è detto, di queste tre dissertazioni ne risulta una soltanto, quella recitata il 15 marzo dello stesso 1750.

[84] Braschi, 1664-1727, fu arcivescovo di Sarsina. Pubblicò: De libertate Ecclesiæ in conferendo ecclesiastica beneficia non modo clericis indigenis, 1718; De tribus statuis in romano Capitolio erectis anno MDCCXX ecphrasis iconographica, 1724; Idea del pulito mitrato o sia del vescovo che predica la parola di Dio ..., 1725; Intimazione della Sagra Visita della città, e diocesi di Sarsina da farsi per la seconda volta dall'illustrissimo …, 1704; Lettera apocoretica o di congedo dell'illustrissimo ..., 1718; Lettera circolare dell'illustrissimo ... mons. Gio: Battista Braschi vescovo di Sarsina ... a tutti gli ecclesiastici, e laici di ciascheduna parrocchia della città, e diocesi di Sarsina in occasione delle sagre indulgenze concedute dalla santità del Nostro Signore Clemente papa XI ...,1705; Memoriæ cæsenates sacræ, et profanæ per secula distributæ ...,1738; Relatio status ecclesiæ Sarsinatensis, ac exerciti pastoralis officii, 1704; Promptuarium synodale, 1727.

[85] Sono i citt. documenti in SC-MS. 227 e 375.

[86] Così leggiamo in P. Meldini, Il medico di parrocchia, «San Vito e Santa Giustina, contributi per la storia locale», a cura di C. Curradi, Dogana R.S.M. 1988, p. 181. In Curradi, Pievi del territorio riminese nei documenti fino al Mille, Rimini 1984, alla nota 27 di p. 226, troviamo che Giovenardi «sull’Uso lesse una orazione accademica rimasta inedita e conservata nell’archivio: Dissertazioni e critiche riflessioni al libro composto da mons. Battista Braschi “De vero Rubicone”». (Si tratta dell’Archivio parrocchiale della chiesa di San Vito.) Nel testo di Curradi, nella stessa p. 226, si indica però tra le sue «pubblicazioni» anche «quella sul fiume Uso rivendicato come il vero Rubicone degli antichi»: dovrebbe, crediamo, identificarsi nella stessa «orazione accademica rimasta inedita». Come si è visto, Bianchi, nella prima Lettera, aveva scritto che Giovenardi era in procinto di pubblicare un testo contenente «note critiche» al De vero Rubicone di Braschi. Che mai è apparso a stampa.

[87] Di questa dissertazione tratta diffusamente Meldini, nel cit. scritto Il medico di parrocchia.

[88] Cfr. lettera del 27 gennaio 1747. La dissertazione è tenuta da Bianchi ai Lincei nel 1746: nello stesso anno, il testo appare in una prima edizione a stampa presso Pasquali di Venezia. Seguì la pubblicazione, nel 1747, nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, XXXVII, Venezia, pp. 361-408. Planco critica l’abuso dei vescicanti, preparazioni farmaceutiche ad uso topico dotate di un’intensa azione irritante; essi venivano utilizzati per le forme patologiche più disparate, anche se inizialmente erano stati applicati per la sola peste bubbonica.

[89] Sull’abitudine di leggere al caffè le Nov., riproduco questa frase dai citt. Viaggi 1740-1774, 28 ottobre 1772: «al Caffè si lessero i foglietti letterari di Firenze, e i politici di Bologna».

[90] Riprendo dalla cit. comunicazione Tra erudizione e nuova Scienza, l’elenco delle dissertazioni dei Lincei, tenute dopo l’inaugurazione accademica avvenuta il 19 novembre 1745: N. 1, del 3 dicembre 1745, dell’abate Stefano Galli, «sopra l’utilità della lingua greca». N. 2, del 27 maggio 1746, dell’abate Giuseppe Garampi, Delle Armi gentilizie delle famiglie. N. 3, del giugno 1746, di Planco, De Vescicatorj. N. 4, dell’anno 1747, di Giuseppe Zinanni, «sopra le uova, e sopra la generazione delle Lumache terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d’acqua dolce». N. 5, del 28 febbraio 1749, di Planco: epistola De monstris ac monstrosis quibusdam. N. 6, del 7 marzo 1749, di Giuseppe Antonio Battarra, De Lithophytorum, ac præsertim de corallorum generatione. N. 7, del 21 marzo 1749, di Planco, sopra i rimedi per le coliche nefritiche. N. 8 e n. 9, rispettivamente dell’11 e del 25 aprile 1749, sopra la Beata Chiara da Rimini, entrambe inviate da Giuseppe Garampi. La prima dissertazione tratta della Comunione sotto le due specie, ricevuta dalla Beata Chiara l’11aprile 1749. La seconda parla dei suoi digiuni. N. 10, del 15 marzo 1750, di Giovanni Paolo Giovenardi, De Rubicone. N. 11, del 21 marzo 1750, di Planco, lettera ad un amico fiorentino, De Rubicone. N. 12, del 15 luglio 1750, di Daniele Colonna, De Hydrope Ascite. N. 13, del 12 marzo 1751, di Giacomo Fornari, An Philosophia et reliquæ scientiæ et artes versibus pertractari possint, sintque veri poetas qui hasce scientias versibus pertractant an puri versificatores. N. 14, del 27 marzo 1751, di Giuliano Genghini, De Apollo Pythio. N. 15, del 2 aprile 1751, di Planco, lettera «circa varias Inscriptiones antiquas Arimini». N. 16, del 30 aprile 1751, lettura dell’epistola inviata da Lodovico Coltellini sul Dittico queriniano, e di sette lettere di Roberto Malatesti (1479). N. 17, del 30 aprile 1751, di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis Corporis Humani. N. 18: il 7 maggio 1751, Giovanni Battista Brunelli parla di un argomento di ostetricia, relativo ai parti difficili. N. 19. Senza data, è la lettura di un’epistola di Leonida Malatesti del 1546. N. 20, del 14 maggio 1751, di Giovanni Antonio Battarra, De origine fontium. N. 21, del 28 maggio 1751: Planco dà lettura dell’esame anatomico riguardante un bambino di nove anni, il contino Giambattista Pilastri di Cesena, morto «ex Apostemate in lobo destro Cerebelli». Quell’esame è pubblicato nello stesso anno nella Raccolta d’opuscoli di Calogerà a Venezia (pp. 169-200), con il titolo Storia medica d’una postema nel loro destro del cerebello. N. 22, dell’11 giugno 1751: Pasquale Amati «Causidicus seu Leguleius» tiene una dissertazione «de origine Litterarum». N. 23 e n. 24: il 18 giugno 1751, Bianchi tratta di un altro esame anatomico, De structura uteri in gravidis, e legge una lettera di Lodovico Coltellini sulla lingua etrusca, a cui premette una prefazione «de incertitudine studiorum Linguæ Etruscæ». N. 25: l’11 febbraio 1752, «ultimo venerdì di carnovale», l’Accademia tiene un’adunanza straordinaria e «solenne» con musica ed esibizione della «venusta» cantante ed attrice Antonia Cavallucci Celestini: «deinde Plancus maiusculam dissertationem habuit de praestantia Artis comicæ, seu comœdiæ». N. 26, del 18 febbraio 1752, di Nicola Paci, nobile, De præstantia musicæ. N. 27, del 4 marzo 1752, di Francesco Fabbri, De præstantia Academiæ nostræ. N. 28 e dissertazione n. 29, entrambe del 17 marzo 1752: si tratta della lettura di lettere del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice ms. di Coluccio Salutati esistente presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze; e della trattazione di Bianchi De rebus antiquis. N. 30 e n. 31: il 18 aprile 1755, Planco presenta due sue epistole mediche, la prima sull’«urina con sedimento ceruleo», e la seconda sulle polemiche relative al caso Pilastri, già trattato il 28 maggio 1751. (Tra le carte planchiane conservate in Gambalunghiana, ci sono tre fascicoli che rimandano a probabili dissertazioni accademiche.)

[91] Il 5 giugno 1773 Bianchi dettò le sue volontà al notaio Francesco Masi, disponendo tra l’altro che l’orazione funebre in suo onore, senza l’obbligo di recitarla, venisse stampata «in 4° in buona carta, non in Rimino, né in Pesaro, ma in Cesena, o altrove ove siano buoni caratteri», con una tiratura di «cinquecento copie per distribuirle». A Cesena esercitavano i Biasini. Bianchi conosceva bene i segreti ed i problemi dell’arte tipografica. Per lui avevano lavorato soprattutto i torchi di Albertini (Rimini), Gavelli (Pesaro), Pasquali (Venezia), e Viviani (Firenze), imprimendo numerose opere pubblicate a partire dal 1720. Nel testamento, Bianchi indicava una terna di autori tra cui scegliere l’incaricato per l’orazione funebre: don Giovanni Paolo Giovenardi, il dottor Cesare Torri di Jesi, ed il signor Lorenzo Drudi, un riminese che allora studiava medicina a Bologna e che sarebbe divenuto bibliotecario della Gambalunghiana, tra 1797 e 1818. Dopo il decesso di Bianchi, fu incaricato G. P. Giovenardi. L’Orazion funerale, da lui composta, fu recitata a Rimini nel Palazzo pubblico il 5 dicembre 1776 e pubblicata «in Venezia presso Simone Occhi» nell’aprile del 1777. Drudi («uomo asia­tico, pesante, e per conseguenza mediocre» a detta del filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi, del quale parlerò in fine), non volle essere da meno, e scrisse pure lui, nello stesso 1776, una Laudatio in onore di Iano Planco. Perché, per pubblicare l’Orazion funerale di Giovenardi, fu scelto Occhi e non Pasquali, con il quale Planco aveva tenuto una fitta corrispondenza d’affari (seicento lettere tra 1738 e 1769)? Forse perché in sospeso con Pasquali c’erano ancora debiti, anche se «in poca quantità», come leggiamo nel testamento. Simone Occhi, rimasto in corrispondenza con Bianchi fino al 1763 (con sole cinque lettere), era un semplice libraio: aveva bottega senza stamperia, al contrario di Giovan Battista Pasquali che al negozio univa anche la tipografia. La scelta cadde forse su Venezia e non su Cesena per poter dare maggiore diffusione allo scritto commemorativo di Bianchi.

[92] Delle difficoltà incontrate per la sua pubblicazione, parla lo stesso G. P. Giovenardi in due lettere (inedite) al nipote di Planco, Girolamo Bianchi. Nella missiva del 7 gennaio 1777 leggiamo che, in caso di edizione di quel testo, era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione dell’Ospitale dal vescovo», come si vociferava autorevolmente in città. Il 5 aprile 1777 Giovenardi suggeriva a Girolamo Bianchi di restare estraneo alla distribuzione di quell’opuscolo «per isfuggire qualunque odiosa taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla quale potesse pensare il vescovo contro di lei». (V. cartella Giovenardi, don Giampaolo, Fondo Gambetti.)

[93] Cfr. la lettera di G. P. Giovenardi a Girolamo Bianchi del 14 dicembre 1775 (Planco era morto il 3), con allegati il testo ms. di un volantino e la relativa edizione a stampa nella cit. cartella Giovenardi, don Giampaolo, Fondo Gambetti. Il volantino, diretto «a’ Studiosi Giovani Riminesi, ed amanti della soda letteratura», annunciava l’apertura di una «pubblica Scuola di Medicina, e lingua Greca» dotata dell’«ereditata sceltissima, e copiosissima Libreria in ogni genere di Scibile», e con «il comodo di potere fare le sezioni Anatomiche in quest’Ospedale» di cui, come si è visto, Girolamo Bianchi era medico.

[94] Cfr. Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Giovanni Bianchi, «Studi Romagnoli», XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208.

[95] Bianchi acquistava i libri da Pasquali con il 10 per cento di sconto: cfr. il cit. Minutario, SC-MS. 969, c. 386v., 10 maggio 1745, dove leggiamo anche: «Se vuole che seguitiamo a fare dei negozi insieme di libri non mi aggravi più che non fanno gli altri libraj, e non mi dica anche delle bugie (…)».

[96] Si tratta dell’opera di A. Chambers, Dizionario universale delle arti e delle scienze, Pasquali, Venezia 1748-49, in nove tomi.

[97] Altri fattori ostacolavano l’attività editoriale: «i Libri e tutte le merci non si profumano ne lazzaretti ma loro solo si fa far la quarantena. Si profumano bensì le lettere perché passano subito senza contumacia»: cfr. il cit. Minutario, SC-MS. 969, a mons. Antonio Leprotti, 28 gennaio 1740, c. 46r. (Sul ruolo di Leprotti nella vita di Bianchi, cfr. Tra erudizione e nuova Scienza, cit.) Difficoltà derivavano anche dai vetturali, verso i quali Lami si dichiara sdegnato, scrivendo a Bianchi il 3 ottobre 1750. Cristoforo Pedrini di Castrocaro, che teneva i collegamenti con Roma, è definito da Bianchi un «ribaldo» (Minutario, SC-MS. 969, 17 dicembre 1739, c. 18v, e 10 gennaio 1740, c. 36r).

[98] Sull’argomento, Bianchi stesso scrisse la Relazione dell’Epidemia de’ buoi, che s’accese l’anno 1738 nel Contado d’Arimino, e come per le diligenze fatte in poco d’ora restò spenta: cfr. Nov., tomo IV, n. 24, 14 giugno 1743, coll. 380-385, e n. 25, 21 giugno 1743, coll. 399-401. La Relazione, appena apparsa, leggiamo sulle Nov. (col. 380), era stata pubblicata anonima.

[99] Cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini dal secolo XIV ai primordi del XIX, Rimini 1884, ed. an. 1988, a cura di P. Delbianco, II parte, p. 340.

[100] Cfr. lettera del 20 maggio 1747, FGLB, ad vocem. È l’unica epistola di Vandelli conservataci nei carteggi planchiani. In essa si sottolinea pure il «ridicolissimo titolo di Patricio Riminese» attribuito a Bianchi.

[101] Come osserva De Carolis, Il medico al lavoro, in «Giovanni Bianchi, Medico Primario…», cit., p. 58, «la storiografia medica più recente è concorde nel ritenere degni di nota», tra tutte le opere d’argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi studi teratologici», tra i quali «l’opera più importante» è appunto il De monstris.

[102] Tutta la vicenda è ampiamente trattata, anche con documenti originali, nella cit. comunicazione Tra erudizione e nuova Scienza.

[103] Il testo del pro memoria è: «Il Sig. Dottore Bianchi è pregato scrivere al Sig. Lami, che il Padre Inquisitore non ha ricevuti li Foglietti arretrati dal N° 3 inclusine al n. 11 inclusine».

[104] Cfr. la lettera di Lami a Bianchi: «Io ho registrato nel catalogo degli Associati (…) V. S. Ill.ma e il Sig. Conte Sartoni, al quale manderò le Novelle ogni settimana del corrente anno, siccome farò al P. Inquisitore Forni, Sig. Abate Vitali, P. Abate Franciolini, e Sig. Arciprete Giovenardi, a tenore di quanto mi avvisa».

[105] Cfr. Tonini, La coltura letteraria,  cit., II parte, p. 532.

[106] Cfr. Nov., tomo XXXVIII, n. 44, 31 ottobre 1777.

[107] Cfr. Orazion funerale, cit., p. XXX.

[108] Cfr. tomo VII, n. 50, 16 dicembre 1746, col. 792; tomo VIII, n. 26, 30 giugno 1747, coll. 401-405 (qui Vitali è definito «uomo erudito»); n. 48, 1 dicembre 1747, coll. 757-764; tomo IX, n. 4, 26 gennaio 1748, coll. 53-55; n. 46, 15 novembre 1748, coll. 724-726; n. 51, 20 dicembre 1748, col. 801; tomo X, n. 3, 17 gennaio 1749, coll. 37-42; n. 5, 31 gennaio 1749, col. 68-74; n. 8, 21 febbraio 1749, coll. 116-122; n. 16, 18 aprile 1749, coll. 243-250.

[109] Cfr. Nov., tomo X, n. 16, 18 aprile 1749, coll. 243-250. La lettera è datata 21 marzo 1749.

[110] Cfr. Due maestri riminesi, cit.

[111] Cfr. B. Fadda, L’innesto del vaiolo, Milano 1983, p. 192, lettera di Bianchi a Lami, 25 agosto 1759.

[112] «Per tali dieci associati sarà V. S. Ill.ma debitore pel corrente anno, secondo che me ne ha mandata la lista».

[113] Il che ci fa essere certi che questa notizia sul canonico Nobili è successiva al suo primo abbonamento.

[114] Cfr. lettera del 16 febbraio 1758.

[115] Cfr. lettera del 31 agosto 1758.

[116] In un breve articolo, scritto probabilmente dallo stesso Planco, ed apparso sulle Nov., tomo VI, n. 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846, cit., per presentare le leggi lincee di Planco, si ricorda che «il Signor Giovanni Bianchi, Gentiluomo Riminese, e Professore Primario di Medicina nella Città di Rimino» aveva nell’anno precedente pubblicato «a sue spese» il Fitobasano (che reca nel sottotitolo: «Plantarum aliquot historia»), premettendogli, come abbiamo già visto, «la Storia dell’Accademia de’ Lincei». Tali spese assommarono a «cinquecento e più ducati», come si legge in una sua lettera: cfr. G. L. Masetti Zannini, Carta e stampa nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Patologia del Libro “Alfonso Gallo”», XXXI, 1972, fascc. I-IV, p. 123. Le stesse Nov., tomo V, n. 33, 14 agosto 1744, coll. 513-516, avevano presentato l’edizione planchiana del Fitobasano di Fabio Colonna, scrivendo: «Il celebre Sig. Giovanni Bianchi Ariminese, il quale tra anni sono fu chiamato dalla Munificenza dell’Altezza Reale del presente Gran Duca nostro Gloriosissimo Sovrano a professare l’Anatomia nella illustre Università di Siena, dà frequente occasione co’ suoi dotti scritti d’adornare queste Novelle, facendo egli onore a se stesso, e all’Italia nostra insieme». Il Fitobasano studia le piante più rare note agli antichi, cercandone il corrispondente nome moderno. Nato nel 1567, Fabio Colonna aveva 24 anni quando la pubblicò. Bianchi ha iniziato a lavorare al progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. SG, ad vocem, dove si cita il Rescritto Apostolico per avere e ritenere per sei mesi le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21 ottobre 1739. Una prima anticipazione del Fitobasano planchiano, è contenuta nelle Nov., tomo IV, n. 40, 4 ottobre 1743, coll. 625-628, in cui si narra che Bianchi vi stava allora lavorando in Firenze, «in tempo di vacanze» dell’Università. Su questa edizione del Fitobasano, cfr. i fascc. 165-166 e 174-175, FGMB. (Sul totale insuccesso fiorentino dell’impresa editoriale, Lami parla a Bianchi il 26 dicembre 1744, FGLB, ad vocem: «neppure uno è venuto a ricercare il suo Fitobasano, che è un’opera degnissima, e di più da Lei illustrata, e adorna a meraviglia». Il progetto della ristampa delle «opere rarissime di Fabio Colonna», è illustrato da Bianchi ad Angelo Calogerà il 4 gennaio 1740, cfr. Minutario di Bian­chi, MS-SC. 969, BGR, c. 30r.)

[117] Cfr. De conchis minus notis liber, Venezia 1739, relativo ai Foraminiferi. Circa l’importanza europea di questo testo, cfr. le Nov., tomo IV, n. 15, 12 aprile 1743, col. 229: qui leggiamo che Bianchi, per le sue scoperte in questo campo, venne definito «Linceo» da Gian Filippo Breynio, professore di Storia Naturale in Danzica. Tale giudizio è anche nella cit. autobiografia latina del 1742, pp. 377-378: «vere Lynceum, vel Lynceis oculis instructum». Sulle Nov., tomo I, n. 27, 1 luglio 1740, col 426, si ricorda un neologismo introdotto da Bianchi nel De conchis, «acquistizio», per indicare «cessazione di moto, o sia quiete dell’acque» che dura «ordinariamente» un’ora.

[118] Si tratta di H. Boerhaave, Prælectiones Academiæ in proprias Institutiones rei Medicæ cum notis Alberti Haller, Torino 1742.

[119] Cfr. S. F. Geoffray, Tractatus de Materia Medica cum supplemento, Venezia 1742.

[120] Cfr. M. Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1991, pp. 250-251.

[121] Cfr. A. Campana, ad vocem in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XII, p. 651.

[122] Cfr. D. Mazzotti, P. Borghesi, padre di Bartolino, «Quaderno XIII della Rubiconia Accademia dei Filopatridi», 1981 (ma 1984), pp. 89-93.

[123] Cfr. SC-MS. 375, BGR, c. 33r.

[124] Si tratta di una Risposta, pubblicata sotto pseudonimo a Pesaro nel 1755. Cfr. la mia cit. Nota bibliografica ad A. Bianchi, Storia di Rimino, cit., p. 237.

[125] Cfr. Masetti Zannini, Il mito, cit., p. 32-43.

[126] Cfr. i citt. Viaggi 1740-1774, ad diem.

[127] Cfr le citt. Nov., tomo XVII, n. 31, 30 luglio 1756, coll. 487-490.

[128] Alla «Colonia Rubiconiana» ho già accennato nella nota 78.

[129] Cfr. Mazzotti, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, cit., p. 38.

[130] In calce al proclama si legge: «Impresso con pubblica approvazione in una Città del Mondo da sincero Filopatride all’insegna della Verità l’anno primo della Repubblica Cispadana». La Cispadana era stata proclamata il 27 dicembre 1796. La Cisalpina nasce il 29 giugno 1797: di essa la Romagna fa parte dal 27 luglio. Il 3 novembre la Cisalpina viene divisa in venti dipartimenti. Inizialmente il capoluogo del dipartimento del Rubicone è Rimini, poi dal primo settembre 1798 passa a Forlì.

[131] Cfr. Atlante per il dipartimento del Rubicone, «Romagna arte e storia», 6/1982, pp. 63-64. Il proclama è ripreso dalla riminese Raccolta bandi Zanotti, BGR.

[132] Cfr. Mazzotti, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, cit., p. 59

[133] Cfr. Cfr. A. Campana, ad vocem in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XII, p. 629.

[134] Cfr. D. Mazzotti, Onoranze al Conte Giulio Perticari nel secondo centenario della nascita (1779-1979), «Quaderno XII della Rubiconia Accademia dei Filopatridi», 1980, p. 80.

[135] Cfr. Nov., tomo XXII, n. 31, 31 luglio 1761, coll. 492-494: la lettera è sopra il commento che il vescovo riminese aveva fatto ad un’enciclica di Clemente XIII, relativa allo scandalo dato dai Chierici (Regolari) impegnati in attività mercantili o civili. Nel n. 52 del 25 dicembre dello stesso 1761, coll. 825-826, si parla da Rimini di una notificazione vescovile sopra gli obblighi che hanno i medici di avvisare subito gli infermi a confessarsi, pubblicata il 12 novembre del medesimo anno. Si può facilmente ipotizzare che pure questa corrispondenza sia di Epifanio Brunelli.

[136] Sulla sua nomina, dovuta alla raccomandazione del Cardinale Legato, ho trattato ne Il contino Garampi, cit., pp. 71-72.

[137] Cfr. fasc. 271, FGMB.

[138] In La Biblioteca Civica Gambalunga. L’edificio, la storia, le raccolte, a cura di P. Meldini, Rimini 2000, p. 32, si legge la data iniziale del 1767. Nei citt. Viaggi 1740-1774, nel r. del foglio in cui Bianchi disegna un’ideale carta del «viaggio» (durato dall’8 agosto al 3 dicembre 1766), si trova invece questa indicazione: «In compagnia del Sig. Abate Epifanio Brunelli ora canonico, e Bibliotecario della Gambalunga».

[139] Cfr. fasc. 271, FGMB.

[140] La lettera, del 4 settembre 1755, è scritta in terza persona: B. Brunelli «vuole certamente li 12 tomi delle Novelle Fiorentine, e perciò le ritiene, e se ad Epifanio suo figliuolo disse che si fosse fatto lecito di ricettar libri senza il suo assenso, fu per insegnare al filiuolo di non entrare a fare le cose senza la partecipazione di suo Padre. Per altro avea benissimo intenzione di provedere le suddette Novelle. E’ ben vero che brama averne il corpo intero, e però è pregato il D. Bianchi à procurarlo in Firenze, o in Rimino che sarebbe minor spesa. (…) non si prenda il D. Bianchi alcun pensiere, e ne si adombri, che se il Brunelli non avesse voluti i suddetti libri, l’avrebbe detto con miglior maniera, e con qualche ragion che ne avesse avuta». Al proposito dei rapporti tra padre e figlio, si può citare un altro episodio, che ricavo dalla lettera a Bianchi di Bernardino Brunelli del 4 settembre 1758: costui rimanda a Planco per mezzo della serva «i consaputi libri, perché Epifanio impari, come il D. Bianchi vuole, a non allargarsi a promettere, o richiedere senza l’ordine preciso, e chiaro di suo Padre».

[141] Nel tomo XXVI, n. 3, 17 gennaio 1766, coll. 35-38, Amaduzzi parla tra le altre cose della ristampa del cit. De conchis planchiano, fatta a Roma nel 1760 «con molte aggiunte».

[142] Cfr. la lettera di Amaduzzi a Brunelli in Nov., tomo XXVIII, n. 34, 21 agosto 1767, coll. 531-534. Sul soggiorno romano di Planco a Roma, cfr i citt. Viaggi 1740-1774, ad annum. Winckelman era stato al servizio del cardinale Alessandro Albani, nel cui palazzo «alle 4 Fontane», Bianchi spesso lo incontra.

[143] «Il Liceo privato istituito e gestito a Ri­mini da Giovanni Bianchi, venne frequentato anche da Giovanni Cristofano Ama­duzzi. Preziosa testimo­nianza dell’attività didattica che vi si svolgeva, sono i sette compiti (finora inediti), as­segnati da Planco e svolti da Amaduzzi, ora conservati nella Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi. Della loro esistenza ho dato per primo notizia nel 1992 nel cit. volume Lumi di Romagna (nota 1, p. 102). Amaduzzi, in una pagina anch’essa inedita (Manoscritti n. 33, c. 35, BFS), scrive di sé: “Ha atteso per sette anni allo studio della Filo­sofia e Lingua Greca sotto la disci­plina del Ch: Dott. Gio­vanni Bianchi”. I compiti si riferiscono agli anni 1757-59. La frequenza del Li­ceo planchiano è relativa al periodo 1755-62. Nel 1762 in­fatti Amaduzzi, all’età di 22 anni, viene avviato a Roma dal suo mae­stro. Gli argomenti dei sette compiti svolti da Amaduzzi sono relativi alla Filosofia e alla Scienza, e propongono questi ar­gomenti: l’impossibilità di difendere il sistema to­lemaico; la funzione della lo­gica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica; gli spi­riti degli animali bruti; la sede nel cer­vello degli affetti dell’animo; i nervi dell’udito; la digestione. L’esperienza di Amaduzzi nel Liceo pri­vato di Planco ha un suo molteplice si­gnificato. Il savignanese conosce argo­menti filoso­fici che in seguito approfon­dirà e svilupperà in tre impor­tanti Discorsi (una cui sintesi è nella mia Appendice alla ristampa anasta­tica de La Filosofia alleata della Religione che dei tre Di­scorsi è il secondo). Inoltre Amaduzzi si accosta a problemi me­dici ai quali non sarà mai indiffe­rente, se raccoglierà nella propria biblio­teca (ora presso i Filopatridi), molti opuscoli che ne trattano. Infine l’esperienza con Bianchi lascerà in Amaduzzi una traccia nel terzo Di­scorso, Dell’indole della verità e delle opinioni, dove (p. 51) l’ex allievo pole­mizza con l’antico mae­stro, quasi a vo­lere insinuare che Planco nulla avesse compreso delle teorie di Newton. (…) In sostanza, Bianchi appariva più come un vecchio umanista che un nuovo filo­sofo dell’età dei Lumi. Di ciò si ha con­ferma se si confrontano i titoli dei com­piti asse­gnati da Planco con gli ar­gomenti affrontati negli stessi anni su periodici e libri scienti­fici. Planco ap­pare su posizioni incerte ed arretrate. Costringere gli allievi a spiegare che il sistema tolemaico non poteva essere di­feso “nulla ratione”, a oltre due secoli dall’opera di Copernico, significava di­scutere di argomenti polverosi, mentre la nuova Scienza percorreva le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi argomenti da lui studiati qu­and’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna. Nella terminologia usata in quei temi liceali, ci sono talora ri­cordi cartesiani, come là dove si parla di “spiriti ani­mali” (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri argo­menti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in dire­zione opposta, ne­gando le tesi di Descartes.» Cfr. A. Montanari, I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Riminilibri» n. 5, marzo 1994.

[144] Cfr. nei citt. Recapiti, pp. VI-VII: «Qui si dà un catalogo degli scolari, che più si sono distinti, e che sono usciti dalla scuola fatta dal Bianchi in Rimino, tralasciandosi di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono». Da tale «catalogo» riportiamo solamente i singoli nominativi, mettendoli in ordine alfabetico e numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso inserita da Planco, e segnalo con (*) i dieci medici presenti nell’elenco: 1. Baldini Giuseppe (*); 2. Barbari Innocenzo; 3. Barbette Gregorio (*); 4. Bartoli Giuseppe; 5. Battaglini Andrea; 6. Battarra Giannantonio; 7. Bentivegni Girolamo; 8. Bentivoglio Davìa Laura; 9. Bonelli Innocenzo; 10. Bonioli Antonio; 11. Brunelli Giambattista (*); 12. Bufferli Pier Crisologo (*); 13. Buonamici Niccola; 14. Cella Giovan Maria; 15. Cenni Lucantonio; 16. Colonna Daniello (*); 17. Draghi Paolo Andrea (*); 18. Fabbri Francesco; 19. Fabbri Giovanni; 20. Fosselli Mauro; 21. Galli Celestino; 22. Galli Stefano; 23. Garampi Giuseppe; 24. Ghigi Pietro; 25. Giovenardi Gianpaolo; 26. Giovenardi Mattia; 27. Godenti Pietro; 28. Graziosi Ubaldo; 29. Lapi Pier Paolo; 30. Legni Francesco (*); 31. Marcaccini Francesco; 32. Massa Niccolò; 33. Mastini Severino; 34. Mussoni Pietro; 35. Pasini Francesco Maria; 36. Pecci Carlo; 37. Piceni Giuliano; 38. Pizzi Gian Carlo (*); 39. Righini Cassiano (*); 40. Santini Lorenzo Anton (*); 41. Serpieri Giulio Cesare; 42. Torri Cesare; 43. Vitali Giuseppe; 44. Zampanelli Marino. L’unica donna presente nel «catalogo» è la bolognese Laura Bentivoglio Davìa.

[145] Cfr. Nov. vol. I, n. 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474: Planco ricorda che il pontefice gli «ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca spezialmente». Nei citt. citt. Viaggi 1740-1774, alla data del 25 settembre 1769, Bianchi rammenta che Clemente XIV rispose alle sue felicitazioni per l’elezione, con una lettera «dove mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù».

[146] Cfr. A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, in Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792, a cura di L. Morelli, Firenze 2000, pp. XXVIII-XL.

[147] Cfr. ibid. Ai due Discorsi già ricordati, La Filosofia alleata della Religione (1778), e Dell’indole della verità e delle opinioni (1786), va aggiunto quello intitolato Sul fine ed utilità dell’Accademie (1776), il primo in ordine cronologico.

[148] Come ho scritto in Tra erudizione e nuova Scienza, cit., nelle leggi lincee si sostiene che «niente è migliore e più utile che diligentemente indagare su qu­anto, per un dato argo­mento, hanno espresso i dottissimi filo­sofi e gli uomini eruditissimi: tuttavia, ai loro pareri, e l’investigazione della stessa na­tura, e le proprie osservazioni, e il confronto su tutte le cose, e l’uso di discutere singolarmente su quella parte che sia più vera, aggiungano anche il (nostro) giudi­zio». Dun­que: prima vengono i pareri dei «dottissimi filosofi», poi «l’investigazione della stessa natura». Si accantona così, nella maniera più semplice ed evidente, il me­todo della «sensata esperienza», originando un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui si parla nelle leggi accademiche è più tolemaico che copernicano; più incatenato all’ipse dixit del moderno aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.

[149] Si tratta del necrologio apparso sulle nuove Nov. di Firenze del 1776, coll. 21-27 e 37-41. Questo «compendio dei pregi d’un tanto letterato», si dice comunicato «da uno dei migliori suoi Allievi», in aggiunta alla biografia latina. Battarra stesso è definito, alla col. 37, «noto Naturalista». Sull’attribuzione del necrologio a Battarra, cfr. A. Fabi, Aurelio Bertòla e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli Studi Romagnoli», n. 6, Faenza 1972, p. 24, nota 49.

[150] Ibid., alla col. 25.

[151] Cfr. Nov. vol. I, n. 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474, cit. In altra lettera di Bianchi, sulle Nov. vol. I, n. 14, 6 aprile 1770, col. 213, leggiamo che egli, da poco entrato nei suoi 78 anni, contava di fare, non appena compiuti gli 80 anni, «età felice», un viaggio in Inghilterra, che restò invece un semplice sogno.

[152] Bianchi nelle Nov. del primo settembre 1747 dà notizia che Battarra, «nostro Accademico Linceo», s’applica «molto allo studio della Botanica, e che ad imitazione del famoso Fabio Colonna altro Accademico Linceo disegna da se egregiamente le Piante, e le incide in Rame, essendo ora intorno allo studio de’ Funghi, de’ quali ha disegnate da quattrocento Tavole, che ora va incidendo in Rame per darle poi fuori alla luce insieme con la loro Istoria». Quest’opera, la Fungorum agri ariminensis historia, con una lettera latina di Bianchi al cap. quinto, esce in due edizioni, nel 1755 e nel 1759. Cfr. Nov., tomo XVI, n. 36, 5 settembre 1755, coll. 564-568. Battarra collaborò assiduamente con Bianchi, come incisore di rami per edizioni a stampa. Cfr. Grafica riminese tra Rococò e Neoclassicismo, disegni e stampe del Settecento nella Biblioteca Gambalunghiana, Rimini 1980, pp. 62-69. Per una breve biografia di Battarra, cfr. il cap. 2, Giovanni Antonio Battarra, Filosofia e funghi, in Lumi di Romagna, cit., pp. 19-26. Di grande importanza è il saggio di C. Di Carlo, Sulla fortuna delle opere di G. A. B., «Il libro in Romagna. Produzione, commercio e consumo dalla fine del secolo XV all’età contemporanea», Firenze 1998, pp. 659-671.

Riministoria