Riministoria © Antonio Montanari Nozzoli
il Rimino, n. 74, anno III, dicembre 2001
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Sommario di questo numero
TAM-TAMA
809. Dalla grotta (23.12)
808. Penne (16.12)
807. In Europa (9.12)
806. Lezioni (2.12)
Tam Tama su Ponte on line e Il Ponte

STORIA
Marco Pesaresi, fotografo
Tempio, il sorriso del saggio
Scienza illustrata
Romani (antichi) in Fiera
Sogliano: un Museo?
Agli Archivi

SOCIETA'
Parola. Euro, figlio unico
Problemi? C'e' Fabio Ciuffoli
Convegno di Storia
La Romagna del latte (V.Tonelli)
Liber@mente
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La scomparsa di Marco Pesaresi,
fotografo riminese noto in tutto il mondo

Fotoreporter. La definizione apparsa sulle civette dei quotidiani del 23 dicembre, per dare la notizia della sua tragica scomparsa, non riusciva a dire tutto di Marco Pesaresi e della sua arte. Non hanno usato fotografo perché è parola più antica: sa di pose in studi illuminati artificialmente, con finti scenari per pose stereotipate. Lui invece ritraeva la vita, usciva nelle strade, viaggiava tra le storie quotidiane della gente: storie che non sono cronaca nuda, ma racconto del trascorrere del tempo. Ciononostante, era un fotografo di grande livello, non un semplice fotoreporter. Costui vede quello che succede. Il fotografo (modernamente inteso) inventa il suo racconto, cerca il filo per arrivare alla mèta narrativa.

Anche Marco Pesaresi, come tanti altri suoi colleghi famosi, era una specie di macchina naturale che vede il mondo attraverso la macchina artificiale: un obbiettivo che forse cerca quello che ha già nella sua mente. La differenza tra un artista ed un dilettante è tutta lì, nella scelta dell’inquadratura, nella scelta del soggetto, nella composizione dell’immagine. E Marco Pesaresi raggiungeva risultati stupefacenti che lo avevano segnalato, lo avevano premiato in giro per quelle strade che percorreva per raccontarci gli uomini e le donne di ogni giorno, per spiegarci il nostro vivere quotidiano con quello strumento che sembra essere freddo, imparziale, mentre è il prolungamento di un occhio e del cervello che lo comanda.

Nel giornalismo moderno, la fotografia ha acquistato una sua autonomia: l’immagine non serve più soltanto a corredare il servizio scritto. L’immagine basta da sola a costruire il servizio.
La settimana scorsa è uscito un numero speciale di «Diario» sui primi cinque anni della rivista, con un portfolio di 45 immagini intitolato significativamente «Carta bianca ai fotografi», e con soltanto scarne didascalie. La televisione non ha ucciso il fotoreportage, anche se non esistono più «Life» ed «Epoca», riviste che se ne nutrivano nella forma più classica. Il fotoreportage anzi oggi prende sovente la via del libro, com’era accaduto a Marco Pesaresi con «Underground» (1998), centodieci foto nel mondo delle metropolitane di Milano, New York, Tokyo, Mosca, Calcutta, Città del Messico, Parigi, Londra, Berlino e Madrid, con un'introduzione di Francis Ford Coppola e testi (tra gli altri) di Isabella Bossi Fedrigotti, Stefano Jesurum, Ulderico Munzi, Manuel Vazquez Montalban, Beppe Servegnini e Tiziano Terzani.

Come leggiamo nel sito dell’agenzia Contrasto per cui lavorava, Marco Pesaresi era nato a Rimini nel 1964. Conclusi gli studi superiori, aveva seguito i corsi dell'Istituto Europeo di Design a Milano dove aveva cominciato la sua carriera di fotografo professionista. Le sue foto sono state pubblicate sulle più prestigiose testate in Italia e all'estero. Tra i suoi più importanti reportages: la lunga ricerca in bianco e nero su Rimini, la città nella quale è nato. Questo lavoro é stato pubblicato su "GEO magazine" in Germania, su "The Observer in Inghilterra", su "American Photo" e sulle principali edizioni di "Photo". Nel 1995 era stato selezionato tra i migliori 12 fotogiornalisti per partecipare al World Press Photo Masterclass. Nel 1996, la redazione di "El Pais-Magazine" aveva riconosciuto a Marco Pesaresi la "Special Honour Mention" per il suo lavoro sulle metropolitane nel mondo.

Antonio Montanari

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Tam Tama 809. Dalla grotta

La trasmissione del tg fu interrotta dall’urlo improvviso della Giovane Redattrice che invocava: «Direttore, Direttore». Nel corridoio i suoi punti esclamativi sembravano decorazioni natalizie sopra un albero luccicante. C’era una notizia appena battuta dalle agenzie. Una coppia di sposi, con lei ormai prossima al lieto evento, stava cercando un riparo impossibile. Dài, disse ironico il Direttore, saranno mica come quelli che cercavano una grotta, a Betlemme.

Le ultime notizie dalla guerra precisavano che ormai tutte le grotte, in tutte le parti del mondo, non erano più sicure. Per combattere il terrorismo internazionale, giù bombe, appena se ne vedeva spuntare una. Le agenzie precisavano che quei due avevano chiesto l’intervento dell’Onu. Urca, come sono informati anche gli analfabeti, commentò spaventato il Direttore. Intervento, scusate, ma per fare che? Gente qualunque sono, ed accettino il destino comune a tutti i poveri disgraziati. Ma da dove arrivano ‘ste notizie?

La Giovane Redattrice titubava, temendo di andare a toccare un nervo scoperto del Direttore. Mah, si parla di Palestina. Ancora, fece lui insofferente: qui si parla soltanto della Palestina, della povera gente: per favore, preparatemi un bel servizio sulle forze aeronavali degli Alleati, su come sganciano le bombe intelligenti, su come diamo la caccia a…

Ma Direttore, tentò la Giovane Redattrice, lì sta per nascere un bambino. Bene, lo sponsorizziamo noi. Benissimo. Diamo un aggiornamento. Quei due giovani che aspettano un figlio, li adottiamo noi. Appena sarà nato, il fanciullo avrà le nostre pappine, i nostri pannolini. Intanto parliamo del padre.

La Giovane Redattrice disse: fosse facile. Perché? Lui sta facendo delle storie: sì il figlio è suo, però soltanto in un certo senso, si dichiara (diciamo) padre putativo, sarebbe (stia a sentire) il Figlio di Dio. (Il Direttore credette, per follia momentanea, che si parlasse di lui. Poi capì che era tutt’un’altra minestra. Strabuzzò gli occhi, e chiamò la pubblicità.)

La Giovane Redattrice proseguì: poi, quel padre è un po’ vecchio, mentre la sposa è quasi una bambina. Eh no, queste storie morbose io non le racconto, tagliò corto il Direttore che, riapparso in video, avvertì il pubblico: le agenzie non sono per nulla precise. Oltretutto cominciano a saltar fuori i visionari, parlano di una stella cometa, di tre Re Magi già in cammino. Sì, come nella pubblicità dei torroncini.

Antonio Montanari [il Ponte n. 46, 23.12.2001, Tam-Tama 809]

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Tam Tama 808. Penne

Il New York Post ha pubblicato un servizio su Geraldo Rivera, 57 anni, inviato di guerra americano in Afghanistan per Fox News, tg conservatore di proprieta' di Rupert Murdoch (che tempo fa aveva pensato di acquistare Mediaset). Accanto all'articolo, una foto che ne illustra il titolo: «Geraldo ha una pistola», e quindi le sue chiare intenzioni: cercare quel «dirtbag» (sacco di spazzatura) di Osama Bin Laden, e forarlo da parte a parte con l'arma che porta alla cintura.

Definiscono Geraldo Rivera «il volto e l'anima dei nuovi tempi». E lui spiega: «La mia nuova musa si chiama patriottismo».

In Italia, c'e' ancora un po' di eleganza. Enzo Biagi ha ricordato che Vittorio Sgarbi era stato condannato per assenteismo. Sgarbi ha replicato che Biagi ha speso inutilmente troppi anni «a dir male degli altri». Risposta di Enzo Biagi: «Tra i motivi per giustificare le sue assenze c'era un'affezione di cimurro. Da un immediato controllo risulta che e' la tipica malattia dei cani». (Il che non toglie fiuto a Sgarbi: per apparire in Rai da Paolo Limiti riceverebbe ogni volta sei milioni.)

Ancor piu' raffinato sarebbe il presidente emerito Francesco Cossiga. Su Libero scriverebbe articoli a firma Franco Mauri, a cui poi risponde usando la propria vera identita', per dire che il «giovane Franco Mauri» lui lo apprezza e gli vuole bene.

Bruno Vespa continua ad indossare i panni della «musa che si chiama patriottismo», scoperta molto tempo prima di Geraldo Rivera. Nel suo fresco libro sull'ultimo anno di politica italiana, Vespa dichiara d'aver citato integralmente la conferenza stampa di Silvio Berlusconi a Berlino, quella in cui (per intenderci) il capo del Governo disse che gli europei debbono essere consapevoli «della forza» della loro civilta' nei confronti di quella parte del mondo islamico «ferma a 1400 anni fa». Ma nel volume queste frasi mancano. Integralmente. Perche'? Vespa non si giustifica, per carita', spiega soltanto: il testo gli e' stato passato da Palazzo Ghigi. Quindi, avrebbe ragione Vespa. La censura e' diretta opera del Governo, non sua. Beppe Grillo, in risposta alla domanda se ci troviamo, appunto, di fronte ad uno scontro di civilta', ha detto: «Se parliamo di civilta' noi europei dovremmo chiedere scusa a tutto il mondo». Abbiamo eliminato cinquemila fra lingue, culture, etnie: «In 400 anni ne abbiamo fatte di cotte e di crude». E' una verita' che e' meglio confidarsi in gran segreto, Vespa non la scriverebbe mai. [808]

Antonio Montanari [il Ponte n. 45, 16.12.2001, Tam-Tama 808]

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Tam Tama 807. In Europa

Ci sono tanti modi per entrare in Europa. Con la moneta unica su cui la televisione (somma e costosa educatrice del Popolo) ha intessuto una trasmissione comica, dove il Maestro Pippo Baudo non sapeva scrivere un assegno in euro, a dimostrazione che nella vita i soldi basta prenderli (come lui ha fatto per i caroselli delle banche sul tema), piuttosto che spenderli.

Per sentirsi europei c'è poi la maniera proposta dalla terza Facoltà d'Ingegneria dell'informazione del Politecnico di Torino, dove si è andati controcorrente. Mentre dappertutto con la scusa dell'arrivo dell'euro, si alzano i prezzi, a Torino si è abbassato il voto minimo necessario alla promozione negli esami. Il mitico diciotto è stato ridimensionato: per cavarsela, basterà un quindici, perché così usa in Europa. Sui nostri cappelli goliardici indicavamo il diciotto quale maxima aspiratio, vergognandoci di una confessione non corrispondente ai segreti desideri.

Adesso occorrerebbe sostituire quel numero con la complessa equazione escogitata per introdurre la riforma (e che pare ricopiata di sana pianta da un modello Unico per la denuncia dei redditi): il quindici sarà accettato, purché la media complessiva dei voti non sia inferiore a ventitré.

Nella storia dell'Università italiana, ci sono stati i diciotto di guerra (soldatini che con la scusa di essere sotto le armi, lentamente arrivavano alla laurea); poi quelli politici della contestazione, collegati al voto di gruppo (uno parlava e tanti, forse troppi, avevano il libretto convalidato col voto unico e collettivo).

Adesso avremo l'equazione torinese del quindici purché la media ecc., che sarà un po' come una vincita al lotto con il terno suggerito dalla nonna apparsa in sogno a qualcuno in famiglia. Coraggio. Prevediamo che il modello del Politecnico piemontese prenderà piede, inevitabilmente, in altre Facoltà e luoghi (chi vuol stare indietro nella corsa alle cose facili?).

Arriveremo certamente, piano piano, a Lettere (non so tradurre bene dal latino, ho preso un quindici perché mi aveva alzato la media l'esame di Storia delle corse dei cavalli). Riusciremo a sfondare alla fine pure il bastione diMedicina? Dottore, mi dica che cos'è questo strano dolorino qui?

Risposta: Mi faccia pensare. Quando ho studiato questa parte del Corpo Umano, ho preso un quindici, sono costretto a tirare ad indovinare. Posso chiedere l'aiuto dei parenti a casa o del pubblico in sala d'attesa?

Antonio Montanari [il Ponte n. 44, 9.12.2001, Tam-Tama 807]

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Tam Tama 806. Lezioni

Alla caduta di Kabul, il parigino Le Monde ha pubblicato in prima pagina una foto di cronaca al posto della solita vignetta di J. Plantu. Molti lettori hanno protestato per la novità, rivolgendosi al médiateur, che (ha scritto C. Martinetti sulla Stampa) è una «figura sconosciuta nei giornali italiani, ma usuale in quelli anglosassoni»: egli risponde «in una ‘cronique’ periodica che è l'unico articolo pubblicato sul giornale su cui il direttore non ha alcun potere».

Se pure La Stampa avesse il médiateur, anch'io gli avrei scritto lamentando che il 22 novembre al centro della prima pagina non ci fosse stata la foto della bara di Maria Grazia Cutuli, l'inviata del Corriere della Sera uccisa in Afghanistan con altri tre colleghi, ma l'immagine del principe Carlo, «ferito ad un occhio, stava potando un albero».

Il giorno avanti (nella prima pagina, "di spalla"), La Stampa aveva posto un amaro articolo di Pierluigi Battista. Secondo lui i giornali italiani, nel commemorare Maria Grazia Cutuli, avevano esagerato con «la retorica del luminoso martirio», cercando di imporre «la credenza che senza la predisposizione al martirio, il giornalismo sia soltanto miserabile e grigia routine». Battista constatava «un certo narcisismo vagamente superoministico, un certo malcelato disprezzo per chi nelle redazioni disegna le pagine e macina titoli su titoli».

Pur essendo uno scrittore vaccinato, Battista si è lasciato prendere dal timore che, davanti a quattro bare (le ultime di un funerale molto lungo per i cronisti in guerra), il pubblico piangesse quei morti, e dimenticasse i meriti dei redattori. I quali forse s'illudono d'essere al centro dell'Universo della Notizia. (Di rincalzo, sul Corsera, Enzo Biagi ha ironizzato: la defunta, “nientemeno” è stata promossa sul campo da redattore ordinario ad inviato speciale.)

Alla lezione impartita da Battista, è seguita quella dell'inglese The Guardian: l'Italia ha pianto Maria Grazia Cutuli perché ha bisogno d'eroi, e perché la ragazza era «attraente» (ha riferito G. Zincone, Corsera).

Battista ha voluto fare l'inglese, con il distacco tipico di chi, degli Italiani, riconosce soltanto i difetti, come Beppe Severgnini che su queste cose ci campa da una vita. Il vero inglese, il cronista del Guardian, ha fatto soltanto la parte di se stesso.

Cinico come quell'ufficiale suo connazionale che in guerra negò a mia madre per me gli avanzi della mensa, preferendo seppellirli.

Antonio Montanari [il Ponte n. 43, 2.12.2001, Tam-Tama 806]

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Non basta la parola
Euro, figlio unico


Di lire, ormai ne abbiamo le tasche piene anche in senso metaforico: il passaggio dalla nostra moneta a quella comunitaria avviene tra le più sciocche polemiche (il Tesoro è sotto accusa: lucra tre lire ogni 25 mila per il kit famigliare!). Quando non si ha nulla d'intelligente da dire, ci si attacca agli avanzi del piatto (vedi Libero del 16): quelle tre lire sono arrotondate in base a legge dello Stato italiano.

La parola lira è antica, deriva da libra (anzi da libbra, unità di peso presso i romani, in precedenza, pare, oggetto atto alla pesa stessa, quindi imparentata con bilancia). Ma libbra è pure unità di misura inglese (Dio salvi la Regina), grammi 453,59.

Le monete hanno fatto la Storia, più che le armi. Non per nulla gli inglesi (Dio salvi la Regina), memori dei loro trascorsi di grandezza, non hanno ancora adottato l'euro. Come potevano mettersi al nostro pari, loro, che con l'Impero e la sterlina hanno dominato per un ben pezzo il mondo? Vada per l'Impero che non c'è più, ma guai a perdere la sterlina (Dio salvi la sterlina, si sono detti). Adesso Tony Blair sembra ripensarci.

E se i soldi fanno andar in sù l'acqua del mare, chi li manipola ha caro il proprio dominio politico. In Afghanistan sono corsi a milioni i verdi dollari americani. E poi, dietro ai dollari, le armi. Dio protegga l'euro, che non sia veicolo altro che di pace.

Se la lira aveva le sue sorelle (le lire), l'euro è stato dichiarato figlio unico (niente fratelli euri). Accettiamo la piccola regola, ricordando che l'euro è anche figlio di un sogno di pace continentale, dopo le tragedie del 1939-45.

a.m.

Le precedenti puntate di Basta la parola si leggono qui

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Diamante Garampi ed altre pagine
di storia della condizione femminile nel 1700

Vai alla relazione agli Studi Romagnoli 2001

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Tempio, il sorriso del saggio
Tempus loquendi, tempus tacendi


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Le donne combattono la fame
Scene di miseria durante la «grande guerra»

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«La guerra non cambia niente»
Dolori nella Storia e desiderio della Verità nel '900 letterario italiano


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La Scienza illustrata
Libri della Gambalunghiana esposti a Cesena

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Un problema? C'e' Fabio Ciuffoli...
Pensar «bene», con poca fatica

Fabio Fabio Ciuffoli ha scritto un bel libro sui problemi della conoscenza, “Problem solving con creatività”. Mezzo secolo fa lo avrebbe intitolato, forse, “Logica pratica". Oggi invece usa una formula inglese, attirandoci nell'atmosfera di studi pragmatici che caratterizza la cultura nordamericana sulla scia di quella inglese. Il volume (186 pp., Francoangeli di Milano, euro 14,46), ha tutte le caratteristiche grafiche e concettuali per porsi come un utile manuale al “pensare correttamente”.

Per saper pensare, bisogna capire i problemi, cioè vederne esattamente i termini: «Attraverso la revisione degli orizzonti percettivi, cioè l’ampliamento del proprio modo di vedere la realtà, si possono superare quelle abitudini mentali che, in molti casi, sono un ostacolo alla soluzione del problema», spiega Fabio Ciuffoli (che conosco da vari anni, essendo noi stati colleghi all'istituto Valturio). «Un problema è possibile tentare di affrontarlo da più parti, da più punti di vista, per arrivare alla via corretta».

L'esempio che Fabio Ciuffoli fa è quello delle illusioni ottiche: osservandole attentamente, è possibile «cogliere l’attimo in cui avviene il passaggio da un’immagine ad un’altra». E la prima figura del libro è un classico di queste illusioni ottiche: se la guardate partendo da sinistra vedete una bella signora, da destra appare invece una befana classica.

Serve tutto ciò anche nella scuola? «In molti casi il problem solving ha permesso a più di uno studente di superare qualche difficoltà legata alle varie materie scolastiche. Risolvere problemi è un’abilità di tipo trasversale che rivela predisposizioni potenziali sulle quali poter dare credito ad un ragazzo. In molti casi, la fiducia prestata ha dato risultati positivi producendo grande soddisfazione sia per i ragazzi che per me. E’ sempre emozionante vedere crescere le competenze di uno studente, vederlo acquisire sicurezza ad esempio nell’esprimersi in una lingua straniera o nell’applicazione della matematica ai problemi aziendali».

Fabio Ciuffoli, che è nato a Morciano nel 1956, mi spiega anche il significato che ha avuto nella stesura del volume la sua attività di insegnante: «Il libro è il risultato dell’esperienza maturata in oltre un decennio di lavoro nelle scuole superiori e nei corsi di formazione post diploma; posso dire che ha preso forma via, via, nelle aule scolastiche. Agli inizi erano idee appuntate su fogli dattiloscritti. Poi, arricchite dalle osservazioni e dagli interventi degli stessi studenti, sono diventate una “dispensa” per un corso sperimentale sulle Discipline della Comunicazione, ed infine sono arrivato alla stesura del volume. Ma credo che in fondo il libro sia, da un lato uno strumento utile per migliorarsi, ma anche il risultato di un percorso che mi ha portato ad incontrare persone e a cui devo impegno ed emozioni».

Fabio Ciuffoli scrive e si spiega bene, quindi il suo manuale ha la necessaria vivacità e tensione per illustrare il percorso da compiere. Se lo mostrate a qualche sputansentenze, vi dirà: ma questi sono giochetti da Settimana enigmistica. Risposta: quando quarant’anni fa sostenni il secondo esame di Filosofia teoretica (con il prof. Enzo Melandri, che subentrava facendoci respirare ad una pedante docente che capiva tutto lui), dovetti affrontare un affascinante trattato di «Introduzione alla logica». Era l’Irving Copi, edito dal Mulino (grazie al quale Mulino potemmo noi, ignorantelli di provincia non marxisti, conoscere qualcosa della cultura mondiale più aggiornata). Il Copi iniziava con «Esercizi di ragionamento» che sono gli stessi di Fabio Ciuffoli (e della Settimana enigmistica).

Non per nulla il cap. 6 del libro di Fabio Ciuffoli (l’ultimo!) s’intitola «Logica, creatività e problem solving». Dove il valore della creatività viene sottolineato come merita. Nella Scienza c’è sempre un’attività prelogica, l’intuizione o la lampadina che si accende, e poi la logica scende in campo ad approvare oppure a cancellare il tutto.

Antonio Montanari

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Non è la solita Storia
Convegno per docenti svoltosi a Rimini

La Casa editrice Paravia Bruno Mondadori ha organizzato dal 22 al 24 novembre a Rimini un «Convegno nazionale di studi e aggiornamento sulla Storia» che ha discusso tre argomenti: globalizzazione, revisionismi ed identità e cultura dell’Italia nel XX secolo. Vi hanno partecipato alcune migliaia di docenti giunti da tutto il Paese.

Dopo i tragici eventi dell’11 settembre, e soprattutto con una guerra in corso, ogni discussione sulla Storia s’accende di caratteri più vivaci ed inediti. Dall’esame del passato, già difficile di per sé, si passa ad un confronto che mette in gioco certezze acquisite, metodi di lettura dei fatti, bisogno di informazione.

Tutto questo ovviamente corrisponde pure ad un’esigenza intellettuale d’aggiornamento che gli insegnanti avvertono quotidianamente nel loro (non riconosciuto quasi da nessuno) lavoro di formatori ed educatori. Ben vengano dunque le iniziative come queste che cercano di offrire un supplemento d’indagine, un approfondimento tematico: sono iniziative che servono sempre, ma che, in questi frangenti, acquistano un valore aggiunto che deriva proprio da quel processo in cui l’attualità si fa Storia, inconsapevolmente ma pure inesorabilmente.

In occasione della presentazione del Convegno, intitolato «Mappe del ’900», la Paravia Bruno Mondadori ha diffuso un testo in cui appaiono le intenzioni degli organizzatori: «Un rapporto con gli insegnanti di Storia nelle scuole di diverso ordine e grado non può che avvenire oggi privilegiando il momento del dibattito storico a tutto campo».

Sono stati individuati due filoni su cui lavorare: il primo «riguarda il nuovo senso di ‘storia mondiale’ emerso negli ultimi anni, tanto nella consapevolezza degli storici quanto e più ancora nel senso comune e nel rapporto instaurato dai giovani con il passato». Il secondo affronta invece le «revisioni» interpretative, un tema ben noto questo, aggiungiamo noi, anche per le molte polemiche giornalistiche di questi anni.

Non ho trovato però nessun accenno alla strana materia che nei programmi si chiama Educazione Civica, dove si può avere vario campo per spaziare sull’attualità, facendo quelli che una volta si chiamavano i «collegamenti» con le altre materie umanistiche.

Non so se la parola «collegamenti» sia ancora oggi usata, se sia ritenuta lecita oppure perseguibile penalmente. Fatto sta che la Storia nella scuola italiana è spesso considerata l’ancella tra tutte le discipline. E non soltanto da oggi. Un ricordo personale. In terza Magistrale il nostro ottimo insegnante di Lettere, ferratissimo in Letteratura italiana e nella spiegazione della «Divina Commedia», faceva le bizze quando si passava appunto alla Storia, dove se la sbrigava in una maniera che riceveva il consenso degli studenti, e che per reazione poi mi ha fatto adottare, nello studio e nell’insegnamento, un criterio del tutto diverso.

Il problema dell’insegnamento della Storia, è anche politico: c’è sempre qualcuno che la vuole «ad usum Delphini», perché, se non è rumoroso «instrumentum regni», è comunque sempre una silenziosa certificazione notarile del proprio potere, o il mezzo con il quale si cerca di imporre una cultura finalizzata alla propria politica. Come testimonia il fatto che a Bologna un partito di governo abbia aperto una linea telefonica per ricevere le delazioni degli studenti relative ai docenti che «diffamano» nelle loro lezioni il presidente del Consiglio.

Lena Vanzi

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Nella vecchia fattoria (romana) alla Nuova Fiera.
Archeologi al lavoro a San Martino in Riparotta

Anche gli antichi Romani sono ospiti della Nuova Fiera di Rimini. La loro presenza, talmente discreta da apparire invisibile ai più, è stata segnalata durante i lavori di costruzione del grande parcheggio ovest, a San Martino in Riparotta.

Quei lavori hanno infatti riportato alla luce parte delle strutture di una villa rustica romana, su cui la Soprintendenza per i Beni Archeologici regionali ha lavorato sotto la direzione di Maria Grazia Maioli che ha seguito pure tutti gli scavi, avvenuti la scorsa estate. Essi sono stati eseguiti da «La Fenice Archeologia e Restauro» di Bologna, in accordo con la proprietà e con la collaborazione dell’Associazione Arrsa di Rimini

La villa sarebbe stata di dimensioni «ragguardevoli». Essa si estendeva verso sud (al di là della ferrovia). I lavori agricoli in passato hanno danneggiato gravemente l’impianto originale della costruzione. Spiega Maria Grazia Maioli: «Le arature hanno asportato tutta la parte alta delle pavimentazioni, mentre i fossi hanno tagliato pavimenti e muri, che sono conservati solo a livello di fondazione».

Partendo da quanto è rimasto, è stato comunque possibile delineare la planimetria del complesso: gli studiosi della Soprintendenza hanno formulato così alcune ipotesi sulla destinazione delle varie parti e degli ambienti.

Come spiega Maria Grazia Maioli, «le ville rustiche romane erano composte da settori diversi». C’era la «pars urbana» o «dominica» in cui alloggiavano i signori, cioè i proprietari. Poi c’era la «pars rustica» nella quale avvenivano tutti i lavori legati all’agricoltura ed alla produzione esistente nel complesso.

Nella villa rustica romana della Nuova Fiera, resta gran parte della zona produttiva. Quella abitativa invece è stata tagliata dai binari della linea ferroviaria. Sono sopravvissuti un cortile circondato da un portico (peristilio), con colonne, delle quali sono rimaste solamente le basi di pietra. A fianco ci sono altri ambienti, sulla cui destinazione è difficile però pronunciarsi.

Il cortile ed il portico hanno un pavimento di ciottoli. Nel portico, il ciottoli dovevano costituire, spiega la Maioli, «il sottofondo di un pavimento più nobile, in cocciopesto o a mosaico, purtroppo perduto».

L’esame dei materiali ha permesso di ritenere che, nell’ultima fase del complesso, il portico abbia subito una modifica, con la creazione di una vasca per fontana. Si pensa a questo elemento, grazie al ritrovamento di una ben conservata canaletta di scarico, fatta di tegole e laterizio, e riempita con frammenti di anfore.
Nella zona produttiva si nota un cortile sterrato che ne costituisce il centro: dal cortile si accedeva a grandi contenitori interrati di terracotta (dolii). Nella zona ad est, un vano è parzialmente diviso da un tramezzo: qui era collocato il torcular, ovvero la pressa per il vino. Si spremeva a pressione l’uva: il liquido era raccolto in una vaschetta che presenta due pavimentazioni sovrapposte. Quella inferiore è a mosaico, la superiore in cocciopesto.

Tutti gli ambienti, conclude Maria Grazia Maioli, erano in cocciopesto, «di cui restano frammenti sopra il sottofondo in ciottoli».

Lena Vanzi


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Una proposta per Sogliano.
Creare un Museo della Scienza romagnola
attorno alle raccolte di A. Veggiani

Da tempo si parla della nascita a Sogliano di un Museo scientifico con la pregevole raccolta lasciata dal geologo Antonio Veggiani.

La scorsa settimana sul «Corriere di Romagna» Antonio Giunta ha riferito le parole dell’assessore alla Cultura di Sogliano, Giovanni Comandini: la sua amministrazione «farà di tutto» per accogliere la raccolta di Veggiani nel futuro palazzo della Cultura, se per quel materiale «l’unica alternativa dovesse essere l’espatrio», oppure il «finire in mani private».

Veggiani è originario di Mercato Saraceno. Se quel Comune, abbiamo anche letto, non potesse (per motivi finanziari) acquisire la raccolta dagli eredi di Veggiani, allora si muoverebbe l’Amministrazione di Sogliano.

Dunque, davanti a tanti periodi ipotetici figli di cautela amministrativo-politica, e di fronte anche all’entusiasmo di chi, cioè lo storico soglianese Pierluigi Sacchini, ha lanciato l’idea di acquisire la raccolta di Veggiani, a nostra volta proponiamo qualcosa anche noi. Perché Sogliano non promuove (da subito) un «Museo della Storia della Scienza in Romagna», nel quale inserire, auspicabilmente, ed in futuro, anche la raccolta Veggiani?

Pensiamo che all’iniziativa non potrebbero essere indifferenti, per compiti ed obblighi istituzionali, né le Amministrazioni provinciali e regionali, né soprattutto l’Istituto dei Beni Culturali di Bologna, presieduto da Ezio Raimondi, un uomo di lettere che conosce bene però la Storia della Scienza della nostra Terra.

Sarebbe per Sogliano un progetto di valido significato, grazie al quale organizzare anche manifestazioni di grande interesse nazionale ed internazionale in vari momenti dell’anno.

La Storia della Scienza romagnola è una materia ricca di documenti, personaggi ed eventi non sempre conosciuti. Se ne trovano tracce o depositi consistenti nella varie biblioteche della nostra zona, come ad esempio in quella dei Filopatridi. Sogliano potrebbe coordinare così un nuovo filone di studi storici che in questo momento non trova ospitalità da nessuna parte. E potrebbe rappresentare pure il superamento di gelosie campanilistiche tra grandi e piccole città.

Lena Vanzi


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La Romagna del latte
Nuovo volume di Vittorio Tonelli

La consueta strenna di fine d’anno di Vittorio Tonelli sulle tradizioni romagnole, quest’anno riguarda «Latte e latticini» (Edit Faenza, lire 15 mila).

Partendo dal primo contatto dell’uomo con il latte materno sino alla produzione nella campagna di una volta, Tonelli disegna una trama fatta di perfetta conoscenza delle consuetudini, e d’interessanti documentazioni storiche.

Offro come esempio al lettore la citazione della vicenda di Puldin, nato nel 1902, trovatosi a quindici anni a dirigere la famiglia in sostituzione del padre chiamato alle armi a causa di un disguido, e costretto a partire per il fronte, nonostante gli otto figli minorenni a carico. (E’ un episodio che si ricollega a quanto ho scritto di recente sull’argomento, in queste colonne.) Puldin, racconta il fratello Attilio Cola, «per tutto il 1917 seppe muoversi nel lavoro e negli affari con una certa maturità, che gli derivava dalla furberia innata e dall’essere alfabetizzato. Tre anni prima, durante la Settimana Rossa, si era messo al servizio dei contadini del luogo come scribacchino di lettere (anonime) contro i padroni; e si era rivelato abile ‘mascheratore’ di un terzo ingresso (segreto) della stalla per poter foraggiare nottetempo, contro gli ordini degli scioperanti, quattro vacche ed una ‘borella’».

Il fatto che voci e note siano raccolte nel Sarsinate, nella media Valle del Savio ed in Alto Savio, è una precisazione geografica che serve a delimitare le fonti, ma non a ridurre l’interesse per la lettura.

Tonelli, forte di una tradizione di lavoro che risale al 1974, e che ha sviscerato ormai tutto quanto è possibile dalle vicende romagnole di un tempo, sa trovare però ogni anno un centro d’aggregazione attorno ad un argomento che poi esamina in ogni sfaccettatura. Lascio al lettore la sorpresa di scoprire l’infinità di aspetti che, pagina dopo pagina, emergono attraverso questo libro.

Molto belle sono anche le foto. Guardate quella famiglia con Giuseppe Giuliani in partenza per la guerra, 1915, la mamma, la moglie ed il piccolo figlio. E’ un’immagine fatta per portare un ricordo al fronte. Giuseppe Giuliani «morirà presto sul Carso e la foto, pietosamente recuperata, verrà spedita alla famiglia».

Antonio Montanari

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Liber@mente

Secondo James Wolffensohn, presidente della Banca Mondiale , la guerra al terrorismo si vince diminuendo la poverta'. Ha detto che l'11 settembre e' stato come se l'Afghanistan fosse sbarcato a Wall Street: da quel giorno non possiamo piu' ignorare i problemi del Sud del mondo.

Sergio Romano il 28 novembre ha scritto nel Corriere della Sera che in Afghanistan sara' peggio dei Balcani. Il 6 dicembre ha poi illustrato le speranze (poche) ed i tranelli (molti) presenti nell'accordo di Bonn.

«Non e' paradossale che i valori della democrazia si debbano sempre riscoprire un attimo prima di sganciare le bombe?» Curzio Maltese, Repubblica

Piero Ostellino ha risposto sul Corriere della Sera a Giuliano Ferrara direttore del Foglio (che lo aveva accusato di aver lanciato «smerdate al centrodestra»), che lui, Ferrara, come quando era comunista, considera la parola «liberale» ancora «una brutta parola».

Enzo Biagi ha ricordato sul Corriere della Sera che Vittorio Sgarbi era stato condannato per assenteismo. Sgarbi ha replicato che Biagi ha speso inutilmente troppi anni «a dir male degli altri». Risposta di Biagi: «Tra i motivi per giustificare le sue assenze c'era un'affezione di cimurro. Da un immediato controllo risulta che e' la tipica malattia dei cani».

L'Ora di Palermo fu «un giornale, a suo modo, anch'esso abusivo, pirata e fuori di luogo, finito sotto le ruspe dell'informazione normale, istituzionale, corretta». Francesco Merlo, Corriere della Sera

«Fra non molto l'unico processo ancora consentito in Italia sara' quello di Biscardi». Massimo Gramellini, La Stampa

«In Afghanistan, oggi, un bambino su quattro non supera il quinto anno di vita a causa degli stenti, della poverta' assoluta, delle malattie, del freddo, delle guerre». Fabio Cavalera, Corriere della Sera
«Silvio Berlusconi e' un formidabile venditore di tappeti. Per lui farne passare uno tessuto a Gallarate per un persiano del XVIII secolo e' un gioco da bambini.». Eugenio Scalfari, la Repubblica

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"… e nessuno tenti di muovere obbiezioni a questo discorso perché io lo rivolgo a chi vuole e rispetta la verità,
non ai falsari."
Indro Montanelli, Corriere della sera, 15 febbraio 2001


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