il Rimino - Riministoria

Quando a Rimini arrivò la «grande guerra»
I bombardamenti dal mare e dal cielo fra 1915 e '16

Il 24 maggio 1915, all'alba, un dirigibile gira sulla nostra città, sostando in particolare sopra il ponte della ferrovia Bologna-Ancona. La gente crede che si tratti di un'ispezione della nostra aviazione. Più tardi quattro colpi di cannone sono sparati contro la riva da un incrociatore corazzato austriaco distante poco più di due km. La gente «ritenne che una nave italiana salutasse 'a salve' la nostra entrata in guerra».

Mentre alcuni curiosi si avvicinano alla marina «spensierati e quasi giocondi», dall'incrociatore partono 54 colpi verso la città, con obiettivo il ponte della ferrovia che era stato ispezionato dal dirigibile-spia.

L'attacco del nemico (ora finalmente la gente comincia a capire), provoca un morto, Augusto Merighi. La sentinella del ponte, il soldato Nicola Dinanno, 37 anni, della IV compagnia Costieri, pur ferito al capo ed alle gambe, prima di essere sostituito non abbandona il posto di guardia.

Da giornali dell'epoca e soprattutto dalle pagine di un opuscolo che Gaetano Facchinetti pubblicherà nel 1931, intitolato «Il travaglio e la fede di una città adriatica. (Rimini dal 1914 al 1919)», ricaviamo le notizie riportate.

Facchinetti, che allora era deputato, rassicura il capo del governo Antonio Salandra: l'aggressione subìta «ha altamente ravvivato lo spirito pubblico». Continuava Facchinetti nel suo messaggio: «Rimini patriottica e marinara, pure attraverso i pericoli» del momento, guarda «serena e sicura al glorioso domani». Salandra risponde compiaciuto «vivamente delle condizioni di spirito pubblico della forte cittadinanza riminese».

Il sindaco di Rimini Adauto Diotallevi proclama: «Nessuno scoramento, nessuna trepidazione, perché le sorti della Patria sono affidate al valore dei nostri soldati di terra e di mare». Pochi giorni dopo, racconta ancora Facchinetti, «partiva da Rimini per la guerra un forte numero di giovani volontari».

Mentre alla gente si spiega che «intromissioni» neutrali «erano state messe in moto per scongiurare nuove offese» contro Rimini, il nemico ci riprova. Il 18 giugno, dalla distanza di otto km, un incrociatore per 40 minuti spara 80 granate sopra la città e dintorni. Danni al solito ponte ferroviario ed al binario per Ravenna, oltre che all'oratorio di sant'Antonio sul porto, al convento dei Paolotti in piazza Giulio Cesare ed a qualche casa in centro e periferia.

I guai maggiori sono per «la numerosa e povera classe marinara», dato che (spiega Facchinetti), il governo vieta «ai trabaccoli di solcare il mare»: alla «miseria della classe priva di lavoro», s'accompagna il «deperimento dei legni» (tanto che alcuni vecchi marinai distrussero «con le loro stesse mani quei trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi sacrifici»).

Salandra loda i riminesi che non si sono lamentati con il governo attraverso i loro rappresentanti. Intanto giunge a Rimini l'avanguardia dei profughi friulani che saranno ospitati lungo la nostra Riviera.

Il 15 dicembre ed il successivo 11 gennaio ci sono le prime incursioni aeree nemiche: obiettivo le Officine ferroviarie, nel momento in cui gli operai sono andati a casa per la pausa del mezzogiorno.

Scrive Facchinetti: «Le aggressioni già sofferte, il ritmo normale della vita cittadina in molta parte arrestato, completamente soppressa la pesca, cessato ogni commercio dei trabaccoli che con proficui risultati raggiungevano in passato le rive di Trieste, di Zara, di Pola, di Fiume, scomparso addirittura ogni vantaggio per l'industria del forestiero; tutto ciò fa ben comprendere quale e quanto disagio andava formandosi nella popolazione con particolare ripercussione sulla economia della città».

I «trabaccoli» riminesi erano 281, per un totale di 8.041 tonnellate. Per i loro proprietari, «dopo lunghe e quanto mai laboriose trattative», sono stabiliti prestiti di favore «col concorso dello Stato nel pagamento degli interessi: provvedimento che agli armatori, cui era possibile una maggiore resistenza, portò qualche sollievo».

Il governo affida alla nostra città la confezione di indumenti militari, sotto la direzione di Carlo Barbiani, di cui Facchinetti ricorda «la scrupolosa abilità». Questo laboratorio procura allo Stato «un beneficio di alcune centinaia di migliaia di lire, sopra un importo di 1.023.036,76 di indumenti confezionati».

Dal mare non viene più nessun pericolo nemico, dopo che sono state disseminate le mine, e per la presenza frequente di sottomarini che sorvegliano la costa. Invece dal cielo arrivano le bombe del terzo attacco aereo, il 15 febbraio 1916, sempre sul mezzogiorno: «ma questa volta i velivoli, attaccati con prontezza dalla nostra artiglieria, furono obbligati a restarsene a considerevole altezza. I danni sempre limitati ai soliti edifici».

Il quadro della situazione è delineato da Facchinetti con parole che sottolineano come «lo sgomento dei cittadini durante tali incursioni non fu a dir vero mai eccessivo». Anzi, alcuni «intrepidi individui» rimasero a seguire «le ostili manovre, e ad ogni lancio di bombe sistematicamente dirette sul ponte e sulle officine ferroviarie, era un'esplosione di odio contro la barbarie nemica, seguita da una invocazione ardente per la vittoria delle nostre armi».

Il Comune, il 10 agosto 1915, ha disposto che per l'imminenza di bombardamenti aerei fosse dato l'allarme con il suono a stormo della campane della torre civica. Per quelli marittimi, invece lenti rintocchi. Ai campanari del Tempio e delle chiese di San Giuliano, San Nicolò, San Gaudenzo e San Giovanni spettava di ripetere immediatamente quei segnali. Il cessato pericolo era poi comunicato dalle trombe dei pompieri montati sull'autocarro o in bicicletta.

Con il primo giugno 1916, scrive Nevio Matteini («Rimini negli ultimi due secoli», 1977), «il comando militare per la difesa antiaerea assunse direttamente i servizi di vigilanza e di segnalazione, dando l'avviso di pericolo mediante lo sparo di due razzi tonanti. Di notte la città rimase completamente al buio fino al 7 settembre 1915, quando fu acceso qualche fanale a vetri colorati per il corso di Augusto».

Dopo il bombardamento del 15 febbraio 1916 tutto sembra procedere per il meglio: non c'è nessun altro attacco. Ma un diverso nemico si avvicina. Il 17 maggio alle 13,50 (scrive Facchinetti), la città è scossa da un forte terremoto: «per un vero miracolo non rimasero sotto le crollate volte i bimbi dell'Asilo d'Infanzia».

Facchinetti ricorda: il 24 maggio 1916 con «particolare entusiasmo» Rimini celebra il primo anniversario dell'entrata in guerra; ed il 6 giugno, festa dello Statuto, il sindaco telegrafa a Sua Maestà il Re in zona di guerra che a nome della città si associava alla manifestazione patriottica, con l'impegno «di non volere soltanto nel passato la gloria di una civiltà superiore».

Commenta Facchinetti (che come si è detto pubblica il suo opuscolo nel 1931): «Parole solenni, e benché forse dimenticate, potrebbe aggiungersi parole di vaticinio dei successivi e meno lontani giorni della riscossa morale, quando le balde giovinezze dei reduci delle trincee, duce Benito Mussolini, vollero e seppero esaltare l'ineluttabile necessità della guerra ed il valore dei combattenti!».

Alle 9 e mezzo del mattino del 16 agosto 1916, Rimini trema dopo che si è udito «un rombo fortissimo». I primi segni del terremoto erano stati avvertiti il pomeriggio precedente, con quindici scosse, mentre al Politeama l'on. Innocenzo Cappa commemorava il martirio di Cesare Battisti, impiccato a Trento il 12 luglio.

Rimini, conclude Facchinetti, in quel drammatico momento di guerra «dovette chiudersi nella sua angoscia, nelle sue ristrettezze, e ritrovare quasi soltanto in sé stessa la forza di resistere al duplice travaglio, la via di risorgere».

Le cronache registrano quattro morti e trenta feriti. Oltre quattromila persone debbono abbandonare le loro case, e 615 fabbricati essere demoliti. Nella chiesa di Sant'Agostino le crepe dell'abside permettono di scoprire gli affreschi trecenteschi.

Come riporta Matteini, da Milano arrivò una duplice offerta: 25 mila lire per la città e altre 20 mila per il nostro circondario.

Passato il terremoto, nella primavera del 1918 si manifestano i primi segni della «spagnola», una broncopolmonite influenzale che miete vittime in tutt'Europa.

1917, le prime foto aeree:
ritrovate da Ferruccio Farina

La rivista «Romagna arte e storia» nel suo ultimo numero (65/2002) presenta un articolo dello studioso e collezionista concittadino Ferruccio Farina su tre foto aeree scattate sopra Rimini nel 1917 dall'aviazione austrungarica, e da lui recuperate sul mercato antiquario.

L'importanza, non soltanto per la storia militare, di queste tre immagini, deriva dal fatto che esse sono «le prime foto aeree della città fin ora note», e che mostrano «una mappatura minuziosa e fedele che Rimini non aveva mai avuto prima di allora».

Lo scritto di Farina è intitolato «Elevatis hihil celatur»: frase che, come annota l'autore, «è l'orgogliosa risposta data a Cesare da un centurione [...] a dimostrazione che disporre di immagini di un territorio, amico o nemico, era un bisogno sentito fin dall'antichità».

Farina, oltre a pubblicare le notizie tecniche relative alle schede che riguardano queste immagini, e ad esaminare il contenuto delle singole foto, offre al lettore alcune interessanti annotazioni.

Agli osservatori austriaci sfugge la presenza della ferrovia Rimini Novafeltria: forse, scrive Farina, l'intelligence austrungarica «non era bene informata sull'esistenza di tale ferrovia, o forse, non la considerava degna di nota dato che il tragitto ancora non era stato completamente ultimato».

Le foto furono scattare il 10 maggio ed il 17 settembre 1917. Di queste due incursioni «i giornali cittadini non danno cenno alcuno», obbedienti «alle rigide disposizioni delle autorità civili e militari che volevano evitare il diffondersi di informazioni che potessero procurare allarme e panico tra la popolazione».

Anche queste due incursioni di ricognizione, come quelle dei bombardieri che avevano in precedenza colpito Rimini per tre volte tra 15 dicembre 1915 e 15 febbraio 1916, partono da Pola, «la più importante base navale e aerea delle forze della Triplice alleanza», che D'Annunzio nello stesso 1917, in agosto, bombarda per due volte.

«La città croata distava 135 chilometri da Venezia, 134 da Rimini, 135 da Ancona, tutte città importanti per la difesa e per l'economia italiana», leggiamo ancora in Farina che aggiunge trattarsi di «città che però si trovavano quasi al limite dell'autonomia e del raggio d'azione degli aerei austriaci, costretti quindi ad effettuare incursioni veloci di dieci o venti minuti al massimo».

Pietro Corsi


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754/10.2.2003