Giovanni Maria Bertin,
ricordo di un Maestro
Venerdì 15 novembre 2002 Giovanni Maria Bertin è scomparso a Bologna all'età di 90 anni, compiuti poco più di due mesi prima.
Nel 1960 mi iscrissi al corso di Pedagogia della Facoltà di Magistero di Bologna. La Cattedra di Pedagogia era tenuta da Giovanni Maria Bertin che era anche Preside di Facoltà. Furono anni di grandi Maestri al Magistero. C'erano Ezio Raimondi per Letteratura italiana, Gina Fasoli per Storia Medievale e Moderna. Sarebbe poi arrivato in Storia della Filosofia, quando frequentavo il terzo anno, Paolo Rossi il quale avrebbe quasi subito abbandonato Bologna per Firenze. Estetica era affidata a Luciano Anceschi. Enzo Melandri tenne le lezioni del mio secondo corso (al quarto anno) di Filosofia teoretica, parlando di Logica. (Con Rossi 'presi' la tesi, sull'Irrazionalismo italiano nelle riviste del primo Novecento, avendo come controrelatore l'italianista Raimondi, il quale nel frattempo mi fece pubblicare un breve saggio nella rivista «il Mulino», dedicato al volume di Luigi Barzini junior, «Gli italiani».)
Bastano questi nomi per fotografare il clima intellettuale della nostra 'piccola' Facoltà, i cui allievi erano considerati di grado inferiore rispetto agli altri universitari perché usciti dall'Istituto Magistrale che era più breve di un anno dei due Licei (dai quali si riteneva sortisse la crema della cultura nazionale).
Noi delle Magistrali di Rimini provenivamo poi da una scuola comunale, in cui non sempre i docenti erano il meglio della piazza, se li confrontavamo con quelli che i due Licei cittadini fornivano ai loro studenti. La nostra era una preparazione modesta, tutta centrata su di un apprendistato intellettuale svolto con molta superficialità, anche per colpa delle classi.
Ho avuto due ottimi insegnanti di Lettere in terza ed in quarta magistrale: Campagna e Micheli. Soprattutto Eraldo Campagna ha esercitato su di me un benefico influsso, con la sua passione verso la Letteratura che lo portava ad una specie di estasi mistica nel corso delle sue lezioni, fin troppo particolareggiate, quasi barocche in certe spiegazioni della «Divina Commedia» come ancor oggi testimoniano gli appunti da me segnati sul testo che usavo allora. L'altra faccia della sua medaglia, che rilevo ancora una volta sfogliando il manuale di Storia di quel tempo, era il suo disinteresse verso questa materia, che lo portava a darci cattivi consigli come quelli di saltare certi capitoli che sono fondamentali, invece, per comprendere la successione degli eventi culturali e non solo politici. Consapevolmente sacrificava le lezioni di Storia a quelle di Italiano, credendo che tutto fosse nel mondo delle Lettere.A Campagna debbo anche la scoperta di Francesco De Sanctis, autore che approfondii durante le vacanze estive, con la lettura quasi integrale della sua «Storia» che mi aprì al programma dell'ultima classe e mi confermò nel mio interesse verso questo tipo di studi.
L'approdo a Bologna, al Magistero, alle lezioni di Bertin fu inevitabilmente una specie di trauma, anche perché avevamo studiato 'bene' soltanto Filosofia e niente Pedagogia con Gianna Di Caro, che fu paziente e dotta insegnante della materia, ma forse (lo penso adesso, a distanza di quarant'anni), troppo legata ad un sistema idealistico-storicistico conciliato con il suo marxismo che ci portava a leggere la successione ordinata dei pensatori come un complesso di perfezionamento inevitabile delle idee.
Gianna Di Caro era subentrata in terza a Memore Casalboni, noto in città per essersi laureato, come diceva mio zio, suo amico, in età di pensione. Memore, così lo chiamavamo in casa, appariva estremamente assorto nel suo introdurci ai segreti della Filosofia, materia che forse lui amava, ma che non sapeva farci amare perché anzitutto poco dialettico, anzi decisamente soltanto schematico nelle spiegazioni, e sempre irridente nei confronti di autori che forse avevano lo svantaggio di non essere all'altezza di chi come lui era costretto ad interpretarli ed a spiegarli. Un mezzo sorriso di ironico disgusto segnava i capoversi del suo discorrere come se avesse voluto proiettare sulla parete di quell'edificio disadorno di piazzetta Teatini il riflesso dall'astro lucente del suo intelletto.
La nostra generazione 'di mezzo' (dopo la guerra e prima della contestazione) non aveva ancora nessuno strumento autonomo per giudicare e comprendere, al di fuori del bagaglio che ci veniva affidato quotidianamente da portare con fatica e scarsa soddisfazione. Approdare al Magistero bolognese con tutti quei Maestri era davvero la scoperta dell'America, di un mondo nuovo e diverso di fare Cultura. (Lo avrei capìto anni dopo, dopo aver concluso gli studi: un paesaggio si vede soltanto dopo aver percorso un bel tratto di strada, non appena sbarcati all'ingresso di una città o di un bosco.)
Che ruolo ebbe Bertin in questa mia maturazione, l'ho compreso durante l'insegnamento, negli studi storici, nel lavoro quotidiano, nel vivere giornaliero, con quella semplice definizione che nelle parole «visione problematica della realtà» riassume un metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma certo utile per evitare ogni soggettivismo che può fuorviare, portare ad accettare il pregiudizio, consolidare nei propri errori una visione della vita che non può mai essere soltanto nostra, rifiutando il concetto che ci sono anche altri ad agire su quella stessa visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente o conflittualmente rapportati.
La stessa «visione problematica della realtà» approda poi ad una visione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta come accettazione della «soppressione della contraddizione». Riassumevo una pagina di Bertin, studiata dopo la laurea (1966) in un suo testo intitolato «Educazione alla ragione» (1973) con queste parole: «Ogni tipo di giudizio è problematico».
Di queste parole mi sono ricordato, inevitabilmente, anni fa in una pubblica occasione, contestando ad un presunto scrittore di cose storiche un giudizio (per usare un eufemismo) inconsistente su Mazzini, il quale, nemico della lotta di classe, veniva da lui definito colpevole delle fortune del socialismo. Cercai di spiegare che anche lo studio storico, deve essere improntato a questa visione problematica che sia appunto antidogmatica ed aperta alle varie ipotesi (soprattutto per non addivenire a conclusioni false o fuorvianti).
Cito l'episodio al solo scopo di testimoniare (sarebbe forse troppo ardito usare il verbo «dimostrare») come l'atteggiamento problematico non sia un prezioso sentimento da sfoggiare soltanto in occasioni solenni, ma atteggiamento mentale da assumere ed usare in ogni atto della vita.
Della vita intellettuale e pratica, essendo nostro dovere non divagare mai nell'assumere responsabilità di fronte all'analisi dei fatti di pensiero e di quelli concreti, entrambi rispondenti ad un disegno morale che essi debbono tradurre.
Antonio Montanari
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