Antonio Montanari
Giovanni Cristofano Amaduzzi
e la
scuola di Iano Planco
«Gl’ingegni superiori», osservò
Giacomo Leopardi, «non si servivano della istruzione che prendevano in
diverse scuole, se non per iscegliere il meglio, o quello che credessero tale»[1].
La massima, così efficace nel riassumere il senso di ogni eccellente
apprendistato intellettuale, può applicarsi anche alla formazione
ricevuta da Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-1792) a Rimini, prima nel
Seminario vescovile e poi alla scuola privata del medico, scienziato e
poligrafo Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775).
Nel comportamento di Amaduzzi sin da fanciullo, la
famiglia aveva avvertito che si trattava di uno di quegli «ingegni
superiori» dei quali parla Leopardi, e di cui i parenti debbono avere il
massimo rispetto, istradandoli verso un cammino che raccolga i frutti naturali
della mente, e la sappia coltivare con un’educazione acconcia. Per
raggiungere lo scopo, occorre perfezionare le conoscenze mediante un tirocinio
che non dev’essere sofferenza, ma lo spontaneo realizzarsi d’una
vocazione culturale. Questa, come nel nostro caso, nonostante l’avvio al
Seminario, non coincide con quella religiosa che ben altre motivazioni
d’interessi materiali imponevano a quell’ambiente provinciale e non
ricco a cui Amaduzzi appartenne. La sua era infatti una famiglia di
«possidenti molto impoveriti»[2],
che sognava per lui una carriera ecclesiastica capace di fornire pane e
companatico ad un giovane degno di non dedicarsi ad umili mestieri.
Egli venne alla luce la sera del 9 agosto 1740, nella
parrocchia di Santa Maria delle Grazie a Fiumicino. Molti biografi gli
accorceranno la già breve vita, spostando in avanti di due anni la data
di nascita, sulla scia del primo scritto in sua memoria, composto da Isidoro
Bianchi[3].
Figlio di Michele e di Catterina Gasperoni, è tenuto a battesimo il
giorno dopo nella chiesa di Santa Lucia di Savignano dal parroco don Giovanni
Battista Mancini che funge pure da padrino, mentre la madrina è la
moglie di Bartolomeo Borghesi, Silvia Antonia[4].
Non sfugge il significato simbolico della scelta delle due figure che
accompagnano il neonato al sacramento. Il nobil huomo parroco Mancini, originario
di Rimini, è una persona colta, dottore e Protonotario Apostolico, dal
1732 Pievano di San Giovanni in Compito e Savignano di Romagna, nonché
presidente dell’Accademia degli Incolti[5],
che precorre i Filopatridi. Segretario degli Incolti fu Pietro Borghesi[6]
(1722-1794), figlio di Bartolomeo e della ricordata Silvia Antonia. Bartolomeo
e Pietro Borghesi rappresentano la cultura antiquaria romagnola che acquista
fama oltre gli àmbiti locali, e che caratterizza molta parte degli studi
amaduzziani.
Tanta dottrina che circonda l’infante non è
soltanto convenzionale ostentazione d’un privilegio sociale. In quella
cerimonia, sembra di assistere ad una specie di consacrazione culturale. A
Giovanni Battista Mancini nel 1759, Giovanni Cristofano Amaduzzi vorrà
dedicare i Componimenti poetici in lode del Santissimo Nome di Maria, la cui
festa solennemente si celebra nella Chiesa della B. Vergine delle Grazie di
Fiumicino, situata sulle sponde del Rubicone...[7].
Rettore della medesima chiesa di Santa Maria delle Grazie a Fiumicino, è
un altro sacerdote che svolge un ruolo importante nei primi anni di vita del
Nostro: lo zio paterno Giovanni Francesco Antonio Amaduzzi. Alla sua scomparsa,
nel 1771, Giovanni Cristofano scriverà parole commosse al proprio
fratello don Francesco Maria[8],
arciprete del Capitolo di Savignano, dichiarando di aver sempre professato
verso lo zio «tanta gratitudine»[9].
Sulla scorta di quanto annota Isidoro Bianchi[10],
possiamo collegare questo sentimento alla scelta famigliare, che immaginiamo
suggerita da don Giovanni Francesco, di inviare il nipote in Seminario a
Rimini.
Qui Giovanni Cristofano ebbe come «colto
Maestro»[11] il
sacerdote Pietro Mussoni. Secondo Carlo Tonini[12],
Mussoni è «annoverato tra i buoni professori di umane
lettere», e tra gli scrittori riminesi per un manoscritto di Frasi
italiane,
datato 1750. Come allievi, oltre Amaduzzi, don Mussoni ebbe il futuro cardinal
Giuseppe Garampi (1725-1792), a cui la vita della Chiesa settecentesca e la
cultura italiana moderna debbono tanto per capacità politica, sagacia
diplomatica e solida dottrina[13];
ed il santarcangiolese Gaetano Marini[14],
campione massimo dell’«erudizione nuova»[15]:
insomma, una bella compagnia che educava se stessa a grandi imprese, per
realizzare degnamente le promesse intraviste dai loro educatori.
Pietro Mussoni era succeduto ad Antonio Maria Brunori
(1701-1758) il quale era subentrato al padovano Felice Palese, docente di
Latino e Arte oratoria. Palese era stato compagno di studio di Lingua greca di
Giovanni Bianchi, di cui sia Brunori sia Mussoni sono stati invece allievi. Di
Brunori, Planco si dimentica quando nel 1751 pubblica, in calce ad una breve ed
anonima autobiografia[16],
il «catalogo degli scolari, che più si sono distinti, e che sono
usciti» negli anni precedenti dalla sua scuola «in Rimino»[17].
Brunori è ricordato da un altro ex alunno di Planco, Giovanni Paolo
Giovenardi[18], come
«soggetto di merito, ed elegante Poeta» che «fu per molti
anni valente Maestro di Belle Lettere in questo Seminario».
Nel 1720 (dopo
aver conseguito il 7 luglio 1719 la laurea presso la Facoltà di Medicina
e Filosofia a Bologna), Planco aveva aperto nella propria casa, come scrive
proprio Amaduzzi, una «pubblica gratuita scuola di Filosofia, Geometria,
Medicina[19], Notomia,
Botanica, Chirurgia, e Lingua Greca in vantaggio, e profitto della studiosa
gioventù paesana, e forastiera»[20].
Una scuola che Giovenardi definisce «pubblica Università»[21].
Ad essa si affiancava «un Museo non meno di cose naturali, che di
Medaglie, d’Idoli, d’Iscrizioni, e d’altre cose antiche
copioso»[22], utile agli
studi di Antiquaria a cui Bianchi addestrava i discepoli. La Medicina era
materia comune per tutti gli allievi[23].
Nel 1751 Planco
conta più di venticinque scolari, fra cui ci sono «alcuni cospicui
di ordine religioso, ed altri forestieri delle circonvicine città, che
sono venuti a studiare sotto di lui»[24].
In quel «catalogo degli scolari» non appaiono ovviamente, per
questioni anagrafiche, i nomi di Gaetano Marini e di Giovanni Cristofano
Amaduzzi che entrano successivamente a far parte della «setta dei
Bianchisti», per usare una definizione che ricaviamo da lettere di ex
alunni[25].
Quando Amaduzzi entra nel liceo planchiano nel 1755,
Bianchi è una celebrità in campo scientifico. Nel 1739 ha
pubblicato a Venezia uno studio sui foraminiferi, il De Conchis minus notis[26]. Dal 1741 al 1744 ha
insegnato Anatomia umana all’Università di Siena, continuando
nella sua scuola privata[27].
La sua è stata una fuga da Rimini, dovuta all’insoddisfazione per
l’impegno di medico, come risulta da una lettera al teatino padre Paolo
Paciaudi del 26 luglio dello stesso 1741: «Io come Filosofo non mi sono
mai affezionato a niuna cosa in particolare; ma essendomi dilettato di varj
studi, colà [a Siena, n.d.r.] io attenderei a quelli che io potessi,
dove qui io non posso per così dire attendere ad alcuno, tutto il giorno
essendo occupato in cure tediose di malati senza alcun profitto. Questa
è una città che dà ai Medici il medesimo incomodo che
Roma, e ogni altra gran città, ma il premio è senza alcun
paragone infinitamente minore»[28].
Nel 1742 i Memorabilia Italorum eruditione
præstantium[29] curati da Giovanni Lami a
Firenze, gli hanno pubblicato (anonima) un’autobiografia, in cui è
troppo fedele il ritratto rispetto all’originale perché
l’autore fosse altri dal personaggio presentato[30],
sempre afflitto da un’ipertrofia dell’ego che appare quasi in ogni
pagina. Il 19 novembre 1745, nella propria casa, Bianchi ha rifondato
l’Accademia dei Lincei[31],
dopo averne presentata la prima storia a stampa l’anno precedente[32].
Nel 1749 ha pubblicato il De monstris ac monstrosis quibusdam che documenta la sua scelta
eretica a favore della fisica di Gassendi: davanti allo scontro tra
l’Aristotelismo interpretato in una chiave esclusivamente dogmatica, e la
ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi,
Planco ha sposato la causa delle innovazioni introdotte da quest’ultimo.
Nel De
monstris
Bianchi dà per scontato che la perfezione dell’ordine naturale
(fatto coincidere dalla vecchia Filosofia con il presupposto
metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà), sia smentita
dai cosiddetti «scherzi di Natura». Questo scritto fa convogliare
sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali non furono
certamente estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi. La fretta con cui si
giunse, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per il suo discorso In
lode dell’Arte comica, recitato ai Lincei la sera dell’11 febbraio (e poi
subito stampato a Venezia), non può spiegarsi soltanto in relazione al
tema controverso in esso trattato, al centro allora di durissime polemiche[33].
L’11
febbraio 1752 è l’ultimo venerdì di Carnovale. Bianchi fa
precedere la lettura dell’Arte comica dall’esibizione di una giovane
cantante ed attrice romana, Antonia Cavallucci. In città nasce un
pubblico scandalo. L’artista è costretta da Planco ad andarsene in
tutta fretta da Rimini. Il vescovo Alessandro Guiccioli lo denuncia a Roma, da
dove un amico comunica a Bianchi che contro di lui si sono fatte
«illustrissime e reverendissime insolenze». Inizialmente Planco
è attaccato soltanto per l’ospitalità concessa alla
cantante; poi è denunciato al Sant’Uffizio per il contenuto della
dissertazione[34]. I due
momenti si tengono strettamente tra loro: entrambi sembrano aver origine in un
atteggiamento pregiudiziale nei confronti dell’attività e dei
comportamenti scientifici di Bianchi, per rendergli sempre più difficile
l’attività accademica. Lo scandalo che avvolge la radunanza
«di carnovale», ha le sue radici, più che
nell’esibizione della bella romana, nelle ardite opinioni del
«Restitutore» dei Lincei. Sostenendo retoricamente la
nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo
non troppo sottinteso il bisogno di libertà per cultura e Scienza.
Ad attirare
l’attenzione, in senso negativo, su Bianchi, era stato forse anche un suo
scritto minore apparso nel 1744, la Breve storia della vita di Catterina
Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in
qualità di Servidore la quale dopo varj casi essendo in fine stata
uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo cadavero. Gli appetiti d’Amore,
osserva Bianchi, spesso sono «strani veramente e incredibili
oltremodo», al punto che non conoscono ostacoli o condizionamenti pur di
«giugnere in fine al possedimento della disiata cosa». Commentando
che ciò non deve destar meraviglia, Bianchi dimostra di considerare
lecito ogni comportamento erotico, compreso quello della giovane romana,
seguace di Saffo e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto
con i dettami della Religione[35].
I fulmini
dell’Indice per l’Arte comica si abbattono su Bianchi con il decreto
del 4 luglio 1752. Egli però ottiene da Benedetto XIV (1740-1758), con
il quale può vantare un’antica amicizia, che nel decreto sia
taciuto il suo nome e sia inserito soltanto il titolo dello scritto, come
avviene effettivamente nell’Index del 1758 (p. 80). La condanna non ha
conseguenze nella successiva carriera pubblica di Bianchi: nel 1755 egli
è nominato Consultore dell’Inquisizione e Medico del
Sant’Uffizio, prima di diventare nel 1769 «Archiatro Segreto
Onorario», per volere del nuovo papa Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli,
1769-1774), suo allievo della prima ora[36],
che sarà il grande protettore del giovane Amaduzzi, oltre che
dell’antico, venerato maestro.
Quando Bianchi
gli invia le proprie felicitazioni per l’elezione al soglio di Pietro, Ganganelli
gli risponde con una lettera su cui il medico riminese annota nei propri diari:
Clemente XIV «mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di
Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù»[37].
Planco ne riparla nel primo tomo delle nuove Novelle fiorentine (27 luglio 1770,
n. 30, coll. 471-474), ricordando la benevolenza usatagli dal papa:
«Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo Archiatro Segreto
Onorario, mi ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria,
acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe,
raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella
gioventù i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca
spezialmente».
Fu Amaduzzi,
come confida lui stesso ad Aurelio Bertòla[38], e come
racconta pure il breve necrologio di Planco apparso sulle Novelle di Firenze[39] del 1776, a
fargli ottenere il raddoppio dello stipendio e la nomina a medico segreto
onorario del pontefice. A sua volta Bianchi, citando i favori ricevuti da
Clemente XIV, inserisce anche i due incarichi attribuiti ad Amaduzzi: la
cattedra di Greco alla Sapienza, e la Soprintendenza della Stamperia di
Propaganda Fide[40]. Se
dapprima i rapporti fra Planco ed il giovane savignanese furono quelli che
intercorrono tra maestro e discepolo, poi essi sono improntati ad una reciproca
benevolenza con conseguenti scambi di favori, resi possibili soltanto dalla
protezione che a Roma poteva loro assicurare il papa conterraneo.
Giovanni Cristofano
Amaduzzi, come lui scrisse, attende «per sette anni allo studio della
Filosofia e Lingua Greca sotto la disciplina del Ch: Dott. Giovanni
Bianchi»[41],
cioè dal 1755 al 1762, quando Planco lo avvia a Roma. Sono sette anni
importanti anche per la biografia intellettuale di Bianchi: al 1761 risale un
suo testo, Congressi letterari della nostra Accademia[42], in cui egli si preoccupa
di segnare i limiti della propria esperienza di maestro, precisando che nelle
varie radunanze lincee non si trattano questioni o materie in particolare,
perché esse richiedono «che pensiamo gli argomenti da noi
medesimi, e che con nostre proprie ragioni ed osservazioni gli
confermiamo»: «eziandio nelle più copiose Accademie
d’Europa, quali sono quelle di Parigi, di Londra, di Pietroburgo, di
Berlino, di Bologna, pochissime sono le dissertazioni di quegli accademici
sopra cose particolari, e che contengano veramente qualche cosa di nuovo e di
particolare». Bianchi avverte la distanza tra la funzione pedagogica, di
grande rilievo, che giustamente si attribuisce, ed i risultati concreti molto
ridotti rispetto alle sue aspettative.
Ad una crisi dei Lincei[43],
Planco aveva già accennato in altre due precedenti occasioni. Il 30
aprile 1751 ha accusato «buona parte de’ nostri Academici di
Rimino» d’essere diventati «non so come Pittagorici fuori di
tempo essendosi fatti mutoli la maggior parte», preferendo di
«marcire nell’ozio, o d’affaticarsi solamente per qualche
poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche
femminuccia»[44].
Nel 1755, ha spiegato che le adunanze dei Lincei non sono frequenti
perché molti accademici abitano fuori Rimini, dove esistono poi varie
scuole, al posto di quella sua unica che forniva ai Lincei parecchi relatori[45].
L’isolamento che Bianchi denuncia è forse provocato, più
che da negligenza o futili motivi degli accademici, dalla loro paura di esporsi
in un ambiente diventato ‘pericoloso’ nei riguardi del potere
ecclesiastico-politico dopo la condanna all’Indice per l’Arte comica.
«Recherà forse
meraviglia», dichiara Bianchi all’inizio dello scritto del 1761,
«che dopo due anni io ora torni ad aprire i congressi letterari della
nostra accademia, ma i meglio informati non si maraviglieranno punto,
considerando che molti de nostri accademici sono in altri luoghi trapassati, ed
alcuni anche sin morti, onde solamente qui in due i tre siamo rimasti».
Ma costoro, aggiunge Bianchi, sono tutti occupati «in molti affari e di
premura», per cui non possono comporre «dissertazioni da recitarsi
qui ogni settimana, come quando eravamo molti, una volta si faceva, od in
ispazi di tempo più lunghi, come dopo s’incominciò a fare,
avendo osservato che sul principio tanto i nostri accademici di Rimino quanto
quei di fuori componevano più facilmente loro dissertazioni da recitarsi
qui, perché io aveva loro suggeriti argomenti generali per far vedere al
Pubblico l’utilità della geometria, o quella della fisica, o della
lingua greca, o della poesia, o della musica, o d’altra scienza, o
d’altre cose d’erudizione in generale […]».
Sottolineando il rapporto
che è sempre esistito fra l’Accademia ed i propri allievi, Planco
scrive: «ho procurato che i Giovani della nostra Scuola espongano varie
Tesi e che le difendano per avvezzarli ad essere atti a tratar cose
particolari, quando nell’età saranno più maturi, ed alcuni
in questo non piccola disposizione dimostravano animati anche dalla presenza di
valorosi uditori, che loro applaudivano, ma essendo mancato anche questa, essi
sembra, che si sieno, come raffreddati, onde io non so come anderemo avanti,
tanto più che nella Città nostra essendo ora cresciuto il numero
delle Scuole, queste vengono a distruggersi l’una coll’altra per la
scarsezza degli Uditori, che ha ciascuna, né per avventura possono i
Giovani ricevere que’ Lumi, che una volta da una sola copiosamente
ricevevano. Ma di questo sia come si voglia, finché io avrò vita
non cesserò giammai di animare la Gioventù, che mi
frequenterà ai buoni studi, e quando per me si potrà,
aprirò i pubblici Congressi della nostra Accademia facendo anche
pubbliche le cose particolari, che in essa da me, o da altri si
reciteranno»[46].
Nelle carte di Bianchi non
ho trovato nessuna traccia relativa alla partecipazione di Amaduzzi
all’attività dei Lincei. Questo non significa però che essa
non sia avvenuta. Ad un certo punto della sua vita, Planco è tanto preso
da impegni scientifici e culturali, da non aver più il tempo necessario
per segnalare con precisione tutto quanto avviene nei Lincei e tra i suoi
studenti. Troppo grande è la stima che Bianchi dimostra per Amaduzzi,
per farci pensare che egli non lo abbia mai utilizzato in qualche pubblica
occasione, così come era avvenuto in precedenza con gli altri suoi
allievi.
I dati relativi
all’ambiente scolastico planchiano, sono utili per precisare meglio i
contorni dell’esperienza vissuta da Amaduzzi nei sette anni trascorsi a
Rimini. Bianchi, in quel tempo, ha raggiunto una sicura maturità
scientifica che però non gli impedisce di continuare ad adottare certi
atteggiamenti che gli saranno (con elegante, rispettosa fermezza) rimproverati
dall’Amaduzzi adulto, proprio quando Planco muore, nell’articolo
pubblicato sull’Antologia romana[47]: «Fu egli uomo dotato
di un vasto talento», scrisse il savignanese, «di memoria
sorprendente, e di una somma diligenza. Mancò d’un certo criterio,
per il che fu soggetto talvolta a qualche paralogismo. Fu tenace della sua
opinione, alla quale di rado rinunciava. In mezzo a quella caparbietà
peccava talvolta di volubilità sul punto di favorire ora un partito, ed
ora un altro. Tutte quelle cose erano qualità inerenti alla sua natura,
ma non già vizj surrogati dalla malizia. Fu prono alla colera, ma breve
nell’aderire ai trasporti della medesima. Fu ardente co’ suoi
nemici, ma ogni piccolo officio era capace a farlo dimenticare delle ingiurie.
Quanto fu amante della lode, che gli veniva dagli altri, e che non si
risparmiava neppure da se stesso, altrettanto era parco nel compatirla agli
altri» (p. 236).
La delicatezza del tono
usato da Amaduzzi si manifesta appieno quando, per offrire una testimonianza
veritiera della sua esperienza umana e culturale alla scuola di Bianchi, egli
scrive che «tutte quelle cose erano qualità inerenti alla sua
natura», non già frutto di una precisa volontà. E’
un’assoluzione che non trascura però un aspetto particolare della
psicologia di Planco, che si proiettava negativamente anche sulle scelte
culturali di ogni giorno: «Fu tenace della sua opinione, alla quale di
rado rinunciava».
Ho già ricordato che
Planco si oppose alla cultura peripatetica. Ma lo scontro tra Aristotelismo e
Nuova Scienza resta, in maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con il
senso di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee
elaborate da Bianchi[48],
laddove si sostiene che prima vengono i pareri dei «dottissimi
filosofi», poi «l’investigazione della stessa natura».
Si accantona così, nella maniera più semplice ed evidente, il
metodo della «sensata esperienza», originando un’altra
divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega
i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui Bianchi parla
nelle leggi accademiche, è più tolemaico che copernicano;
più incatenato all’ipse dixit del moderno Aristotelismo, che aperto
ai temi pre-illuministici.
Per Planco ciò
significa conflitto tra la sua funzione di scienziato (che, in quanto tale,
deve attribuire all’osservazione diretta un primato assoluto), e quella
di reggitore di un’Accademia la quale, come detta la sua prima legge,
vuole essere «aristocratica». Dietro quest’enunciazione,
c’è un particolare modo d’intendere la cultura come
riservato dominio dell’uomo dotto, il quale sentenzia soltanto grazie al
suo ruolo di maestro, ed indipendentemente dalla validità scientifica
‘galileiana’ dei risultati a cui perviene. Ed in ciò sta
quel modo tenuto da Bianchi, che Amaduzzi definisce l’essere
«tenace» nel sostenere la propria «opinione».
Molti anni prima, nel 1735,
Bianchi aveva suggerito ad un suo corrispondente, lo studioso naturalista
ravennate Giuseppe Zinanni (o Ginanni, 1692-1753), di «non perdersi in esperienze,
ma di proseguire con celerità l’opera promessa al Pubblico»,
cioè il trattato Delle uova e dei nidi degli uccelli che appare a Venezia due
anni dopo. Zinanni rispose a Bianchi con disarmante candore: «se non
usassi questa diligenza, moltissimi sbagli farei»[49].
Aurelio Bertòla, in un polemico necrologio per Planco, che fu causa di
tanti vivaci contrasti, sottolineò come Bianchi fosse stato
«osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima
legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta»[50].
All’insegnamento
filosofico di Planco c’è un richiamo puntuale nella Rimostranza
umile al trono Pontificio[51] che nel 1790 Amaduzzi
inviò a Pio VI (1775-1799): «Fatti gli studi delle belle lettere e
delle scienze convenienti ad un uomo ingenuo, cominciai tosto ad abbandonare
quei sentimenti, che appresi per veri, e per sicuri, e quindi con giovanile
ardore cozzai cogli ultimi avanzi dell’Aristotelico rancidume»[52].
Fra il 1776 (quando compone
per l’Antologia romana il ricordo del maestro defunto), ed il 1790 (quando
scrive la Rimostranza), intercorre tutta la fase della maturità di Amaduzzi,
caratterizzata soprattutto dai tre celebri discorsi filosofici[53], molto importanti nella
storia culturale settecentesca italiana, che sono all’origine di tutti i
suoi guai. Non so se Amaduzzi nel 1790 avrebbe sottoscritto nuovamente il
giudizio espresso sul maestro nell’Antologia romana relativamente a
«qualche singolarità, o stravaganza che sia, la quale suole per lo
più andare congiunta ai grandi ingegni, acciò forse non si
trovino troppo al di sopra del resto della specie umana». Per chiarire le
sue intenzioni, Amaduzzi aveva aggiunto: «Se non che potrebbe
l’educazione, e la ragione agevolmente correggerla, e tor loro un tale
ostacolo a così speciosa maggioranza. Appunto la Filosofia dovrebbe
essere la medicina delle malatìe dell’anima, e quindi chi non ne
profitta è sempre un Filosofo imperfetto, e solo il compenso
dell’altre sue virtù, maggiori de’ suoi vizj, può non
ostante conservargli il diritto alla pubblica estimazione». Il tono
vagamente apodittico di questo passo è un’eredità
dell’insegnamento planchiano, con l’enunciazione, o per meglio dire
l’auspicio, che la cultura (anzi, più solennemente «la Filosofia»)
possa servire per correggere quei difetti naturali che, con un’eleganza
retorica da non dimenticare, Amaduzzi chiama «malatìe
dell’anima».
Nel ricordo del 1776, Amaduzzi osserva che «le
massime» della «morale teoretica» di Bianchi «erano le
più consone a quelle de’ Padri della Chiesa, e chi ha
l’onore di scrivere queste poche righe dietro ai soli dettami della
più sincera verità, l’ha udito insegnare l’etica
filosofica con quella precisione, ed impegno, che si suole osservare in quelli,
che parlano coll’interna persuasione». Nel comportamento del
maestro, Amaduzzi trova conferma alla regola prima dell’educazione
ricevuta in famiglia: «serbare in ogni azione la verità e la
schiettezza»[54].
Alla scuola di Bianchi egli, oltre ad apprendere molte preziose nozioni, si era
confermato nel proprio convincimento di poter evitare le secche degli inganni
nella navigazione della vita, seguendo la stella polare degli insegnamenti
morali impartitigli in casa. Gli sviluppi successivi della sua vicenda
personale, lo avrebbero amaramente disilluso, pur confermandolo nella «fermezza»
ai suoi «interni sentimenti».
L’accenno alla
«persuasione» dimostrata da Planco nell’insegnamento
dell’etica filosofica, chiude (non per mera esigenza letteraria,
bensì come doverosa testimonianza) il discorso sul maestro, prima delle
brevi notizie relative alla sua malattia e scomparsa. Il passo, che quasi
suggella simbolicamente il senso di una biografia, ci suggerisce di non
dimenticare come, nel descrivere la vita altrui, si proiettino sempre le
proprie idee ed esperienze. Alla luce di questo dato, ad un tempo psicologico e
letterario, è da considerare con la massima attenzione uno scritto
inedito di Amaduzzi, in cui egli compone un altro elogio in memoria di Planco
scrivendo ad Aurelio Bertòla[55].
Amaduzzi qui si presenta
come «il discepolo, e l’amico» che ricorda i meriti di
Bianchi «che furono molti, e grandi», non dimenticando però
che l’«onorato defunto» non «andò esente dai
suoi difetti»: «Io veneratore della sola virtù non
sarò mai idolatra di quella viziosa penombra che talvolta
l’eclissa in un medesimo soggetto. L’adulazione, o la lode
inconsiderata, ed indistinta è il retaggio dell’anime vili, o poco
illuminate». Durante sei anni[56]
egli lo ha avuto «per Precettore di Filosofia, Storia Naturale, e Lingua
Greca», per quattordici ha tenuto con lui un «continuato
carteggio» dopo essersi trasferito a Roma[57].
Questa duplice esperienza può dargli «un dritto di parlare di lui
con precisione, e di esigere l’altrui credenza».
Circa la scuola planchiana,
Amaduzzi osserva che i suoi frequentatori «furono sempre molti, e di
questi non pochi quelli, che nella stessa patria, e fuori per cariche, e per
letteratura si distinguono». Con una punta di malizia, dopo aver
ricordato scritti, aggregazioni accademiche, studi anatomici di Planco,
Amaduzzi accenna pure ad Antonia Cavallucci: la «severità
filosofica» di Bianchi «patì un’interstizio di sei
mesi, quanti egli ne dedicò alla corte, che fece, ad una eccellente, e
spiritosa Comica Romana, nominata Antonia Cavallucci, la quale seppe eccitarlo
a far stampare in sua lode alcune poesie, ed a comporre, e pubblicare
nell’anno 1752. l’indicato Discorso, il quale per
un’eccezione di poco rilievo andò ad impinguare l’Indice de
Libri proibiti. La singolarità, e la brevità del suo impegno fa
vedere, che sì fatto mestiere non è per i letterati bisognosi di
quiete, e di tempo per le loro applicazioni».
Il buon filosofo Amaduzzi
sembra un figlio geloso per una galante avventura paterna. Nelle sue parole,
pecca ingenerosamente d’esagerazione nel descrivere una vicenda amorosa
che in realtà non ci fu. Bianchi, in una pagina inedita, ricorda il modo
in cui fece conoscenza della Cavallucci: un marchese forestiero di nome
Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione d’un cavaliere
riminese il quale però mancò alla parola data. Abbandonata dal
cavaliere, e senza poter più ricorrere al marchese morto nel frattempo,
Antonia è confortata da Bianchi: «presi a farle qualche
assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di
questa Città, non senza però una molta invidia de’
malevoli», confida al padre di Giambattista[58].
La giovane romana chiese poi per lettera a Bianchi «una difesa sopra il
fatto» del suo matrimonio, «un discorso tanto, che lo possi
imparare a memoria», e recitare davanti ad un giudice ecclesiastico, per
ottenere una pronuncia contro le violenze del marito. Infine, bussò ad
aiuti economici, ridotta in miseria e con la madre a carico, invocando la
bontà di Bianchi chiamato «caro papà» e «mio
Padre», con un affetto d’altro tipo rispetto a quello immaginato da
Amaduzzi[59].
Il racconto amaduzziano sui
rapporti fra la Cavallucci e Planco, si basa senza dubbio su quelle
«illustrissime e reverendissime insolenze» che circolavano in
città ed (inevitabilmente) pure nel Seminario che il savignanese
frequentava nel 1752, al tempo dello scandalo per l’Arte comica. La presunta corte che il
maturo medico avrebbe fatto alla graziosa romana (la quale, oltretutto,
esercitava una professione considerata disonorevole[60]),
fa parte del repertorio di accuse più o meno fantasiose che su Bianchi
si abbatterono di continuo, non soltanto a causa del suo temperamento ma anche
per la gratuita invidia e perfidia dei «malevoli» i quali non
perdevano occasione di attaccarlo.
A proposito del temperamento
di Bianchi, merita di essere riportata questa parte, che è centrale
nell’elogio inviato da Amaduzzi a Bertòla:
«Il
raziocinio non fu in lui sempre il più retto, giacché sovente
egli era inconseguente co’ suoi principi, e la prevenzione qualche volta
prevaleva in lui alla ragione. Amò la bizzarria, e la
singolarità, e questa lo portò a distinguersi anche nel nome,
avendo cambiato quello del Battesimo nell’altro di Giano Planco per non
andare confuso con altri, che del suo tempo gli erano sinonimi. Fu allegro, e
vivace nella brigata, e soverchiamente amico del ridere. Il suo scherzo
spizzicava talvolta di sarcasmo, e d’insulto. Spargeva la critica anche
sù quelle cose, che non la meritavano, e cercava anche il nodo nel
giunco per compiacere questa sua non plausibile inclinazione. Ma non sempre fu
per questo conto dalla parte del torto: avea egli troppe cognizioni per
scuoprire gli altrui veri difetti. La colera talvolta lo trasportava, ma non
tardava molto a rasserenarsi. Era violento contro i suoi avversari, ed
affrontava intrepidamente gli offensori; ma era subito disarmato, e dimenticava
ogni ingiuria, se avea un picciolo compenso di officiosità. Castigava
col disprezzo pur anche alcuni di que’ critici più abbietti, che
insorgevano sovente contro di lui, e soleva porre tutte le satire contro di lui
stampate in un sol mazzo, sù cui era segnato improborum hominum
inanes conatus[61]. [...]
Godette però, in mezzo a questi insulti, della stima, e
dell’amicizia de’ più celebri letterati del suo tempo, tanto
Italiani, quanto esteri. [...] Questi onori solleticavano moltissimo il suo
amor proprio, ed era portatissimo alla lode, che gli era tributata dagli altri,
e che si compartiva tanto volentieri anche da sé stesso. Era però
scarso lodatore degli altri, e di quelli in ispecie, che non fossero stati di
qualche suo partito, per quanto poi fosse stato grande il loro merito.
Difficilmente egli si ricredeva su d’alcune sue opinioni; ma poi era
anche sovente inconstante nel sostenere, o riprovare un qualch’altro
assunto impegno, o sentimento. In somma egli fu un uomo vario e stravagante,
onde e nel bene e nel male troppo si distingueva fra gli altri. Ma in mezzo a
tante stranezze egli aveva le sode massime di religione, i buoni teoremi della
morale, le cortesie della società, la schiettezza del suo presentaneo
sentimento, l’onoratezza del procedere, l’inclinazione al
beneficare, e lo spirito di carità verso i poveri. [...] Ecco il
carattere, e la pittura veridica d’un uomo, che in mezzo ai naturali
difetti di un fervido temperamento ha avuto il dono del più sublime
ingegno, per cui ha potuto far epoca nella Storia naturale, e nella Notomia, e
fare l’ornamento di Rimino, dell’Italia, e di tutta la letteraria
Repubblica. Io ho perduto il Precettore, e l’Amico [...]».
L’elogio inviato a
Bertòla è del 3 gennaio 1776. Il 9 dicembre 1775 (Planco era
scomparso il giorno 3 dello stesso mese), Amaduzzi scrivendo al nipote di
Bianchi, dottor Girolamo[62],
dichiarava del di lui zio: «Io non mi crederò mai dispensato
dall’obbligo di rimostrargli anche dopo morte in tutte le occasioni la
mia riconoscenza, e la mia venerazione». Riconoscenza e venerazione
appaiono più espressioni intellettuali e morali che semplice
atteggiamento sentimentale. I due termini ci portano a valutare come basilare
nell’esperienza di Amaduzzi sia l’iniziale frequentazione della
scuola planchiana, sia il successivo, ininterrotto magistero che
continuò da parte di Bianchi per mezzo epistolare o negli incontri
personali[63]. Già
nel 1768 in una lettera diretta allo stesso Planco, e pubblicata nella Miscellanea
di varia Letteratura di Lucca[64],
Amaduzzi ha ricordato «humanitas», «comitas», e
«benevolentia» dimostrategli dal maestro. Nel 1770 ha confidato a
Bianchi di restare affezionatissimo a lui, che dimostrava animo «cortese,
ed amorevole» verso la sua persona[65].
Gli anni trascorsi nella
scuola riminese proiettano una loro nitida luce in quelli successivi della vita
d’Amaduzzi; contribuiscono cioè a rafforzare la sua
capacità intellettuale, fornendole (fortunatamente) anche quegli
anticorpi con cui reagire agli aspetti meno convincenti di un insegnamento che,
se in taluni momenti piegò verso il dogmatismo dell’erudizione
«oratoria o all’antica»[66],
in molti altri invece ebbe come prima caratteristica l’invito alla
curiosità, all’aggiornamento, al commercio epistolare ed
intellettuale, secondo i canoni di quella parte della società
settecentesca che tendeva più al rinnovamento che alla conservazione.
Amaduzzi in età
matura compie un ripensamento dell’educazione ricevuta, sviluppando gli
strumenti che aveva appreso alla scuola planchiana. Egli non vuole stilare un
onesto ed imparziale bilancio di lati positivi e negativi d’una
personalità vivace, contradditoria ed anche inquieta come fu quella di
Planco. Cerca piuttosto di rintracciare il sottile filo dialettico esistente
nella trama di ogni proficua pedagogia, sul quale misurare se stesso. In
Amaduzzi, come in altri suoi contemporanei, opera il convincimento che
l’esperienza individuale e la storia collettiva siano un processo
attraverso cui le novità maturano con la riflessione sulle idee
ricevute, e con il loro superamento. Così, ci si obbliga a rimeditare
daccapo ogni aspetto della vita, della conoscenza scientifica, della politica,
del pensiero. Così, si mira ad un mutamento rispetto allo status quo, con quel desiderio che gli
intellettuali nati attorno alla metà del Settecento assorbono dallo
spirito del tempo e dagli umori della nuova cultura.
Della differenza culturale
che passa fra la generazione di Amaduzzi e quella di Bianchi, ci rendiamo conto
esaminando i sette compiti, finora inediti[67],
assegnati da Planco e svolti dal savignanese alla sua scuola: essi sono una
preziosa testimonianza dell’attività didattica che vi si svolgeva
quotidianamente. I loro argomenti sono relativi alla Filosofia e alla Scienza,
e propongono questi argomenti: l’impossibilità di difendere il
sistema tolemaico; la funzione della logica artificiale come propedeutica alle
altre Scienze; la forza elettrica; gli spiriti degli animali bruti; la sede nel
cervello degli affetti dell’animo; i nervi dell’udito; la
digestione.
Gli enunciati proposti da
Planco ai suoi studenti, confrontati con i temi affrontati negli stessi anni su
periodici e libri scientifici, dimostrano che il medico riminese era su
posizioni incerte ed arretrate. Costringere, ad esempio, gli allievi a spiegare
che il sistema tolemaico non poteva essere difeso «nulla ratione»,
ad oltre due secoli dall’opera di Copernico, significava discutere di
argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza percorreva (seppur con fatica, in
tortuose corse ad ostacoli) le strade d’Europa. Planco sembra riproporre
ai suoi allievi gli stessi argomenti da lui studiati quand’era giovane,
prima a Rimini e poi a Bologna (1717-1719). Nella terminologia usata in quegli
enunciati, ci sono talora ricordi cartesiani, come là dove si parla di
«spiriti animali» (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso
sul metodo).
Altri argomenti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in direzione
opposta, negando le tesi di Descartes. In sostanza, Bianchi vi si dimostra
più come un vecchio umanista che un nuovo filosofo dell’età
dei Lumi.
All’esperienza vissuta nel liceo di Bianchi, si
può collegare un passo del terzo discorso, quello intitolato Dell’indole
della Verità, e delle Opinioni, dove Amaduzzi polemizza con
l’antico maestro, quasi a volere insinuare che Planco nulla avesse
compreso delle teorie di Newton[68].
Amaduzzi colpisce nel segno, segnalando un metodo filosofico non troppo
rigoroso, già sottolineato nell’articolo commemorativo dell’Antologia
romana.
Vent’anni prima, nel 1766, un altro solenne
rimprovero era giunto a Planco da Pietro Verri il quale, a proposito di un
scritto del medico riminese contro l’inoculazione del vaiolo, aveva
osservato che «al fondamento delle opposizioni del signor dottor Bianchi
è questo ch’ei chiama effatum philosophicum, cioè che quidquid
recipitur, ad modum recipientis recipitur»[69].
L’«effatum philosophicum» (o enunciato filosofico), di cui
parla Planco, trasferisce nel campo medico una concezione già di per
sé opinabile in quello gnoseologico; e rimanda a teorie messe in ombra
dalle nuove idee del sensismo alla Condillac, con le quali si rovescia
l’impostazione presente in Bianchi, sostenendo che «l’uomo
è soltanto ciò che ha acquisito», e non che le cose sono
ciò che l’uomo conosce di esse[70].
Usando, per un fenomeno riguardante la Medicina, un tipo d’indagine che
su di essa non può operare perché non ricorre alla metodologia
idonea alla materia sulla quale interviene, Bianchi commette un errore
epistemologico che rispecchia l’esperienza culturale del primo Settecento[71],
e che ci è confermato in una sua lettera indirizzata a Giovanni Lami[72],
dove Bianchi inserisce «la quistione dell’innoculazione» tra
le «cose letterarie» da discutere, magari nel «miglior
latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli
[...] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori
dell’innoculazione, giacché tutti costoro non sono filosofi e meno
medici, ma sono sfaccendati [...]». Planco tuttavia, e lo apprendiamo
proprio da Amaduzzi, cede «in appresso all’evidenza del buon
esito» dell’innesto del vaiolo, «con quel candore, e
coraggio, che suole ispirare l’amore della verità nei cuori degli
uomini grandi»[73].
Anche quest’intervento a difesa di Bianchi, se da un
canto dimostra altrettanto amore per la verità nel comportamento del
savignanese, dall’altro testimonia un affetto (onesto e non di
convenienza) verso quel «chiarissimo, e benemerito Precettore, per la cui
istituzione, ed addottrinamento io son divenuto non affatto indegno»
della nomina a sopraintendente della Stamperia di Propaganda Fide»[74]:
così Amaduzzi scrive a Bianchi il 10 febbraio 1770, quando la sua
carriera pubblica ha (come si è già visto, grazie
all’antico maestro ed a papa Ganganelli), una nuova promozione dopo che
era stato fatto l’anno precedente Lettore di Greco alla Sapienza.
Nella Roma di Clemente XIII (1758-1769), Amaduzzi non
aveva avuta vita facile, a causa delle proprie idee politiche e religiose.
Quando partì per Roma nel maggio 1762, Bianchi gli raccomandò di
prender contatto con mons. Giovanni Bottari, considerato il capo degli
antigesuiti. L’allievo ascoltò il maestro. I rapporti fra Amaduzzi
e Bottari furono frequenti e cordiali. In casa Bottari, era spesso ospite mons.
Scipione de’ Ricci che nel 1780 fu nominato vescovo di Prato e Pistoia:
con lui, Amaduzzi entrò in una fitta corrispondenza[75].
Agli occhi di molti, lo rendevano sospetto i rapporti che Amaduzzi intratteneva
con questi ecclesiastici accusati di essere Giansenisti[76].
La propensione da lui dimostrata verso i cambiamenti politici che in Francia
erano sostenuti dagli scrittori illuministi, ne faceva un personaggio
pericoloso. Lo accusarono infatti di essere indifferente ed eretico in materia
di Religione.
Planco, che era stato ex allievo
irrequieto (e fuggiasco) della Compagnia di Gesù al Collegio di Rimini,
nel suo insegnamento privato si era fermamente dimostrato avverso ai
«Loyolisti»: «nimico sempre del Probabilismo», lo
definisce infatti Giovenardi[77].
Anche se Bianchi non approfondì mai i temi della nuova corrente
teologica ispirata al teologo olandese Cornelio Janses (1585-1638), il suo
atteggiamento contrario ai seguaci di sant’Ignazio sembra aver lasciato
un segno sul giovane Amaduzzi e sulle sue scelte dell’età matura.
Quando papa Ganganelli soppresse
l'ordine dei Gesuiti il 21 luglio 1773, Amaduzzi fu considerato l'ispiratore
della «bolla» Dominus, ac Redemptor con cui il provvedimento fu sancito[78].
Ne scrisse entusiasta a Bianchi: «Finalmente si comincia a veder
chiaro». A Rimini, gli rispose Planco, i Loyolisti hanno più
proprietà che in ogni altro luogo della Romagna, perché i suoi
abitanti «non hanno voluto esser meno sciocchi degli altri»[79].
[1] Cfr. G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di
W. Binni, II, Firenze 1969, Zibaldone, n. 265, 6
ottobre 1820, p. 112. Il nome di Amaduzzi appare nell’Epistolario leopardiano
(a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino 1998, ad indicem), per i
suoi Anedocta litteraria (voll. I-IV, Roma 1773-80), per i quali il
recanatese nel 1824 chiede notizie, su richiesta di B. G. Niebhur di Bonn, a
Giuseppe Melchiorri, figlio di Ferdinanda Leopardi, sorella del conte Monaldo.
[2] Cfr. C. Colaiacono, Dall’uomo di
lettere al letterato borghese, «Letteratura italiana, II, Produzione
e consumo», Torino 1983, pp. 381-382: alla stessa categoria di
«possidenti molto impoveriti» appartenevano anche le famiglie di
Gioseff’Antonio Aldini (1729-98) e di Pasquale Amati (1726-96), entrambi
allievi di Bianchi (cfr. A. Fabi, Aurelio
Bertòla e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli
Studi Romagnoli», n. 6, Faenza 1972, p. 10, nota 19).
[3] Cfr. Elogio
dell’abate Gio. Cristofano Amaduzzi [...] scritto dall’abate don
Isidoro Bianchi, p. 5. Il testo fu dapprima recitato dall’autore a
Mantova il 29 novembre 1793, e poi stampato a Pavia l’anno successivo. Il
camaldolese I. Bianchi (1731-1808) dovette avvertire una certa sintonia con il
pensiero filosofico amaduzziano, se pubblicò una dissertazione (Delle
scienze e belle arti, Palermo 1771), «in cui dietro
l’apparente critica a Rousseau, trovava modo di presentare le moderne
teorie illuministe»: cfr. C. Costa,
ad vocem, «Letteratura italiana. Dizionario bio-bibliografico e
indici, I, A-G», Torino 1990. Sui rapporti fra I. Bianchi ed Amaduzzi,
cfr. F. Venturi, Settecento
riformatore, 5. 1. L’Italia dei Lumi (1764-1790), Torino
1987, pp. 682-689.
[4] Debbo alla
cortesia di Carla Mazzotti, già appassionata vice-bibliotecaria presso
l’Accademia dei Filopatridi, queste notizie reperite in anni lontani
presso l’archivio parrocchiale di Santa Lucia, Registro dei
Battezzati, IX, c. 89.
[5] Cfr. A. Montanari, Antonio Bianchi scrittore in A. Bianchi, Storia di Rimino dalle
origini al 1832, Rimini 1997, p. LVII; e D. Mazzotti, Rubiconia Accademia dei Filopatridi. Note
storiche e biografiche, Santarcangelo di R. 1975, p. 34.
[6] Pasquale
Amati, in un suo scritto, ricorderà assieme P. Borghesi e G. C. Amaduzzi
come uomini famosi e suoi amici: cfr. nel cit. Antonio Bianchi scrittore, p. LVI,
nota 73.
[7] Cfr. il
cit. Elogio dell’abate G. C. Amaduzzi, p. 51, nota 9.
[8] Su queste
lettere cfr. A. Montanari, Lumi
di Romagna, II ed., Rimini 19932, cap. 11. «Monsieur
l’Abbé, carissimo Fratello», pp. 103-106.
[9] Lettera del
6 febbraio 1771. Ora essa è riprodotta a p. 209 di G. C. Amaduzzi, Lettere familiari, a cura di
G. Donati, «Collana del
Centro Studi Amaduzziani, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, II»,
Viserba di Rimini 2001. Questa lettera è scritta poco prima del decesso
di Giovanni Francesco Antonio, della cui morte si parla nella successiva
missiva (ibid.) del 9 febbraio 1771, ove pure leggiamo (p. 211):
«[...] vi prego a voler strappare tutte le mie lettere scritte al Zio
medesimo qualora v’incontrerete in esse, giacché in alcune di
queste vi sarà qualche mia stramberia scritta in tempo delle maggiori
mie angustie, le quali cose non è bene che esistino».
[10] «Il
cielo, che veglia al destino delli uomini grandi, volle che Cristofano alla
età delle debolezze e dei piaceri fosse sol divorato dall’amor del
sapere. Questo fu il fuoco secreto, che incominciò a divorarlo sino da
suoi più teneri anni, fuoco che essendosi ben conosciuto
dall’accorto suo genitore, e massimamente da un ottimo suo zio, che
reggeva in Patria una Chiesa, questi non lasciò intentato alcun mezzo di
promoverlo, e di fomentarlo»: cfr. il cit. Elogio dell’abate G.
C. Amaduzzi, pp. 6-7.
[11] Ibid., pp. 8-9.
[12] Cfr. C. Tonini, Storia di Rimini, VI, II,
Rimini 1887-88, ed. an. Rimini 1995, p. 732.
[13]
Anch’egli, come si vedrà nella nota 17, fu tra gli allievi di
Planco. Amaduzzi fu in ottimi rapporti con Garampi: «Quest’ottimo
Porporato mi ha fatto quasi da infermiere in questa mia malattia, colmandomi di
mille bontà, ed attenzioni», scrive al poeta Aurelio
Bertòla il 5 aprile 1786 (Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta
Riminese, Amaduzzi G. C. [FGMR, AGC], Biblioteca Gambalunghiana di
Rimini [BGR]).
[14] Cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e
scientifica in Rimini, Rimini, Albertini 1884, ed. an. Rimini,
1988, a cura di P. Delbianco, II,
pp. 324-25, e p. 344 (Mussoni è «annoverato fra i buoni
indirizzatori agli studi di quella divinissima delle umani arti»).
[15] Ibid., p. 489.
Assieme ad Amaduzzi, scrive Tonini,
Marini «diede opera alle umane lettere sotto la disciplina del
Mussoni».
[16] Il testo
è intitolato Recapiti del dottore Giovanni Bianchi di Rimino. La parola
«recapito» ha il significato di considerazione, reputazione, stima.
Sulla paternità dei Recapiti, cfr. Novelle
letterarie di Firenze, tomo XIX, n. 30, 28 luglio 1758, col. 480.
[17] Da tale
«catalogo» riporto solamente i singoli nominativi, mettendoli in
ordine alfabetico e numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso inserita
da Planco, e segnalo con (*) i dieci medici presenti nell’elenco: 1.
Baldini Giuseppe (*); 2. Barbari Innocenzo; 3. Barbette Gregorio (*); 4.
Bartoli Giuseppe; 5. Battaglini Andrea; 6. Battarra Giannantonio; 7. Bentivegni
Girolamo; 8. Bentivoglio Davìa Laura; 9. Bonelli Innocenzo; 10. Bonioli
Antonio; 11. Brunelli Giambattista (*); 12. Bufferli Pier Crisologo (*); 13.
Buonamici Niccola; 14. Cella Giovan Maria; 15. Cenni Lucantonio; 16. Colonna
Daniello (*); 17. Draghi Paolo Andrea (*); 18. Fabbri Francesco; 19. Fabbri
Giovanni; 20. Fosselli Mauro; 21. Galli Celestino; 22. Galli Stefano; 23.
Garampi Giuseppe; 24. Ghigi Pietro; 25. Giovenardi Gianpaolo; 26. Giovenardi
Mattia; 27. Godenti Pietro; 28. Graziosi Ubaldo; 29. Lapi Pier Paolo; 30. Legni
Francesco (*); 31. Marcaccini Francesco; 32. Massa Niccolò; 33. Mastini
Severino; 34. Mussoni Pietro; 35. Pasini Francesco Maria; 36. Pecci Carlo; 37.
Piceni Giuliano; 38. Pizzi Gian Carlo (*); 39. Righini Cassiano (*); 40.
Santini Lorenzo Anton (*); 41. Serpieri Giulio Cesare; 42. Torri Cesare; 43.
Vitali Giuseppe; 44. Zampanelli Marino. Degli studenti planchiani presenti nel
1751, possediamo pure un altro elenco: v. alla nota 24.
[18] Cfr. la sua
Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi, Venezia
1777, p. XXX. Qui si ricorda anche
don Pietro Mussoni, «successor del Brunori per le Belle Lettere in questo
Seminario».
[19] Amaduzzi
raccoglierà molti opuscoli che trattano di Medicina (Biblioteca Amaduzziana,
Accademia dei Filopatridi [BFSA]). Sull’attività di Bianchi come
medico e sulla sua produzione scientifica, rimando al saggio curato da Stefano
De Carolis in questo stesso volume.
[20] Cfr. G. C. Amaduzzi, Elogio di Monsig. Giovanni
Bianchi di Rimino, apparso anonimo sull’Antologia romana, tomo II,
1776, pp. 227-229, 235-239. (Il titolo di monsignore spettava a Bianchi quale
archiatro segreto onorario pontificio.) Nell’esemplare personale in BFSA,
Amaduzzi appose, in fondo alla prima parte, la firma autografa col solo
cognome. In C. Casanova, Note
sulla cultura a Ravenna nel Settecento, estratto degli
«Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna.
Classe di Scienze Morali. Anno 73. Rendiconti. Vol. LXVII, 1978-1979»,
Bologna 1979, al cap. 2., «Giovanni Cristofano Amaduzzi. Un allievo della
scuola riminese di Giovanni Bianchi a Roma», si legge (p. 12) che
«il rilievo che molti degli scolari di Giovanni Bianchi assunsero nella
seconda metà del ’700 [...] conferma la necessità di uno
studio approfondito sull’ambiente riminese, in gran parte ancora da fare,
che consentirebbe di motivare meglio una valutazione della cultura locale
altrimenti generica e approssimativa».
[21] Cfr. Giovenardi, op. cit., p. XXVII.
Giovenardi si adopera, alla morte di Planco, per la riapertura della sua scuola
privata, assieme al di lui nipote, dottor Girolamo Bianchi, e a don Filippo
Zambelli: cfr. la lettera di G. P. Giovenardi a Girolamo Bianchi del 14
dicembre 1775, con allegati il testo ms. di un volantino e la relativa edizione
a stampa (FGMR, BGR, Giovenardi, don G.). Il volantino,
diretto «a’ Studiosi Giovani Riminesi, ed amanti della soda
letteratura», annunciava l’apertura di una «pubblica Scuola
di Medicina, e lingua Greca» dotata dell’«ereditata
sceltissima, e copiosissima Libreria in ogni genere di Scibile», e con
«il comodo di potere fare le sezioni Anatomiche in
quest’Ospedale», di cui Girolamo Bianchi era medico. (Nel 1779
Girolamo Bianchi sposa la vedova Bonadrata: «Vedete che miserie di nuove
dà la città dell’Arco e del Ponte», scrive Amaduzzi a
Bertòla il 7 settembre dello stesso 1779, Fondo Piancastelli,
Biblioteca Saffi di Forlì, n. 8.323.)
[22] Cfr. Novelle
letterarie, tomo VIII, n. 41, 13 ottobre 1747, col. 652: è la
recensione ad un trattato sui fulmini di S. Maffei, nella quale è citato
Bianchi che «ad una perfetta cognizione delle cose della Natura accoppia
una vasta intelligenza di lingue erudite, e una piena notizia di tutte le cose
di antichità».
[23] Da una
lettera di Stefano Galli a Bianchi si ricava che una serie di notizie sulla
Medicina era materia comune per tutti gli allievi della scuola planchiana
(«di medicina non ne mostro per niente, e ne ho solo qualche idea per
quello che ho sentito dire da lei, quando avevo l’onore ed il vantaggio
d’esserLe scolaro», Roma 6 aprile 1754, Fondo Gambetti, Lettere
autografe al dottor G. Bianchi [FGLB], ad vocem, BGR). Sulla
figura di Stefano Galli, cfr. A. Montanari,
Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria
Gambalunga». Documenti inediti, «Romagna, arte
e storia», n. 49/1997, pp. 57-74. Bianchi definisce Galli «uomo
erudito specialmente nelle lingue de’ dotti, Greca e Latina»: cfr. Novelle
letterarie, tomo X, n. 29, 18 luglio 1749, col. 461.
[24] Cfr. nei
citt. Recapiti, p. IV. I nomi dei venticique allievi presenti nel 1751
sono in un foglio ms. di Bianchi (cfr. Fondo Gambetti, Miscellanea
Manoscritta Riminese, Bianchi, G. [FGMB], fasc. 310).
Sedici frequentano le lezioni di Logica, tre di Greco e sei di Medicina. Ecco i
loro nomi (da noi ordinati in ordine alfabetico): 1. Aldini Gioseffanton
(Cesena, Logica); 2. Almeri Michele (Rimini, Logica); 3. Baldini, dottore in
teologia (abate, Rimini, Greco); 4. Bartolucci Antonio («cirusico del
Pubblico», Rimini, Medicina); 5. Bedinelli Francesco Paolo (Pesaro,
Medicina); 6. Brunelli Cesare (Rimini, Logica); 7. Brunelli dottor Giambattista
(Rimini, Medicina, già cit. in Recapiti); 8. Fabbri Luigi
(abate, Rimini, Greco); 9. Ferri (abate, Montescudo, Logica); 10. Franciolini
Curio (Iesi, Logica); 11. Gaspari (abate, Montescudo, Logica); 12. Genghini
Giuseppe (Rimini, Logica); 13. Gervasi, padre («maestro di studi
agostiniano di Napoli», Greco); 14. Gori (abate, Santarcangelo, Logica);
15. Graziosi ([Ubaldo, già cit. in Recapiti], abate,
Montescudo, Logica); 16. Maltagliati Gaetano (Rimini, Medicina); 17. Melli
Paolo (abate, Rimini, Medicina); 18. Menghi (abate, Santarcangelo, Logica); 19.
Morelli (abate, Rimini, Logica); 20. Preti (abate, S. Giovanni in Marignano,
Logica); 21. Tassini Andrea (abate, Pesaro, Logica); 22. Tononi (abate,
Coriano, Logica); 23. Vasconi Girolamo (abate, Coriano, Medicina); 24. Zangari
Giovanni (Rimini, Logica); 25. Zavagli Antonio (Rimini, Logica). Circa la loro
provenienza geografica, tredici sono di Rimini, uno di Iesi, due di Santarcangelo
di Romagna, tre di Montescudo, due di Coriano, uno di San Giovanni in
Marignano, due di Pesaro ed uno di Cesena. Il documento reca in IV ed ultima
facciata: «1751. Prehensationes Inutiles Pro Cathedra Logicae».
Esso rimanda a quando Bianchi fu proposto, ma non nominato, «Lettore
pubblico di Logica» a Rimini, perché non rispondeva ai requisiti
richiesti dalle disposizioni testamentarie che finanziavano quella Cattedra,
cioè «non era prete». La scelta cadde su G. A. Battarra (su
cui v. alla nota 39).
[25] Come ho scritto in Due
maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a
Giovanni Bianchi (Iano Planco), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp.
195-208, il cit. G. P. Giovenardi parla di «quelli della nostra
setta», mentre L. Cenni cita i «Bianchisti» (p. 195, nota 2). Da fuori, si accusa questa
«Scuola di Rimino» di segnare le proprie pagine con «velenoso
inchiostro», «quando per essa vuolsi a qualchuno stringer adosso il
giubbone, o quando si pretende avilirlo» (p. 195, nota 3). Su G. Bianchi,
cfr. questi miei altri lavori: La Spetiaria del Sole, Iano Planco giovane
tra debiti e buffonerie, Raffaelli, Rimini 1994; Giovanni Bianchi (Iano Planco)
studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi
Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; «Lamore al studio
et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini
commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia
n. 2», Rimini 1995.
[26] Circa
l’importanza europea di questo testo, cfr. Novelle letterarie, tomo IV,
n. 15, 12 aprile 1743, col. 229: qui leggiamo che Bianchi, per le sue scoperte
in questo campo, venne definito «Linceo» da Gian Filippo Breynio,
professore di Storia Naturale in Danzica.
[27] Nel
«catalogo degli scolari» (v. nota 17), Bianchi avverte di
tralasciare «di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che
si distinguono»: tra questi c’era anche il riminese Francesco Maria
Pasini (1720-1773), futuro vescovo di Todi ed educatore di Aurelio
Bertòla (1753-1798).
[28] Cfr. G. Bianchi, Minute di lettere dal 1739
al 1745, MS-SC. 969, BGR.
[29] Cfr. tomo
I, pp. 353-407.
[30] Cfr. A. Montanari, Modelli letterari
dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775),
«Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299. Il fondamentale
(e segreto) significato di quel testo, non è mai stato ovviamente colto
dai suoi numerosi, saccenti (e non disinteressati) avversari. Costoro seppero
soltanto accusare Bianchi in modo fin troppo facile, di millanterie da doctor
gloriosus, da medico vantone, per quanto egli vi narra.
[31] Una storia
completa dei Lincei planchiani è nella mia comunicazione, di prossima
pubblicazione, svolta al Convegno forlivese (maggio 2000) su Le Accademie in
Romagna dal ’600 al ’900, organizzato dalla
Società di Studi Romagnoli, ed intitolata Tra erudizione e nuova
scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745). Il testo
è parzialmente anticipato in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari>,
novembre 2000, <http://digilander.libero.it/monari/lincei/lincei.00.html>
[32] Cfr. A. Montanari L’anello di Galileo.
E’ di Iano Planco la prima storia a stampa dei Lincei, «Il
Ponte», Settimanale cattolico riminese, XXVII (2002), 25, p. 17: questa
«Lynceorum Notitia» è premessa alla ristampa del Fitobasano di F. Colonna pubblicato a Firenze nel 1744, a
cura dello stesso Bianchi. (Cfr. pure P. Delbianco,
scheda su Colonna, F., Phytobasanos, in Le Belle Forme della Natura. La
pittura di Bartolomeo Bimbi (1648-1730) tra scienza e ‘maraviglia’, Modena,
Abacus, 2001, pp. 146-147.)
[33] Cfr. Id, Nei «ripostigli della buona
Filosofia». Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella
Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia»,
64/2002, pp. 35-54.
[34] Planco
s’avventura in un terreno pericoloso. Con elegante sottigliezza, rimette
in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli
«istrioni», che in Francia erano ancora privati dalle leggi
canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica
Sepoltura». E cita san Tommaso, il quale ritiene che
«l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è
ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che
l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno
di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro
fatiche». Bianchi si domanda: se la Chiesa permette la lettura delle
commedie di Plauto e Terenzio, non si dovrebbe permettere anche la loro
rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami»
quei comici che «le rappresentano venalmente», mentre
«diventano onesti quei che le rappresentano gratis»?
[35] Di A.
Cavallucci e di C. Vizzani, oltre che in Tra erudizione e nuova scienza, cit., mi
occupo nella comunicazione tenuta al Convegno degli «Studi
Romagnoli» del 2001, di prossima pubblicazione, intitolata «Contro
il volere del padre». Diamante Garampi, il suo matrimonio, ed altre
vicende riguardanti la condizione femminile nel secolo XVIII.
[36] Nel cit. Tonini, La coltura letteraria, II, p.
219, si legge che Ganganelli, nato nel 1705, si trattenne a Rimini
«secondo alcuni» sino al diciottesimo anno, cioè sino al
1723 circa: la scuola di Bianchi, come s’è detto, inizia nel 1720.
Tonini riporta (pp. 220-221) una
missiva inviata da Ganganelli il 30 settembre 1759 (dopo la sua nomina a
Cardinale), a Bianchi, che cito però dall’ed. veneziana del
tipografo Garbo (Lettere interessanti, 1778, pp. 115-116):
«Ora conosco, che voi avevate ragione a sgridarmi, quando io non voleva
studiare; adesso vi ringrazierei di quanto allora faceste per me [...]».
Il 7 giugno 1758 (ibid., p. 112) a Planco, Ganganelli aveva
ricordato con «affetto» la città di Rimini («sono uno
de’ suoi abitanti»), mentre il 15 settembre 1763 gli scrive:
«non passa forestiere a Rimini, che non chiegga di vedere il Dottor
Bianchi, e che non abbia il vostro nome registrato nel suo taccuino» (ibid., p. 119).
In altre edd. delle Lettere interessanti, al posto della parola
«taccuino», leggiamo: «con delle carte» (Losanna 1777,
III tomo, p. 125), oppure «tra i suoi ricordi» (Firenze 1829, II
tomo, p. 146).
[37] Cfr. G. Bianchi, Viaggi 1740-1774 (o Libri
Odeporici), SC-MS. 973, BGR,
c. 569v, 25 settembre 1769.
[38] Cfr.
lettera del 3 gennaio 1776 (copia autografa con annotazione di diversa mano del
destinatario, FGMR, AGC), in memoriam di Iano Planco:
«Perfine furono coronati gli ultimi anni della sua gloriosa vita dalla
bella considerazione, che a mia petizione a lui del tutto incognita, si
compiacque a fare della sua virtù, e della sua celebrità
l’immortale Clemente XIV, la di cui memoria desterà sempre nel mio
cuore la più tenera sensibilità, e la più alta ammirazione
nella mente. Egli il dichiarò uno de’ custodi della sua salute,
onde per Archiatro segreto onorario Pontificio fu indi riconosciuto, ed in tale
occasione interpose pure quel gran Pontefice l’autorevole, e generosa sua
mediazione perché la Patria il consueto onorario gli perpetuasse, ed
insieme glielo duplicasse, come infatti seguì».
[39] Cfr. tomo
VII, coll. 21-27 e 37-41. Questo «compendio dei pregi d’un tanto
letterato», si dice comunicato «da uno dei migliori suoi
Allievi». Circa la paternità dell’articolo, essa fu
erroneamente attribuita ad Amaduzzi medesimo («che per qualche tempo fu
discepolo del nostro Monsignore», col. 25): cfr. I. Bianchi, Elogio dell’abate G.
C. Amaduzzi, cit., p. 59, nota 14. Amaduzzi scrive ad Anna Tommasi Sernini
il 3 febbraio 1776: «L’Elogio di Giano Planco, lodato da voi, ha
ora un pregio, di cui mancava. Quello, che fu ultimamente inserito nelle
Novelle Fiorentine, non è mio, e perciò servirà ad escludere
quello, che io avea già mandato, forse non tanto melenso, quanto
è quello già stampato» (Manoscritti n. 24,
BFSA). Secondo Amaduzzi, l’Elogio di Planco poteva
invece essere attribuito a G. A. Battarra (1714-1789, ex allievo e
collaboratore di Planco, nonché naturalista) o forse ad «un tal
Drudi, medico che studia ora a Firenze» (cfr. Fabi, op. cit., p. 24: da lettera a
Bertòla). Lorenzo Drudi «fu un sapiente Medico, profondo filosofo,
libero Pensatore, e in ogni genere di letteratura assai erudito, e buon
critico, gran Bibliografo», nonché bibliotecario della
Gambalunghiana tra 1797 e 1818: cfr. G. Urbani,
Raccolta di Scrittori e Prelati Riminesi, SC-MS. 195, BGR, p.
265. (Planco, nel proprio testamento, aveva inserito Drudi nella terna di
autori tra cui scegliere l’incaricato per la sua orazione funebre,
assieme a don G. P. Giovenardi, che poi, come si è visto, la compose, ed
al dottor Cesare Torri di Jesi, altro ex alunno.)
[40] Cfr. Novelle letterarie, n. 30, 27
luglio 1770, coll. 471-474.
[41] Cfr. G. C. Amaduzzi, Manoscritti n. 33, c.
35, BFSA: questo documento è stato già presentato in A. Montanari, I compiti del giovane
Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Notiziario
dell’Accademia dei Filopatridi», 1993, nn. 3-4; e
«Riminilibri» n. 5, marzo 1994. Nella cit. lettera a
Bertòla del 3 gennaio 1776, Amaduzzi parla di «sei anni».
[42] Cfr. fasc.
75, FGMB.
[43] Forse alla
crisi dei Lincei, è legata l’accettazione da parte di Planco, nel
1756, della carica di principe dell’Accademia modenese dei Medici
Conghietturanti.
[44] Cfr. il
prologo alla dissertazione di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis
Corporis Humani, fasc. 219, FGMB.
[45] Si tratta
della prefazione a due sue epistole mediche.
[46] Il brano
appartiene alle pp. 4-5 del fasc. 75, FGMB.
[47] Si tratta
del già cit. Elogio di Monsig. G. Bianchi.
[48] Cfr. Lynceorum
Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR, c.
2r.
[49] Cfr. A. Montanari, «Giuseppe di
Prospero Zinanni», accademico dei Lincei planchiani,
«Ravenna studi e ricerche, Società di Studi ravennati»,
VIII/1-2, 2001, pp. 109-128.
[50] Cfr. Fabi, op. cit., p. 7. Il
testo di Bertòla apparve sulla Gazzetta Universale di Firenze,
n. 101, 19 dicembre 1775, pp. 807-808. A Bertòla lo scrittore riminese
F. Ferrari (nell’anonimo Giudizio
libero d’una lettera di giovinetto autore), fece osservare che
«se poco amico fu Planco di quella massima legge», non poteva
essere «giudizioso osservatore della Natura»: cfr. in Fabi, op. cit., p. 16,
nota 28. Bertòla fu difeso da A. M. Borgognini,
Riflessioni..., Lucca 1776, p. 9, che rincarò la dose contro lo
scienziato riminese: «In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con
giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non poté mai soggettare
il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli
esperimenti, poiché egli amava per carattere la varietà, quindi
ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal
Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per
rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era
questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o se pure voleva
seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con infelice
successo». Bertòla scrisse ad Amaduzzi il 26 dicembre 1775,
inviandogli «l’elogio di Planco vostro»: «Ho detto
delle verità alquanto dure. La vostra dolce e assai più umana
filosofia renderà a Planco quello che io gli ho potuto torre colla mia
forse soverchia schiettezza. [...] Ricordatevi che io ho qualche poco di
immaginazione poetica, e in conseguenza una buona dose di amabile
pazzia.» (Manoscritti n. 4, BFSA). Di Bertòla, Bianchi
il primo dicembre 1774 aveva scritto ad Amaduzzi che era un «Giovane di
molta abilità, e talento» (Manoscritti n. 5c, tomo
IV, BFSA)
[51] Il testo
è in G. Gasperoni, Settecento
italiano (Contributo alla storia della cultura), I. L’ab. Giovanni
Cristoforo Amaduzzi, Padova 1941, pp. 319-343. Il brano cit.
è alle pp. 325-326.
[52] Il brano
prosegue: «e mi trovai spesso anche nel caso di dover vendicare il
sistema Agostiniano per conto delle dottrine teologiche dai ben noti contrari
attacchi, giacché incerto della futura mia sorte, premuroso di non
mancare di un presidio, che una volta mi potesse essere necessario, e di cui ne
mancano tanti, che dovrebbero pur possederlo, e che nonostante giudicano su
queste materie, e giudicano coll’altrui sentimento, e mortificato sovente
di non comprendere tante clamorose questioni del secolo, che nella capitale
della religione specialmente si discutevano, riputai conveniente cosa
accingermi anche a que’ studi, quasi collo stato mio tuttora profano non
mi sono mai pentito d’aver congiunti».
[53] Si tratta
di questi testi: Sul fine ed utilità dell’Accademie (1776), La
Filosofia alleata della Religione (1778), e Dell’indole della
Verità, e delle Opinioni (1786). Nel saggio di M. Ceresa,
Una biblioteca nella Rivoluzione, «Due Papi per
Cesena. Pio VI e Pio VII nei documenti della Piancastelli e della
Malatestiana» (a cura di P. Errani), Bologna 1999, p. 216, si legge
che Pio VI possedeva «una sola opera, un opuscolo, di Giovanni Cristofano
Amaduzzi», secondo quanto emerge da un Catalogo conservato
nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Grazie alla cortesia dello stesso dottor
Massimo Ceresa, dell’Apostolica Vaticana medesima, ho potuto apprendere
che l’opuscolo cit. è il Discorso dell’indole della
Verità, e delle Opinioni.
[54] «Le
insinuazioni domestiche a serbare in ogni azione la verità e la
schiettezza, qual patrimonio di casa, e qual marca d’onore, trovarono la
più volontaria accettazione nel mio cuore quasi come loro sede»
(cfr. Rimostranza, nel cit. Gasperoni,
Settecento italiano, p. 325).
[55] Cfr. la
cit. lettera del 3 gennaio 1776.
[56] Come
anticipato alla nota 41, il periodo riminese di Amaduzzi è qui definito
di «sei anni», mentre di «sette anni» si parla alla c.
35 di Manoscritti n. 33.
[57] Nella cit.
cartella in FGMR, AGC, sono conservate dodici lettere (1775-1778) di Amaduzzi
al nipote di Planco, dottor Girolamo Bianchi: alcune contengono, come leggiamo
nella prima (9 dicembre 1775), la richiesta di ricercare tutte le sue missive
inviate allo zio «quasi ogni settimana cominciando dal Maggio dell’anno
1762» (quando lo stesso Amaduzzi si recò a Roma), «sino al
tempo presente». Nel FGLB, ad vocem, di questo immenso
carteggio, sono conservati soltanto diciotto esemplari, contro le 984 epistole
di Bianchi ad Amaduzzi custodite in BFSA: cfr. G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche
d’Italia, I, Forlì 1890, p. 104. (Il 17 giugno 1773
Amaduzzi inviò al maestro la «Benedizione in Articulo
Mortis», come Bianchi appuntò sopra l’indirizzo di quella
missiva, FGLB, ad vocem.)
[58] Cfr. G. Bianchi, Minute di lettere 1717-1770, SC-MS.
965, BGR, c. 101r: la missiva è monca, senza data (ma febbraio 1752), e
senza destinatario (un’«Eccellenza» che era il padre di
Giambattista, forse di Bologna). Analoga minuta, c. 102r, è una
raccomandazione diretta a persona di quella stessa città, dove Antonia
fu spedita da Planco dopo lo scoppio dello scandalo.
[59] Cfr. le
lettere di A. Cavallucci in FGLB, ad vocem.
[60] Cfr. A. Montanari, Per soldi, non per
passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia
nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna, arte e storia», n.
52/1998, pp. 45-60. Qui si parte dal caso di una giovane «di bassa
estrazione, e maggiormente avvilita dall’esercizio di Cantastorie sopra
un pubblico teatro», che sposa un nobile riminese in «contravenzione
della legge sopra i Matrimonj disuguali» (p. 46).
[61] Segue un
elenco dei «principali suoi critici».
[62] Si tratta
della lettera del 9 dicembre 1775 già cit. alla nota 57.
[63] Nel 1766
Bianchi compiendo un tour a Loreto, Assisi, Perugia, Todi, Napoli,
Siena, Firenze e Bologna, si fermò a Roma dove conobbe l’abate
Johann Joachim Winckelman, come Amaduzzi ricorda l’anno successivo nelle Novelle letterarie (cfr. tomo
XXVIII, n. 34, 21 agosto 1767, coll. 531-534: Amaduzzi dal 1766 è
assiduo collaboratore del foglio fiorentino, seguendo l’esempio del
maestro). Su questo soggiorno romano di Planco, cfr i suoi citt. Viaggi
1740-1774, ad annum; ed uno scritto amaduzziano di archeologia,
apparso in Miscellanea di varia Letteratura di Lucca, tomo VII,
1768 (p. 175).
[64] Cfr. il
cit. tomo VII, p. 129.
[65] Cfr.
lettera del 21 febbraio 1770, FGLB.
[66] Cfr. E. Raimondi, I lumi
dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Milano
1989, cap. «Ragione ed erudizione
nell’opera di Muratori», pp. 79-97 (ripubblicato in Id., I sentieri del lettore, ii, Dal Seicento all'Ottocento, Bologna
1994, pp. 133-150). Raimondi, sulla scia di L. A. Muratori, contrappone ad
un’erudizione «oratoria o all’antica», quella «di
gusto moderno, sul tipo scientifico, [...] legata allo spirito critico e nutrita
di ragione moderna».
[67] Della loro
esistenza ho dato per primo notizia nel 1992 nel cit. volume Lumi di Romagna (p. 102,
nota 1). Conservati in BFSA, essi si riferiscono soltanto agli anni 1757-59.
[68] La cit.
è tolta da p. 51. Cfr. la mia Appendice all’ed. an. del
discorso amaduzziano La Filosofia alleata della Religione, Rimini
1993, pp. 58-59. (Su tale ed., cfr. la mia dissertazione nel Quaderno XVII
dell’Accademia dei Filopatridi, Savignano 1995, pp. 119-126.)
[69] Cfr. «Il
Caffè», 1764-1766, Torino 1998, p. 770.
[70] Secondo
Condillac, in quanto «cause fisiche», le
«qualità» esistono realmente «nei corpi», ma
esse danno soltanto «occasione alle impressioni che provocano sui nostri
sensi»»: cfr. G. Paganini,
L’io e le idee, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, a cura di
P. Rossi e C. A. Viano, Roma-Bari 1966, p. 248. Bianchi
è completamente al di fuori del dibattito su questo tema.
[71] Grazie
proprio a J. Locke (1632-1704) di cui parla Amaduzzi (soprattutto nel terzo discorso
filosofico), l’«Europa éclairée» conosce
quella che Sergio Moravia chiama la «liberalizzazione
epistemologica», la quale approda a molteplici opzioni metodologiche
grazie alla lezione dell’empirismo, che sostituisce «tutta una
serie di categorie o di strumenti di indagine con altri strumenti e
categorie»: cfr. S. Moravia,
Filosofia e scienze umane nell’età dei lumi, Milano
2000, p. 5. Sulla fortuna di Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da
parte di Amaduzzi, cfr. A. Montanari,
Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, ne
«Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura
di L. Morelli, Firenze 2000, pp.
XXVIII-XL.
[72] Cfr. B. Fadda, L’innesto del vaiolo, Milano
1983, p. 192-193.
[73] Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia
inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Il Ponte, Rimini 1998, p. 75, nota
85.
[74] La lettera
è nel cit. FGMR, AGC. Da altre due precedenti missive (29 novembre 1769
e 21 gennaio 1770), ricaviamo che Bianchi sperava di poter ripubblicare i suoi
testi presso la Stamperia di Propaganda Fide, grazie ai buoni uffici di
Amaduzzi.
[75] Cfr. il mio
cit. Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’
italiano; e M. Trincia Caffiero,
Cultura e religione nel Settecento italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e
Scipione de’ Ricci, «Rivista di Storia della Chiesa in
Italia», XXVIII, 1, Roma 1974, pp. 94-126; e XXX, 2, Roma 1976, pp.
405-437.
[76]
L’ingresso nella Stamperia di Propaganda Fide, avvenne contro il parere
del suo Prefetto, cardinal Giuseppe Maria Castelli (futuro Camerlengo del Sacro
Collegio), che riteneva Amaduzzi antigesuita. In base a tale opinione, Castelli
aveva già respinto un precedente intervento a favore del savignanese
fatto da papa Ganganelli.
[77] Cfr. la
cit. Orazion funerale, p. XXVIII. Nell’Arte comica Planco aveva
mostrato un atteggiamento opposto a quello manifestato in precedenza: difese
dagli attacchi dei Giansenisti la pedagogia dei Gesuiti, i quali usavano nei
loro collegi anche il palcoscenico per educare gli allievi. Ed agli
«schiamazzi de Giansenisti d’Italia» aveva attribuito
erroneamente la condanna all’Indice del suo trattatello:
cfr. il cit. mio saggio Tra erudizione e nuova scienza.
[78] Sulle
affinità tra il pensiero di Amaduzzi e quello di papa Ganganelli,
ricordo il passo di un’epistola che il futuro Clemente XIV scrisse nel
1757: «La filosofia è la base della vera Religione, essendo la
Fede appoggiata sulla ragione» (senza nome del destinatario, p. 165 della
cit. ed. veneziana delle Lettere interessanti).
[79] Cfr. nel
cit. Lumi di Romagna, il cap. 6. «L’insonnia di papa
Ganganelli», pp. 57-62.