Riministoria

Antonio Montanari

 

Giovanni Cristofano Amaduzzi

e la scuola di Iano Planco

 

 

«Gl’ingegni superiori», osservò Giacomo Leopardi, «non si servivano della istruzione che prendevano in diverse scuole, se non per iscegliere il meglio, o quello che credessero tale»[1]. La massima, così efficace nel riassumere il senso di ogni eccellente apprendistato intellettuale, può applicarsi anche alla formazione ricevuta da Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-1792) a Rimini, prima nel Seminario vescovile e poi alla scuola privata del medico, scienziato e poligrafo Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775).

Nel comportamento di Amaduzzi sin da fanciullo, la famiglia aveva avvertito che si trattava di uno di quegli «ingegni superiori» dei quali parla Leopardi, e di cui i parenti debbono avere il massimo rispetto, istradandoli verso un cammino che raccolga i frutti naturali della mente, e la sappia coltivare con un’educazione acconcia. Per raggiungere lo scopo, occorre perfezionare le conoscenze mediante un tirocinio che non dev’essere sofferenza, ma lo spontaneo realizzarsi d’una vocazione culturale. Questa, come nel nostro caso, nonostante l’avvio al Seminario, non coincide con quella religiosa che ben altre motivazioni d’interessi materiali imponevano a quell’ambiente provinciale e non ricco a cui Amaduzzi appartenne. La sua era infatti una famiglia di «possidenti molto impoveriti»[2], che sognava per lui una carriera ecclesiastica capace di fornire pane e companatico ad un giovane degno di non dedicarsi ad umili mestieri.

Egli venne alla luce la sera del 9 agosto 1740, nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie a Fiumicino. Molti biografi gli accorceranno la già breve vita, spostando in avanti di due anni la data di nascita, sulla scia del primo scritto in sua memoria, composto da Isidoro Bianchi[3]. Figlio di Michele e di Catterina Gasperoni, è tenuto a battesimo il giorno dopo nella chiesa di Santa Lucia di Savignano dal parroco don Giovanni Battista Mancini che funge pure da padrino, mentre la madrina è la moglie di Bartolomeo Borghesi, Silvia Antonia[4]. Non sfugge il significato simbolico della scelta delle due figure che accompagnano il neonato al sacramento. Il nobil huomo parroco Mancini, originario di Rimini, è una persona colta, dottore e Protonotario Apostolico, dal 1732 Pievano di San Giovanni in Compito e Savignano di Romagna, nonché presidente dell’Accademia degli Incolti[5], che precorre i Filopatridi. Segretario degli Incolti fu Pietro Borghesi[6] (1722-1794), figlio di Bartolomeo e della ricordata Silvia Antonia. Bartolomeo e Pietro Borghesi rappresentano la cultura antiquaria romagnola che acquista fama oltre gli àmbiti locali, e che caratterizza molta parte degli studi amaduzziani.

Tanta dottrina che circonda l’infante non è soltanto convenzionale ostentazione d’un privilegio sociale. In quella cerimonia, sembra di assistere ad una specie di consacrazione culturale. A Giovanni Battista Mancini nel 1759, Giovanni Cristofano Amaduzzi vorrà dedicare i Componimenti poetici in lode del Santissimo Nome di Maria, la cui festa solennemente si celebra nella Chiesa della B. Vergine delle Grazie di Fiumicino, situata sulle sponde del Rubicone...[7]. Rettore della medesima chiesa di Santa Maria delle Grazie a Fiumicino, è un altro sacerdote che svolge un ruolo importante nei primi anni di vita del Nostro: lo zio paterno Giovanni Francesco Antonio Amaduzzi. Alla sua scomparsa, nel 1771, Giovanni Cristofano scriverà parole commosse al proprio fratello don Francesco Maria[8], arciprete del Capitolo di Savignano, dichiarando di aver sempre professato verso lo zio «tanta gratitudine»[9]. Sulla scorta di quanto annota Isidoro Bianchi[10], possiamo collegare questo sentimento alla scelta famigliare, che immaginiamo suggerita da don Giovanni Francesco, di inviare il nipote in Seminario a Rimini.

Qui Giovanni Cristofano ebbe come «colto Maestro»[11] il sacerdote Pietro Mussoni. Secondo Carlo Tonini[12], Mussoni è «annoverato tra i buoni professori di umane lettere», e tra gli scrittori riminesi per un manoscritto di Frasi italiane, datato 1750. Come allievi, oltre Amaduzzi, don Mussoni ebbe il futuro cardinal Giuseppe Garampi (1725-1792), a cui la vita della Chiesa settecentesca e la cultura italiana moderna debbono tanto per capacità politica, sagacia diplomatica e solida dottrina[13]; ed il santarcangiolese Gaetano Marini[14], campione massimo dell’«erudizione nuova»[15]: insomma, una bella compagnia che educava se stessa a grandi imprese, per realizzare degnamente le promesse intraviste dai loro educatori.

Pietro Mussoni era succeduto ad Antonio Maria Brunori (1701-1758) il quale era subentrato al padovano Felice Palese, docente di Latino e Arte oratoria. Palese era stato compagno di studio di Lingua greca di Giovanni Bianchi, di cui sia Brunori sia Mussoni sono stati invece allievi. Di Brunori, Planco si dimentica quando nel 1751 pubblica, in calce ad una breve ed anonima autobiografia[16], il «catalogo degli scolari, che più si sono distinti, e che sono usciti» negli anni precedenti dalla sua scuola «in Rimino»[17]. Brunori è ricordato da un altro ex alunno di Planco, Giovanni Paolo Giovenardi[18], come «soggetto di merito, ed elegante Poeta» che «fu per molti anni valente Maestro di Belle Lettere in questo Seminario».

Nel 1720 (dopo aver conseguito il 7 luglio 1719 la laurea presso la Facoltà di Medicina e Filosofia a Bologna), Planco aveva aperto nella propria casa, come scrive proprio Amaduzzi, una «pubblica gratuita scuola di Filosofia, Geometria, Medicina[19], Notomia, Botanica, Chirurgia, e Lingua Greca in vantaggio, e profitto della studiosa gioventù paesana, e forastiera»[20]. Una scuola che Giovenardi definisce «pubblica Università»[21]. Ad essa si affiancava «un Museo non meno di cose naturali, che di Medaglie, d’Idoli, d’Iscrizioni, e d’altre cose antiche copioso»[22], utile agli studi di Antiquaria a cui Bianchi addestrava i discepoli. La Medicina era materia comune per tutti gli allievi[23].

Nel 1751 Planco conta più di venticinque scolari, fra cui ci sono «alcuni cospicui di ordine religioso, ed altri forestieri delle circonvicine città, che sono venuti a studiare sotto di lui»[24]. In quel «catalogo degli scolari» non appaiono ovviamente, per questioni anagrafiche, i nomi di Gaetano Marini e di Giovanni Cristofano Amaduzzi che entrano successivamente a far parte della «setta dei Bianchisti», per usare una definizione che ricaviamo da lettere di ex alunni[25].

Quando Amaduzzi entra nel liceo planchiano nel 1755, Bianchi è una celebrità in campo scientifico. Nel 1739 ha pubblicato a Venezia uno studio sui foraminiferi, il De Conchis minus notis[26]. Dal 1741 al 1744 ha insegnato Anatomia umana all’Università di Siena, continuando nella sua scuola privata[27]. La sua è stata una fuga da Rimini, dovuta all’insoddisfazione per l’impegno di medico, come risulta da una lettera al teatino padre Paolo Paciaudi del 26 luglio dello stesso 1741: «Io come Filosofo non mi sono mai affezionato a niuna cosa in particolare; ma essendomi dilettato di varj studi, colà [a Siena, n.d.r.] io attenderei a quelli che io potessi, dove qui io non posso per così dire attendere ad alcuno, tutto il giorno essendo occupato in cure tediose di malati senza alcun profitto. Questa è una città che dà ai Medici il medesimo incomodo che Roma, e ogni altra gran città, ma il premio è senza alcun paragone infinitamente minore»[28].

Nel 1742 i Memorabilia Italorum eruditione præstantium[29] curati da Giovanni Lami a Firenze, gli hanno pubblicato (anonima) un’autobiografia, in cui è troppo fedele il ritratto rispetto all’originale perché l’autore fosse altri dal personaggio presentato[30], sempre afflitto da un’ipertrofia dell’ego che appare quasi in ogni pagina. Il 19 novembre 1745, nella propria casa, Bianchi ha rifondato l’Accademia dei Lincei[31], dopo averne presentata la prima storia a stampa l’anno precedente[32]. Nel 1749 ha pubblicato il De monstris ac monstrosis quibusdam che documenta la sua scelta eretica a favore della fisica di Gassendi: davanti allo scontro tra l’Aristotelismo interpretato in una chiave esclusivamente dogmatica, e la ventata rivoluzionaria portata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi, Planco ha sposato la causa delle innovazioni introdotte da quest’ultimo.

Nel De monstris Bianchi dà per scontato che la perfezione dell’ordine naturale (fatto coincidere dalla vecchia Filosofia con il presupposto metafisico-teologico capace di spiegare tutta la realtà), sia smentita dai cosiddetti «scherzi di Natura». Questo scritto fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane, alle quali non furono certamente estranei gli ambienti ecclesiastici riminesi. La fretta con cui si giunse, tre anni dopo, nel 1752, alla sentenza dell’Indice per il suo discorso In lode dell’Arte comica, recitato ai Lincei la sera dell’11 febbraio (e poi subito stampato a Venezia), non può spiegarsi soltanto in relazione al tema controverso in esso trattato, al centro allora di durissime polemiche[33].

L’11 febbraio 1752 è l’ultimo venerdì di Carnovale. Bianchi fa precedere la lettura dell’Arte comica dall’esibizione di una giovane cantante ed attrice romana, Antonia Cavallucci. In città nasce un pubblico scandalo. L’artista è costretta da Planco ad andarsene in tutta fretta da Rimini. Il vescovo Alessandro Guiccioli lo denuncia a Roma, da dove un amico comunica a Bianchi che contro di lui si sono fatte «illustrissime e reverendissime insolenze». Inizialmente Planco è attaccato soltanto per l’ospitalità concessa alla cantante; poi è denunciato al Sant’Uffizio per il contenuto della dissertazione[34]. I due momenti si tengono strettamente tra loro: entrambi sembrano aver origine in un atteggiamento pregiudiziale nei confronti dell’attività e dei comportamenti scientifici di Bianchi, per rendergli sempre più difficile l’attività accademica. Lo scandalo che avvolge la radunanza «di carnovale», ha le sue radici, più che nell’esibizione della bella romana, nelle ardite opinioni del «Restitutore» dei Lincei. Sostenendo retoricamente la nobiltà dell’arte comica, Bianchi finisce per proclamare in modo non troppo sottinteso il bisogno di libertà per cultura e Scienza.

Ad attirare l’attenzione, in senso negativo, su Bianchi, era stato forse anche un suo scritto minore apparso nel 1744, la Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo cadavero. Gli appetiti d’Amore, osserva Bianchi, spesso sono «strani veramente e incredibili oltremodo», al punto che non conoscono ostacoli o condizionamenti pur di «giugnere in fine al possedimento della disiata cosa». Commentando che ciò non deve destar meraviglia, Bianchi dimostra di considerare lecito ogni comportamento erotico, compreso quello della giovane romana, seguace di Saffo e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami della Religione[35].

I fulmini dell’Indice per l’Arte comica si abbattono su Bianchi con il decreto del 4 luglio 1752. Egli però ottiene da Benedetto XIV (1740-1758), con il quale può vantare un’antica amicizia, che nel decreto sia taciuto il suo nome e sia inserito soltanto il titolo dello scritto, come avviene effettivamente nell’Index del 1758 (p. 80). La condanna non ha conseguenze nella successiva carriera pubblica di Bianchi: nel 1755 egli è nominato Consultore dell’Inquisizione e Medico del Sant’Uffizio, prima di diventare nel 1769 «Archiatro Segreto Onorario», per volere del nuovo papa Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli, 1769-1774), suo allievo della prima ora[36], che sarà il grande protettore del giovane Amaduzzi, oltre che dell’antico, venerato maestro.

Quando Bianchi gli invia le proprie felicitazioni per l’elezione al soglio di Pietro, Ganganelli gli risponde con una lettera su cui il medico riminese annota nei propri diari: Clemente XIV «mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù»[37]. Planco ne riparla nel primo tomo delle nuove Novelle fiorentine (27 luglio 1770, n. 30, coll. 471-474), ricordando la benevolenza usatagli dal papa: «Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo Archiatro Segreto Onorario, mi ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca spezialmente».

Fu Amaduzzi, come confida lui stesso ad Aurelio Bertòla[38], e come racconta pure il breve necrologio di Planco apparso sulle Novelle di Firenze[39] del 1776, a fargli ottenere il raddoppio dello stipendio e la nomina a medico segreto onorario del pontefice. A sua volta Bianchi, citando i favori ricevuti da Clemente XIV, inserisce anche i due incarichi attribuiti ad Amaduzzi: la cattedra di Greco alla Sapienza, e la Soprintendenza della Stamperia di Propaganda Fide[40]. Se dapprima i rapporti fra Planco ed il giovane savignanese furono quelli che intercorrono tra maestro e discepolo, poi essi sono improntati ad una reciproca benevolenza con conseguenti scambi di favori, resi possibili soltanto dalla protezione che a Roma poteva loro assicurare il papa conterraneo.

Giovanni Cristofano Amaduzzi, come lui scrisse, attende «per sette anni allo studio della Filosofia e Lingua Greca sotto la disciplina del Ch: Dott. Giovanni Bianchi»[41], cioè dal 1755 al 1762, quando Planco lo avvia a Roma. Sono sette anni importanti anche per la biografia intellettuale di Bianchi: al 1761 risale un suo testo, Congressi letterari della nostra Accademia[42], in cui egli si preoccupa di segnare i limiti della propria esperienza di maestro, precisando che nelle varie radunanze lincee non si trattano questioni o materie in particolare, perché esse richiedono «che pensiamo gli argomenti da noi medesimi, e che con nostre proprie ragioni ed osservazioni gli confermiamo»: «eziandio nelle più copiose Accademie d’Europa, quali sono quelle di Parigi, di Londra, di Pietroburgo, di Berlino, di Bologna, pochissime sono le dissertazioni di quegli accademici sopra cose particolari, e che contengano veramente qualche cosa di nuovo e di particolare». Bianchi avverte la distanza tra la funzione pedagogica, di grande rilievo, che giustamente si attribuisce, ed i risultati concreti molto ridotti rispetto alle sue aspettative.

Ad una crisi dei Lincei[43], Planco aveva già accennato in altre due precedenti occasioni. Il 30 aprile 1751 ha accusato «buona parte de’ nostri Academici di Rimino» d’essere diventati «non so come Pittagorici fuori di tempo essendosi fatti mutoli la maggior parte», preferendo di «marcire nell’ozio, o d’affaticarsi solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia»[44]. Nel 1755, ha spiegato che le adunanze dei Lincei non sono frequenti perché molti accademici abitano fuori Rimini, dove esistono poi varie scuole, al posto di quella sua unica che forniva ai Lincei parecchi relatori[45]. L’isolamento che Bianchi denuncia è forse provocato, più che da negligenza o futili motivi degli accademici, dalla loro paura di esporsi in un ambiente diventato ‘pericoloso’ nei riguardi del potere ecclesiastico-politico dopo la condanna all’Indice per l’Arte comica.

«Recherà forse meraviglia», dichiara Bianchi all’inizio dello scritto del 1761, «che dopo due anni io ora torni ad aprire i congressi letterari della nostra accademia, ma i meglio informati non si maraviglieranno punto, considerando che molti de nostri accademici sono in altri luoghi trapassati, ed alcuni anche sin morti, onde solamente qui in due i tre siamo rimasti». Ma costoro, aggiunge Bianchi, sono tutti occupati «in molti affari e di premura», per cui non possono comporre «dissertazioni da recitarsi qui ogni settimana, come quando eravamo molti, una volta si faceva, od in ispazi di tempo più lunghi, come dopo s’incominciò a fare, avendo osservato che sul principio tanto i nostri accademici di Rimino quanto quei di fuori componevano più facilmente loro dissertazioni da recitarsi qui, perché io aveva loro suggeriti argomenti generali per far vedere al Pubblico l’utilità della geometria, o quella della fisica, o della lingua greca, o della poesia, o della musica, o d’altra scienza, o d’altre cose d’erudizione in generale […]».

Sottolineando il rapporto che è sempre esistito fra l’Accademia ed i propri allievi, Planco scrive: «ho procurato che i Giovani della nostra Scuola espongano varie Tesi e che le difendano per avvezzarli ad essere atti a tratar cose particolari, quando nell’età saranno più maturi, ed alcuni in questo non piccola disposizione dimostravano animati anche dalla presenza di valorosi uditori, che loro applaudivano, ma essendo mancato anche questa, essi sembra, che si sieno, come raffreddati, onde io non so come anderemo avanti, tanto più che nella Città nostra essendo ora cresciuto il numero delle Scuole, queste vengono a distruggersi l’una coll’altra per la scarsezza degli Uditori, che ha ciascuna, né per avventura possono i Giovani ricevere que’ Lumi, che una volta da una sola copiosamente ricevevano. Ma di questo sia come si voglia, finché io avrò vita non cesserò giammai di animare la Gioventù, che mi frequenterà ai buoni studi, e quando per me si potrà, aprirò i pubblici Congressi della nostra Accademia facendo anche pubbliche le cose particolari, che in essa da me, o da altri si reciteranno»[46].

Nelle carte di Bianchi non ho trovato nessuna traccia relativa alla partecipazione di Amaduzzi all’attività dei Lincei. Questo non significa però che essa non sia avvenuta. Ad un certo punto della sua vita, Planco è tanto preso da impegni scientifici e culturali, da non aver più il tempo necessario per segnalare con precisione tutto quanto avviene nei Lincei e tra i suoi studenti. Troppo grande è la stima che Bianchi dimostra per Amaduzzi, per farci pensare che egli non lo abbia mai utilizzato in qualche pubblica occasione, così come era avvenuto in precedenza con gli altri suoi allievi.

I dati relativi all’ambiente scolastico planchiano, sono utili per precisare meglio i contorni dell’esperienza vissuta da Amaduzzi nei sette anni trascorsi a Rimini. Bianchi, in quel tempo, ha raggiunto una sicura maturità scientifica che però non gli impedisce di continuare ad adottare certi atteggiamenti che gli saranno (con elegante, rispettosa fermezza) rimproverati dall’Amaduzzi adulto, proprio quando Planco muore, nell’articolo pubblicato sull’Antologia romana[47]: «Fu egli uomo dotato di un vasto talento», scrisse il savignanese, «di memoria sorprendente, e di una somma diligenza. Mancò d’un certo criterio, per il che fu soggetto talvolta a qualche paralogismo. Fu tenace della sua opinione, alla quale di rado rinunciava. In mezzo a quella caparbietà peccava talvolta di volubilità sul punto di favorire ora un partito, ed ora un altro. Tutte quelle cose erano qualità inerenti alla sua natura, ma non già vizj surrogati dalla malizia. Fu prono alla colera, ma breve nell’aderire ai trasporti della medesima. Fu ardente co’ suoi nemici, ma ogni piccolo officio era capace a farlo dimenticare delle ingiurie. Quanto fu amante della lode, che gli veniva dagli altri, e che non si risparmiava neppure da se stesso, altrettanto era parco nel compatirla agli altri» (p. 236).

La delicatezza del tono usato da Amaduzzi si manifesta appieno quando, per offrire una testimonianza veritiera della sua esperienza umana e culturale alla scuola di Bianchi, egli scrive che «tutte quelle cose erano qualità inerenti alla sua natura», non già frutto di una precisa volontà. E’ un’assoluzione che non trascura però un aspetto particolare della psicologia di Planco, che si proiettava negativamente anche sulle scelte culturali di ogni giorno: «Fu tenace della sua opinione, alla quale di rado rinunciava».

Ho già ricordato che Planco si oppose alla cultura peripatetica. Ma lo scontro tra Aristotelismo e Nuova Scienza resta, in maniera diretta ed in forma non risolta, anzi con il senso di un’insanabile contraddizione, proprio nelle leggi lincee elaborate da Bianchi[48], laddove si sostiene che prima vengono i pareri dei «dottissimi filosofi», poi «l’investigazione della stessa natura». Si accantona così, nella maniera più semplice ed evidente, il metodo della «sensata esperienza», originando un’altra divergenza totale, tra la pratica scientifica ed un modus operandi intellettuale il quale nega i presupposti della stessa pratica scientifica. Il sapere di cui Bianchi parla nelle leggi accademiche, è più tolemaico che copernicano; più incatenato all’ipse dixit del moderno Aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.

Per Planco ciò significa conflitto tra la sua funzione di scienziato (che, in quanto tale, deve attribuire all’osservazione diretta un primato assoluto), e quella di reggitore di un’Accademia la quale, come detta la sua prima legge, vuole essere «aristocratica». Dietro quest’enunciazione, c’è un particolare modo d’intendere la cultura come riservato dominio dell’uomo dotto, il quale sentenzia soltanto grazie al suo ruolo di maestro, ed indipendentemente dalla validità scientifica ‘galileiana’ dei risultati a cui perviene. Ed in ciò sta quel modo tenuto da Bianchi, che Amaduzzi definisce l’essere «tenace» nel sostenere la propria «opinione».

Molti anni prima, nel 1735, Bianchi aveva suggerito ad un suo corrispondente, lo studioso naturalista ravennate Giuseppe Zinanni (o Ginanni, 1692-1753), di «non perdersi in esperienze, ma di proseguire con celerità l’opera promessa al Pubblico», cioè il trattato Delle uova e dei nidi degli uccelli che appare a Venezia due anni dopo. Zinanni rispose a Bianchi con disarmante candore: «se non usassi questa diligenza, moltissimi sbagli farei»[49]. Aurelio Bertòla, in un polemico necrologio per Planco, che fu causa di tanti vivaci contrasti, sottolineò come Bianchi fosse stato «osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta»[50].

All’insegnamento filosofico di Planco c’è un richiamo puntuale nella Rimostranza umile al trono Pontificio[51] che nel 1790 Amaduzzi inviò a Pio VI (1775-1799): «Fatti gli studi delle belle lettere e delle scienze convenienti ad un uomo ingenuo, cominciai tosto ad abbandonare quei sentimenti, che appresi per veri, e per sicuri, e quindi con giovanile ardore cozzai cogli ultimi avanzi dell’Aristotelico rancidume»[52].

Fra il 1776 (quando compone per l’Antologia romana il ricordo del maestro defunto), ed il 1790 (quando scrive la Rimostranza), intercorre tutta la fase della maturità di Amaduzzi, caratterizzata soprattutto dai tre celebri discorsi filosofici[53], molto importanti nella storia culturale settecentesca italiana, che sono all’origine di tutti i suoi guai. Non so se Amaduzzi nel 1790 avrebbe sottoscritto nuovamente il giudizio espresso sul maestro nell’Antologia romana relativamente a «qualche singolarità, o stravaganza che sia, la quale suole per lo più andare congiunta ai grandi ingegni, acciò forse non si trovino troppo al di sopra del resto della specie umana». Per chiarire le sue intenzioni, Amaduzzi aveva aggiunto: «Se non che potrebbe l’educazione, e la ragione agevolmente correggerla, e tor loro un tale ostacolo a così speciosa maggioranza. Appunto la Filosofia dovrebbe essere la medicina delle malatìe dell’anima, e quindi chi non ne profitta è sempre un Filosofo imperfetto, e solo il compenso dell’altre sue virtù, maggiori de’ suoi vizj, può non ostante conservargli il diritto alla pubblica estimazione». Il tono vagamente apodittico di questo passo è un’eredità dell’insegnamento planchiano, con l’enunciazione, o per meglio dire l’auspicio, che la cultura (anzi, più solennemente «la Filosofia») possa servire per correggere quei difetti naturali che, con un’eleganza retorica da non dimenticare, Amaduzzi chiama «malatìe dell’anima».

Nel ricordo del 1776, Amaduzzi osserva che «le massime» della «morale teoretica» di Bianchi «erano le più consone a quelle de’ Padri della Chiesa, e chi ha l’onore di scrivere queste poche righe dietro ai soli dettami della più sincera verità, l’ha udito insegnare l’etica filosofica con quella precisione, ed impegno, che si suole osservare in quelli, che parlano coll’interna persuasione». Nel comportamento del maestro, Amaduzzi trova conferma alla regola prima dell’educazione ricevuta in famiglia: «serbare in ogni azione la verità e la schiettezza»[54]. Alla scuola di Bianchi egli, oltre ad apprendere molte preziose nozioni, si era confermato nel proprio convincimento di poter evitare le secche degli inganni nella navigazione della vita, seguendo la stella polare degli insegnamenti morali impartitigli in casa. Gli sviluppi successivi della sua vicenda personale, lo avrebbero amaramente disilluso, pur confermandolo nella «fermezza» ai suoi «interni sentimenti».

L’accenno alla «persuasione» dimostrata da Planco nell’insegnamento dell’etica filosofica, chiude (non per mera esigenza letteraria, bensì come doverosa testimonianza) il discorso sul maestro, prima delle brevi notizie relative alla sua malattia e scomparsa. Il passo, che quasi suggella simbolicamente il senso di una biografia, ci suggerisce di non dimenticare come, nel descrivere la vita altrui, si proiettino sempre le proprie idee ed esperienze. Alla luce di questo dato, ad un tempo psicologico e letterario, è da considerare con la massima attenzione uno scritto inedito di Amaduzzi, in cui egli compone un altro elogio in memoria di Planco scrivendo ad Aurelio Bertòla[55].

Amaduzzi qui si presenta come «il discepolo, e l’amico» che ricorda i meriti di Bianchi «che furono molti, e grandi», non dimenticando però che l’«onorato defunto» non «andò esente dai suoi difetti»: «Io veneratore della sola virtù non sarò mai idolatra di quella viziosa penombra che talvolta l’eclissa in un medesimo soggetto. L’adulazione, o la lode inconsiderata, ed indistinta è il retaggio dell’anime vili, o poco illuminate». Durante sei anni[56] egli lo ha avuto «per Precettore di Filosofia, Storia Naturale, e Lingua Greca», per quattordici ha tenuto con lui un «continuato carteggio» dopo essersi trasferito a Roma[57]. Questa duplice esperienza può dargli «un dritto di parlare di lui con precisione, e di esigere l’altrui credenza».

Circa la scuola planchiana, Amaduzzi osserva che i suoi frequentatori «furono sempre molti, e di questi non pochi quelli, che nella stessa patria, e fuori per cariche, e per letteratura si distinguono». Con una punta di malizia, dopo aver ricordato scritti, aggregazioni accademiche, studi anatomici di Planco, Amaduzzi accenna pure ad Antonia Cavallucci: la «severità filosofica» di Bianchi «patì un’interstizio di sei mesi, quanti egli ne dedicò alla corte, che fece, ad una eccellente, e spiritosa Comica Romana, nominata Antonia Cavallucci, la quale seppe eccitarlo a far stampare in sua lode alcune poesie, ed a comporre, e pubblicare nell’anno 1752. l’indicato Discorso, il quale per un’eccezione di poco rilievo andò ad impinguare l’Indice de Libri proibiti. La singolarità, e la brevità del suo impegno fa vedere, che sì fatto mestiere non è per i letterati bisognosi di quiete, e di tempo per le loro applicazioni».

Il buon filosofo Amaduzzi sembra un figlio geloso per una galante avventura paterna. Nelle sue parole, pecca ingenerosamente d’esagerazione nel descrivere una vicenda amorosa che in realtà non ci fu. Bianchi, in una pagina inedita, ricorda il modo in cui fece conoscenza della Cavallucci: un marchese forestiero di nome Giambattista aveva affidato la giovane alla protezione d’un cavaliere riminese il quale però mancò alla parola data. Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da Bianchi: «presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città, non senza però una molta invidia de’ malevoli», confida al padre di Giambattista[58]. La giovane romana chiese poi per lettera a Bianchi «una difesa sopra il fatto» del suo matrimonio, «un discorso tanto, che lo possi imparare a memoria», e recitare davanti ad un giudice ecclesiastico, per ottenere una pronuncia contro le violenze del marito. Infine, bussò ad aiuti economici, ridotta in miseria e con la madre a carico, invocando la bontà di Bianchi chiamato «caro papà» e «mio Padre», con un affetto d’altro tipo rispetto a quello immaginato da Amaduzzi[59].

Il racconto amaduzziano sui rapporti fra la Cavallucci e Planco, si basa senza dubbio su quelle «illustrissime e reverendissime insolenze» che circolavano in città ed (inevitabilmente) pure nel Seminario che il savignanese frequentava nel 1752, al tempo dello scandalo per l’Arte comica. La presunta corte che il maturo medico avrebbe fatto alla graziosa romana (la quale, oltretutto, esercitava una professione considerata disonorevole[60]), fa parte del repertorio di accuse più o meno fantasiose che su Bianchi si abbatterono di continuo, non soltanto a causa del suo temperamento ma anche per la gratuita invidia e perfidia dei «malevoli» i quali non perdevano occasione di attaccarlo.

A proposito del temperamento di Bianchi, merita di essere riportata questa parte, che è centrale nell’elogio inviato da Amaduzzi a Bertòla:

 

«Il raziocinio non fu in lui sempre il più retto, giacché sovente egli era inconseguente co’ suoi principi, e la prevenzione qualche volta prevaleva in lui alla ragione. Amò la bizzarria, e la singolarità, e questa lo portò a distinguersi anche nel nome, avendo cambiato quello del Battesimo nell’altro di Giano Planco per non andare confuso con altri, che del suo tempo gli erano sinonimi. Fu allegro, e vivace nella brigata, e soverchiamente amico del ridere. Il suo scherzo spizzicava talvolta di sarcasmo, e d’insulto. Spargeva la critica anche sù quelle cose, che non la meritavano, e cercava anche il nodo nel giunco per compiacere questa sua non plausibile inclinazione. Ma non sempre fu per questo conto dalla parte del torto: avea egli troppe cognizioni per scuoprire gli altrui veri difetti. La colera talvolta lo trasportava, ma non tardava molto a rasserenarsi. Era violento contro i suoi avversari, ed affrontava intrepidamente gli offensori; ma era subito disarmato, e dimenticava ogni ingiuria, se avea un picciolo compenso di officiosità. Castigava col disprezzo pur anche alcuni di que’ critici più abbietti, che insorgevano sovente contro di lui, e soleva porre tutte le satire contro di lui stampate in un sol mazzo, sù cui era segnato improborum hominum inanes conatus[61]. [...] Godette però, in mezzo a questi insulti, della stima, e dell’amicizia de’ più celebri letterati del suo tempo, tanto Italiani, quanto esteri. [...] Questi onori solleticavano moltissimo il suo amor proprio, ed era portatissimo alla lode, che gli era tributata dagli altri, e che si compartiva tanto volentieri anche da sé stesso. Era però scarso lodatore degli altri, e di quelli in ispecie, che non fossero stati di qualche suo partito, per quanto poi fosse stato grande il loro merito. Difficilmente egli si ricredeva su d’alcune sue opinioni; ma poi era anche sovente inconstante nel sostenere, o riprovare un qualch’altro assunto impegno, o sentimento. In somma egli fu un uomo vario e stravagante, onde e nel bene e nel male troppo si distingueva fra gli altri. Ma in mezzo a tante stranezze egli aveva le sode massime di religione, i buoni teoremi della morale, le cortesie della società, la schiettezza del suo presentaneo sentimento, l’onoratezza del procedere, l’inclinazione al beneficare, e lo spirito di carità verso i poveri. [...] Ecco il carattere, e la pittura veridica d’un uomo, che in mezzo ai naturali difetti di un fervido temperamento ha avuto il dono del più sublime ingegno, per cui ha potuto far epoca nella Storia naturale, e nella Notomia, e fare l’ornamento di Rimino, dell’Italia, e di tutta la letteraria Repubblica. Io ho perduto il Precettore, e l’Amico [...]».

 

L’elogio inviato a Bertòla è del 3 gennaio 1776. Il 9 dicembre 1775 (Planco era scomparso il giorno 3 dello stesso mese), Amaduzzi scrivendo al nipote di Bianchi, dottor Girolamo[62], dichiarava del di lui zio: «Io non mi crederò mai dispensato dall’obbligo di rimostrargli anche dopo morte in tutte le occasioni la mia riconoscenza, e la mia venerazione». Riconoscenza e venerazione appaiono più espressioni intellettuali e morali che semplice atteggiamento sentimentale. I due termini ci portano a valutare come basilare nell’esperienza di Amaduzzi sia l’iniziale frequentazione della scuola planchiana, sia il successivo, ininterrotto magistero che continuò da parte di Bianchi per mezzo epistolare o negli incontri personali[63]. Già nel 1768 in una lettera diretta allo stesso Planco, e pubblicata nella Miscellanea di varia Letteratura di Lucca[64], Amaduzzi ha ricordato «humanitas», «comitas», e «benevolentia» dimostrategli dal maestro. Nel 1770 ha confidato a Bianchi di restare affezionatissimo a lui, che dimostrava animo «cortese, ed amorevole» verso la sua persona[65].

Gli anni trascorsi nella scuola riminese proiettano una loro nitida luce in quelli successivi della vita d’Amaduzzi; contribuiscono cioè a rafforzare la sua capacità intellettuale, fornendole (fortunatamente) anche quegli anticorpi con cui reagire agli aspetti meno convincenti di un insegnamento che, se in taluni momenti piegò verso il dogmatismo dell’erudizione «oratoria o all’antica»[66], in molti altri invece ebbe come prima caratteristica l’invito alla curiosità, all’aggiornamento, al commercio epistolare ed intellettuale, secondo i canoni di quella parte della società settecentesca che tendeva più al rinnovamento che alla conservazione.

Amaduzzi in età matura compie un ripensamento dell’educazione ricevuta, sviluppando gli strumenti che aveva appreso alla scuola planchiana. Egli non vuole stilare un onesto ed imparziale bilancio di lati positivi e negativi d’una personalità vivace, contradditoria ed anche inquieta come fu quella di Planco. Cerca piuttosto di rintracciare il sottile filo dialettico esistente nella trama di ogni proficua pedagogia, sul quale misurare se stesso. In Amaduzzi, come in altri suoi contemporanei, opera il convincimento che l’esperienza individuale e la storia collettiva siano un processo attraverso cui le novità maturano con la riflessione sulle idee ricevute, e con il loro superamento. Così, ci si obbliga a rimeditare daccapo ogni aspetto della vita, della conoscenza scientifica, della politica, del pensiero. Così, si mira ad un mutamento rispetto allo status quo, con quel desiderio che gli intellettuali nati attorno alla metà del Settecento assorbono dallo spirito del tempo e dagli umori della nuova cultura.

Della differenza culturale che passa fra la generazione di Amaduzzi e quella di Bianchi, ci rendiamo conto esaminando i sette compiti, finora inediti[67], assegnati da Planco e svolti dal savignanese alla sua scuola: essi sono una preziosa testimonianza dell’attività didattica che vi si svolgeva quotidianamente. I loro argomenti sono relativi alla Filosofia e alla Scienza, e propongono questi argomenti: l’impossibilità di difendere il sistema tolemaico; la funzione della logica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica; gli spiriti degli animali bruti; la sede nel cervello degli affetti dell’animo; i nervi dell’udito; la digestione.

Gli enunciati proposti da Planco ai suoi studenti, confrontati con i temi affrontati negli stessi anni su periodici e libri scientifici, dimostrano che il medico riminese era su posizioni incerte ed arretrate. Costringere, ad esempio, gli allievi a spiegare che il sistema tolemaico non poteva essere difeso «nulla ratione», ad oltre due secoli dall’opera di Copernico, significava discutere di argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza percorreva (seppur con fatica, in tortuose corse ad ostacoli) le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi argomenti da lui studiati quand’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna (1717-1719). Nella terminologia usata in quegli enunciati, ci sono talora ricordi cartesiani, come là dove si parla di «spiriti animali» (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri argomenti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in direzione opposta, negando le tesi di Descartes. In sostanza, Bianchi vi si dimostra più come un vecchio umanista che un nuovo filosofo dell’età dei Lumi.

All’esperienza vissuta nel liceo di Bianchi, si può collegare un passo del terzo discorso, quello intitolato Dell’indole della Verità, e delle Opinioni, dove Amaduzzi polemizza con l’antico maestro, quasi a volere insinuare che Planco nulla avesse compreso delle teorie di Newton[68]. Amaduzzi colpisce nel segno, segnalando un metodo filosofico non troppo rigoroso, già sottolineato nell’articolo commemorativo dell’Antologia romana.

Vent’anni prima, nel 1766, un altro solenne rimprovero era giunto a Planco da Pietro Verri il quale, a proposito di un scritto del medico riminese contro l’inoculazione del vaiolo, aveva osservato che «al fondamento delle opposizioni del signor dottor Bianchi è questo ch’ei chiama effatum philosophicum, cioè che quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur»[69]. L’«effatum philosophicum» (o enunciato filosofico), di cui parla Planco, trasferisce nel campo medico una concezione già di per sé opinabile in quello gnoseologico; e rimanda a teorie messe in ombra dalle nuove idee del sensismo alla Condillac, con le quali si rovescia l’impostazione presente in Bianchi, sostenendo che «l’uomo è soltanto ciò che ha acquisito», e non che le cose sono ciò che l’uomo conosce di esse[70]. Usando, per un fenomeno riguardante la Medicina, un tipo d’indagine che su di essa non può operare perché non ricorre alla metodologia idonea alla materia sulla quale interviene, Bianchi commette un errore epistemologico che rispecchia l’esperienza culturale del primo Settecento[71], e che ci è confermato in una sua lettera indirizzata a Giovanni Lami[72], dove Bianchi inserisce «la quistione dell’innoculazione» tra le «cose letterarie» da discutere, magari nel «miglior latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli [...] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori dell’innoculazione, giacché tutti costoro non sono filosofi e meno medici, ma sono sfaccendati [...]». Planco tuttavia, e lo apprendiamo proprio da Amaduzzi, cede «in appresso all’evidenza del buon esito» dell’innesto del vaiolo, «con quel candore, e coraggio, che suole ispirare l’amore della verità nei cuori degli uomini grandi»[73].

Anche quest’intervento a difesa di Bianchi, se da un canto dimostra altrettanto amore per la verità nel comportamento del savignanese, dall’altro testimonia un affetto (onesto e non di convenienza) verso quel «chiarissimo, e benemerito Precettore, per la cui istituzione, ed addottrinamento io son divenuto non affatto indegno» della nomina a sopraintendente della Stamperia di Propaganda Fide»[74]: così Amaduzzi scrive a Bianchi il 10 febbraio 1770, quando la sua carriera pubblica ha (come si è già visto, grazie all’antico maestro ed a papa Ganganelli), una nuova promozione dopo che era stato fatto l’anno precedente Lettore di Greco alla Sapienza.

Nella Roma di Clemente XIII (1758-1769), Amaduzzi non aveva avuta vita facile, a causa delle proprie idee politiche e religiose. Quando partì per Roma nel maggio 1762, Bianchi gli raccomandò di prender contatto con mons. Giovanni Bottari, considerato il capo degli antigesuiti. L’allievo ascoltò il maestro. I rapporti fra Amaduzzi e Bottari furono frequenti e cordiali. In casa Bottari, era spesso ospite mons. Scipione de’ Ricci che nel 1780 fu nominato vescovo di Prato e Pistoia: con lui, Amaduzzi entrò in una fitta corrispondenza[75]. Agli occhi di molti, lo rendevano sospetto i rapporti che Amaduzzi intratteneva con questi ecclesiastici accusati di essere Giansenisti[76]. La propensione da lui dimostrata verso i cambiamenti politici che in Francia erano sostenuti dagli scrittori illuministi, ne faceva un personaggio pericoloso. Lo accusarono infatti di essere indifferente ed eretico in materia di Religione.

Planco, che era stato ex allievo irrequieto (e fuggiasco) della Compagnia di Gesù al Collegio di Rimini, nel suo insegnamento privato si era fermamente dimostrato avverso ai «Loyolisti»: «nimico sempre del Probabilismo», lo definisce infatti Giovenardi[77]. Anche se Bianchi non approfondì mai i temi della nuova corrente teologica ispirata al teologo olandese Cornelio Janses (1585-1638), il suo atteggiamento contrario ai seguaci di sant’Ignazio sembra aver lasciato un segno sul giovane Amaduzzi e sulle sue scelte dell’età matura.

Quando papa Ganganelli soppresse l'ordine dei Gesuiti il 21 luglio 1773, Amaduzzi fu considerato l'ispiratore della «bolla» Dominus, ac Redemptor con cui il provvedimento fu sancito[78]. Ne scrisse entusiasta a Bianchi: «Finalmente si comincia a veder chiaro». A Rimini, gli rispose Planco, i Loyolisti hanno più proprietà che in ogni altro luogo della Romagna, perché i suoi abitanti «non hanno voluto esser meno sciocchi degli altri»[79].



[1] Cfr. G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, II, Firenze 1969, Zibaldone, n. 265, 6 ottobre 1820, p. 112. Il nome di Amaduzzi appare nell’Epistolario leopardiano (a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino 1998, ad indicem), per i suoi Anedocta litteraria (voll. I-IV, Roma 1773-80), per i quali il recanatese nel 1824 chiede notizie, su richiesta di B. G. Niebhur di Bonn, a Giuseppe Melchiorri, figlio di Ferdinanda Leopardi, sorella del conte Monaldo.

[2] Cfr. C. Colaiacono, Dall’uomo di lettere al letterato borghese, «Letteratura italiana, II, Produzione e consumo», Torino 1983, pp. 381-382: alla stessa categoria di «possidenti molto impoveriti» appartenevano anche le famiglie di Gioseff’Antonio Aldini (1729-98) e di Pasquale Amati (1726-96), entrambi allievi di Bianchi (cfr. A. Fabi, Aurelio Bertòla e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli Studi Romagnoli», n. 6, Faenza 1972, p. 10, nota 19).

[3] Cfr. Elogio dell’abate Gio. Cristofano Amaduzzi [...] scritto dall’abate don Isidoro Bianchi, p. 5. Il testo fu dapprima recitato dall’autore a Mantova il 29 novembre 1793, e poi stampato a Pavia l’anno successivo. Il camaldolese I. Bianchi (1731-1808) dovette avvertire una certa sintonia con il pensiero filosofico amaduzziano, se pubblicò una dissertazione (Delle scienze e belle arti, Palermo 1771), «in cui dietro l’apparente critica a Rousseau, trovava modo di presentare le moderne teorie illuministe»: cfr. C. Costa, ad vocem, «Letteratura italiana. Dizionario bio-bibliografico e indici, I, A-G», Torino 1990. Sui rapporti fra I. Bianchi ed Amaduzzi, cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, 5. 1. L’Italia dei Lumi (1764-1790), Torino 1987, pp. 682-689.

[4] Debbo alla cortesia di Carla Mazzotti, già appassionata vice-bibliotecaria presso l’Accademia dei Filopatridi, queste notizie reperite in anni lontani presso l’archivio parrocchiale di Santa Lucia, Registro dei Battezzati, IX, c. 89.

[5] Cfr. A. Montanari, Antonio Bianchi scrittore in A. Bianchi, Storia di Rimino dalle origini al 1832, Rimini 1997, p. LVII; e D. Mazzotti, Rubiconia Accademia dei Filopatridi. Note storiche e biografiche, Santarcangelo di R. 1975, p. 34.

[6] Pasquale Amati, in un suo scritto, ricorderà assieme P. Borghesi e G. C. Amaduzzi come uomini famosi e suoi amici: cfr. nel cit. Antonio Bianchi scrittore, p. LVI, nota 73.

[7] Cfr. il cit. Elogio dell’abate G. C. Amaduzzi, p. 51, nota 9.

[8] Su queste lettere cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna, II ed., Rimini 19932, cap. 11. «Monsieur l’Abbé, carissimo Fratello», pp. 103-106.

[9] Lettera del 6 febbraio 1771. Ora essa è riprodotta a p. 209 di G. C. Amaduzzi, Lettere familiari, a cura di G. Donati, «Collana del Centro Studi Amaduzziani, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, II», Viserba di Rimini 2001. Questa lettera è scritta poco prima del decesso di Giovanni Francesco Antonio, della cui morte si parla nella successiva missiva (ibid.) del 9 febbraio 1771, ove pure leggiamo (p. 211): «[...] vi prego a voler strappare tutte le mie lettere scritte al Zio medesimo qualora v’incontrerete in esse, giacché in alcune di queste vi sarà qualche mia stramberia scritta in tempo delle maggiori mie angustie, le quali cose non è bene che esistino».

[10] «Il cielo, che veglia al destino delli uomini grandi, volle che Cristofano alla età delle debolezze e dei piaceri fosse sol divorato dall’amor del sapere. Questo fu il fuoco secreto, che incominciò a divorarlo sino da suoi più teneri anni, fuoco che essendosi ben conosciuto dall’accorto suo genitore, e massimamente da un ottimo suo zio, che reggeva in Patria una Chiesa, questi non lasciò intentato alcun mezzo di promoverlo, e di fomentarlo»: cfr. il cit. Elogio dell’abate G. C. Amaduzzi, pp. 6-7.

[11] Ibid., pp. 8-9.

[12] Cfr. C. Tonini, Storia di Rimini, VI, II, Rimini 1887-88, ed. an. Rimini 1995, p. 732.

[13] Anch’egli, come si vedrà nella nota 17, fu tra gli allievi di Planco. Amaduzzi fu in ottimi rapporti con Garampi: «Quest’ottimo Porporato mi ha fatto quasi da infermiere in questa mia malattia, colmandomi di mille bontà, ed attenzioni», scrive al poeta Aurelio Bertòla il 5 aprile 1786 (Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Amaduzzi G. C. [FGMR, AGC], Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR]).

[14] Cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini, Rimini, Albertini 1884, ed. an. Rimini, 1988, a cura di P. Delbianco, II, pp. 324-25, e p. 344 (Mussoni è «annoverato fra i buoni indirizzatori agli studi di quella divinissima delle umani arti»).

[15] Ibid., p. 489. Assieme ad Amaduzzi, scrive Tonini, Marini «diede opera alle umane lettere sotto la disciplina del Mussoni».

[16] Il testo è intitolato Recapiti del dottore Giovanni Bianchi di Rimino. La parola «recapito» ha il significato di considerazione, reputazione, stima. Sulla paternità dei Recapiti, cfr. Novelle letterarie di Firenze, tomo XIX, n. 30, 28 luglio 1758, col. 480.

[17] Da tale «catalogo» riporto solamente i singoli nominativi, mettendoli in ordine alfabetico e numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso inserita da Planco, e segnalo con (*) i dieci medici presenti nell’elenco: 1. Baldini Giuseppe (*); 2. Barbari Innocenzo; 3. Barbette Gregorio (*); 4. Bartoli Giuseppe; 5. Battaglini Andrea; 6. Battarra Giannantonio; 7. Bentivegni Girolamo; 8. Bentivoglio Davìa Laura; 9. Bonelli Innocenzo; 10. Bonioli Antonio; 11. Brunelli Giambattista (*); 12. Bufferli Pier Crisologo (*); 13. Buonamici Niccola; 14. Cella Giovan Maria; 15. Cenni Lucantonio; 16. Colonna Daniello (*); 17. Draghi Paolo Andrea (*); 18. Fabbri Francesco; 19. Fabbri Giovanni; 20. Fosselli Mauro; 21. Galli Celestino; 22. Galli Stefano; 23. Garampi Giuseppe; 24. Ghigi Pietro; 25. Giovenardi Gianpaolo; 26. Giovenardi Mattia; 27. Godenti Pietro; 28. Graziosi Ubaldo; 29. Lapi Pier Paolo; 30. Legni Francesco (*); 31. Marcaccini Francesco; 32. Massa Niccolò; 33. Mastini Severino; 34. Mussoni Pietro; 35. Pasini Francesco Maria; 36. Pecci Carlo; 37. Piceni Giuliano; 38. Pizzi Gian Carlo (*); 39. Righini Cassiano (*); 40. Santini Lorenzo Anton (*); 41. Serpieri Giulio Cesare; 42. Torri Cesare; 43. Vitali Giuseppe; 44. Zampanelli Marino. Degli studenti planchiani presenti nel 1751, possediamo pure un altro elenco: v. alla nota 24.

[18] Cfr. la sua Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi, Venezia 1777, p. XXX. Qui si ricorda anche don Pietro Mussoni, «successor del Brunori per le Belle Lettere in questo Seminario».

[19] Amaduzzi raccoglierà molti opuscoli che trattano di Medicina (Biblioteca Amaduzziana, Accademia dei Filopatridi [BFSA]). Sull’attività di Bianchi come medico e sulla sua produzione scientifica, rimando al saggio curato da Stefano De Carolis in questo stesso volume.

[20] Cfr. G. C. Amaduzzi, Elogio di Monsig. Giovanni Bianchi di Rimino, apparso anonimo sull’Antologia romana, tomo II, 1776, pp. 227-229, 235-239. (Il titolo di monsignore spettava a Bianchi quale archiatro segreto onorario pontificio.) Nell’esemplare personale in BFSA, Amaduzzi appose, in fondo alla prima parte, la firma autografa col solo cognome. In C. Casanova, Note sulla cultura a Ravenna nel Settecento, estratto degli «Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali. Anno 73. Rendiconti. Vol. LXVII, 1978-1979», Bologna 1979, al cap. 2., «Giovanni Cristofano Amaduzzi. Un allievo della scuola riminese di Giovanni Bianchi a Roma», si legge (p. 12) che «il rilievo che molti degli scolari di Giovanni Bianchi assunsero nella seconda metà del ’700 [...] conferma la necessità di uno studio approfondito sull’ambiente riminese, in gran parte ancora da fare, che consentirebbe di motivare meglio una valutazione della cultura locale altrimenti generica e approssimativa».

[21] Cfr. Giovenardi, op. cit., p. XXVII. Giovenardi si adopera, alla morte di Planco, per la riapertura della sua scuola privata, assieme al di lui nipote, dottor Girolamo Bianchi, e a don Filippo Zambelli: cfr. la lettera di G. P. Giovenardi a Girolamo Bianchi del 14 dicembre 1775, con allegati il testo ms. di un volantino e la relativa edizione a stampa (FGMR, BGR, Giovenardi, don G.). Il volantino, diretto «a’ Studiosi Giovani Riminesi, ed amanti della soda letteratura», annunciava l’apertura di una «pubblica Scuola di Medicina, e lingua Greca» dotata dell’«ereditata sceltissima, e copiosissima Libreria in ogni genere di Scibile», e con «il comodo di potere fare le sezioni Anatomiche in quest’Ospedale», di cui Girolamo Bianchi era medico. (Nel 1779 Girolamo Bianchi sposa la vedova Bonadrata: «Vedete che miserie di nuove dà la città dell’Arco e del Ponte», scrive Amaduzzi a Bertòla il 7 settembre dello stesso 1779, Fondo Piancastelli, Biblioteca Saffi di Forlì, n. 8.323.)

[22] Cfr. Novelle letterarie, tomo VIII, n. 41, 13 ottobre 1747, col. 652: è la recensione ad un trattato sui fulmini di S. Maffei, nella quale è citato Bianchi che «ad una perfetta cognizione delle cose della Natura accoppia una vasta intelligenza di lingue erudite, e una piena notizia di tutte le cose di antichità».

[23] Da una lettera di Stefano Galli a Bianchi si ricava che una serie di notizie sulla Medicina era materia comune per tutti gli allievi della scuola planchiana («di medicina non ne mostro per niente, e ne ho solo qualche idea per quello che ho sentito dire da lei, quando avevo l’onore ed il vantaggio d’esserLe scolaro», Roma 6 aprile 1754, Fondo Gambetti, Lettere autografe al dottor G. Bianchi [FGLB], ad vocem, BGR). Sulla figura di Stefano Galli, cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti inediti, «Romagna, arte e storia», n. 49/1997, pp. 57-74. Bianchi definisce Galli «uomo erudito specialmente nelle lingue de’ dotti, Greca e Latina»: cfr. Novelle letterarie, tomo X, n. 29, 18 luglio 1749, col. 461.

[24] Cfr. nei citt. Recapiti, p. IV. I nomi dei venticique allievi presenti nel 1751 sono in un foglio ms. di Bianchi (cfr. Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi, G. [FGMB], fasc. 310). Sedici frequentano le lezioni di Logica, tre di Greco e sei di Medicina. Ecco i loro nomi (da noi ordinati in ordine alfabetico): 1. Aldini Gioseffanton (Cesena, Logica); 2. Almeri Michele (Rimini, Logica); 3. Baldini, dottore in teologia (abate, Rimini, Greco); 4. Bartolucci Antonio («cirusico del Pubblico», Rimini, Medicina); 5. Bedinelli Francesco Paolo (Pesaro, Medicina); 6. Brunelli Cesare (Rimini, Logica); 7. Brunelli dottor Giambattista (Rimini, Medicina, già cit. in Recapiti); 8. Fabbri Luigi (abate, Rimini, Greco); 9. Ferri (abate, Montescudo, Logica); 10. Franciolini Curio (Iesi, Logica); 11. Gaspari (abate, Montescudo, Logica); 12. Genghini Giuseppe (Rimini, Logica); 13. Gervasi, padre («maestro di studi agostiniano di Napoli», Greco); 14. Gori (abate, Santarcangelo, Logica); 15. Graziosi ([Ubaldo, già cit. in Recapiti], abate, Montescudo, Logica); 16. Maltagliati Gaetano (Rimini, Medicina); 17. Melli Paolo (abate, Rimini, Medicina); 18. Menghi (abate, Santarcangelo, Logica); 19. Morelli (abate, Rimini, Logica); 20. Preti (abate, S. Giovanni in Marignano, Logica); 21. Tassini Andrea (abate, Pesaro, Logica); 22. Tononi (abate, Coriano, Logica); 23. Vasconi Girolamo (abate, Coriano, Medicina); 24. Zangari Giovanni (Rimini, Logica); 25. Zavagli Antonio (Rimini, Logica). Circa la loro provenienza geografica, tredici sono di Rimini, uno di Iesi, due di Santarcangelo di Romagna, tre di Montescudo, due di Coriano, uno di San Giovanni in Marignano, due di Pesaro ed uno di Cesena. Il documento reca in IV ed ultima facciata: «1751. Prehensationes Inutiles Pro Cathedra Logicae». Esso rimanda a quando Bianchi fu proposto, ma non nominato, «Lettore pubblico di Logica» a Rimini, perché non rispondeva ai requisiti richiesti dalle disposizioni testamentarie che finanziavano quella Cattedra, cioè «non era prete». La scelta cadde su G. A. Battarra (su cui v. alla nota 39).

[25] Come ho scritto in Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Giovanni Bianchi (Iano Planco), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208, il cit. G. P. Giovenardi parla di «quelli della nostra setta», mentre L. Cenni cita i «Bianchisti» (p. 195, nota 2). Da fuori, si accusa questa «Scuola di Rimino» di segnare le proprie pagine con «velenoso inchiostro», «quando per essa vuolsi a qualchuno stringer adosso il giubbone, o quando si pretende avilirlo» (p. 195, nota 3). Su G. Bianchi, cfr. questi miei altri lavori: La Spetiaria del Sole, Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Raffaelli, Rimini 1994; Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394; «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995.

[26] Circa l’importanza europea di questo testo, cfr. Novelle letterarie, tomo IV, n. 15, 12 aprile 1743, col. 229: qui leggiamo che Bianchi, per le sue scoperte in questo campo, venne definito «Linceo» da Gian Filippo Breynio, professore di Storia Naturale in Danzica.

[27] Nel «catalogo degli scolari» (v. nota 17), Bianchi avverte di tralasciare «di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono»: tra questi c’era anche il riminese Francesco Maria Pasini (1720-1773), futuro vescovo di Todi ed educatore di Aurelio Bertòla (1753-1798).

[28] Cfr. G. Bianchi, Minute di lettere dal 1739 al 1745, MS-SC. 969, BGR.

[29] Cfr. tomo I, pp. 353-407.

[30] Cfr. A. Montanari, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299. Il fondamentale (e segreto) significato di quel testo, non è mai stato ovviamente colto dai suoi numerosi, saccenti (e non disinteressati) avversari. Costoro seppero soltanto accusare Bianchi in modo fin troppo facile, di millanterie da doctor gloriosus, da medico vantone, per quanto egli vi narra.

[31] Una storia completa dei Lincei planchiani è nella mia comunicazione, di prossima pubblicazione, svolta al Convegno forlivese (maggio 2000) su Le Accademie in Romagna dal ’600 al ’900, organizzato dalla Società di Studi Romagnoli, ed intitolata Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745). Il testo è parzialmente anticipato in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari>, novembre 2000, <http://digilander.libero.it/monari/lincei/lincei.00.html>

[32] Cfr. A. Montanari L’anello di Galileo. E’ di Iano Planco la prima storia a stampa dei Lincei, «Il Ponte», Settimanale cattolico riminese, XXVII (2002), 25, p. 17: questa «Lynceorum Notitia» è premessa alla ristampa del Fitobasano di F. Colonna pubblicato a Firenze nel 1744, a cura dello stesso Bianchi. (Cfr. pure P. Delbianco, scheda su Colonna, F., Phytobasanos,  in Le Belle Forme della Natura. La pittura di Bartolomeo Bimbi (1648-1730) tra scienza e ‘maraviglia’, Modena, Abacus, 2001, pp. 146-147.)

[33] Cfr. Id, Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64/2002, pp. 35-54.

[34] Planco s’avventura in un terreno pericoloso. Con elegante sottigliezza, rimette in discussione il trattamento riservato dalla Chiesa agli «istrioni», che in Francia erano ancora privati dalle leggi canoniche «fino de’ Sagramenti, e dell’Ecclesiastica Sepoltura». E cita san Tommaso, il quale ritiene che «l’Officio dell’Arte degli istrioni […] è ordinato per sollevar l’animo degli uomini, e che coloro che l’esercitano dentro de’ debiti modi, non sono mai in istato alcuno di peccato; e che a loro si conviene una giusta mercede per le loro fatiche». Bianchi si domanda: se la Chiesa permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio, non si dovrebbe permettere anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati «infami» quei comici che «le rappresentano venalmente», mentre «diventano onesti quei che le rappresentano gratis»?

[35] Di A. Cavallucci e di C. Vizzani, oltre che in Tra erudizione e nuova scienza, cit., mi occupo nella comunicazione tenuta al Convegno degli «Studi Romagnoli» del 2001, di prossima pubblicazione, intitolata «Contro il volere del padre». Diamante Garampi, il suo matrimonio, ed altre vicende riguardanti la condizione femminile nel secolo XVIII.

[36] Nel cit. Tonini, La coltura letteraria, II, p. 219, si legge che Ganganelli, nato nel 1705, si trattenne a Rimini «secondo alcuni» sino al diciottesimo anno, cioè sino al 1723 circa: la scuola di Bianchi, come s’è detto, inizia nel 1720. Tonini riporta (pp. 220-221) una missiva inviata da Ganganelli il 30 settembre 1759 (dopo la sua nomina a Cardinale), a Bianchi, che cito però dall’ed. veneziana del tipografo Garbo (Lettere interessanti, 1778, pp. 115-116): «Ora conosco, che voi avevate ragione a sgridarmi, quando io non voleva studiare; adesso vi ringrazierei di quanto allora faceste per me [...]». Il 7 giugno 1758 (ibid., p. 112) a Planco, Ganganelli aveva ricordato con «affetto» la città di Rimini («sono uno de’ suoi abitanti»), mentre il 15 settembre 1763 gli scrive: «non passa forestiere a Rimini, che non chiegga di vedere il Dottor Bianchi, e che non abbia il vostro nome registrato nel suo taccuino» (ibid., p. 119). In altre edd. delle Lettere interessanti, al posto della parola «taccuino», leggiamo: «con delle carte» (Losanna 1777, III tomo, p. 125), oppure «tra i suoi ricordi» (Firenze 1829, II tomo, p. 146).

[37] Cfr. G. Bianchi, Viaggi 1740-1774 (o Libri Odeporici), SC-MS. 973, BGR, c. 569v, 25 settembre 1769.

[38] Cfr. lettera del 3 gennaio 1776 (copia autografa con annotazione di diversa mano del destinatario, FGMR, AGC), in memoriam di Iano Planco: «Perfine furono coronati gli ultimi anni della sua gloriosa vita dalla bella considerazione, che a mia petizione a lui del tutto incognita, si compiacque a fare della sua virtù, e della sua celebrità l’immortale Clemente XIV, la di cui memoria desterà sempre nel mio cuore la più tenera sensibilità, e la più alta ammirazione nella mente. Egli il dichiarò uno de’ custodi della sua salute, onde per Archiatro segreto onorario Pontificio fu indi riconosciuto, ed in tale occasione interpose pure quel gran Pontefice l’autorevole, e generosa sua mediazione perché la Patria il consueto onorario gli perpetuasse, ed insieme glielo duplicasse, come infatti seguì».

[39] Cfr. tomo VII, coll. 21-27 e 37-41. Questo «compendio dei pregi d’un tanto letterato», si dice comunicato «da uno dei migliori suoi Allievi». Circa la paternità dell’articolo, essa fu erroneamente attribuita ad Amaduzzi medesimo («che per qualche tempo fu discepolo del nostro Monsignore», col. 25): cfr. I. Bianchi, Elogio dell’abate G. C. Amaduzzi, cit., p. 59, nota 14. Amaduzzi scrive ad Anna Tommasi Sernini il 3 febbraio 1776: «L’Elogio di Giano Planco, lodato da voi, ha ora un pregio, di cui mancava. Quello, che fu ultimamente inserito nelle Novelle Fiorentine, non è mio, e perciò servirà ad escludere quello, che io avea già mandato, forse non tanto melenso, quanto è quello già stampato» (Manoscritti n. 24, BFSA). Secondo Amaduzzi, l’Elogio di Planco poteva invece essere attribuito a G. A. Battarra (1714-1789, ex allievo e collaboratore di Planco, nonché naturalista) o forse ad «un tal Drudi, medico che studia ora a Firenze» (cfr. Fabi, op. cit., p. 24: da lettera a Bertòla). Lorenzo Drudi «fu un sapiente Medico, profondo filosofo, libero Pensatore, e in ogni genere di letteratura assai erudito, e buon critico, gran Bibliografo», nonché bibliotecario della Gambalunghiana tra 1797 e 1818: cfr. G. Urbani, Raccolta di Scrittori e Prelati Riminesi, SC-MS. 195, BGR, p. 265. (Planco, nel proprio testamento, aveva inserito Drudi nella terna di autori tra cui scegliere l’incaricato per la sua orazione funebre, assieme a don G. P. Giovenardi, che poi, come si è visto, la compose, ed al dottor Cesare Torri di Jesi, altro ex alunno.)

[40] Cfr. Novelle letterarie, n. 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474.

[41] Cfr. G. C. Amaduzzi, Manoscritti n. 33, c. 35, BFSA: questo documento è stato già presentato in A. Montanari, I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Notiziario dell’Accademia dei Filopatridi», 1993, nn. 3-4; e «Riminilibri» n. 5, marzo 1994. Nella cit. lettera a Bertòla del 3 gennaio 1776, Amaduzzi parla di «sei anni».

[42] Cfr. fasc. 75, FGMB.

[43] Forse alla crisi dei Lincei, è legata l’accettazione da parte di Planco, nel 1756, della carica di principe dell’Accademia modenese dei Medici Conghietturanti.

[44] Cfr. il prologo alla dissertazione di Gaspare Adeodato Zamponi, De Lumbricis Corporis Humani, fasc. 219, FGMB.

[45] Si tratta della prefazione a due sue epistole mediche.

[46] Il brano appartiene alle pp. 4-5 del fasc. 75, FGMB.

[47] Si tratta del già cit. Elogio di Monsig. G. Bianchi.

[48] Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR, c. 2r.

[49] Cfr. A. Montanari, «Giuseppe di Prospero Zinanni», accademico dei Lincei planchiani, «Ravenna studi e ricerche, Società di Studi ravennati», VIII/1-2, 2001, pp. 109-128.

[50] Cfr. Fabi, op. cit., p. 7. Il testo di Bertòla apparve sulla Gazzetta Universale di Firenze, n. 101, 19 dicembre 1775, pp. 807-808. A Bertòla lo scrittore riminese F. Ferrari (nell’anonimo Giudizio libero d’una lettera di giovinetto autore), fece osservare che «se poco amico fu Planco di quella massima legge», non poteva essere «giudizioso osservatore della Natura»: cfr. in Fabi, op. cit., p. 16, nota 28. Bertòla fu difeso da A. M. Borgognini, Riflessioni..., Lucca 1776, p. 9, che rincarò la dose contro lo scienziato riminese: «In fatti Giano fu Filosofo, ed osservò con giudizio la Natura, ma poi all’incontro, non poté mai soggettare il suo fervido ingegno a ripetere più, e più volte gli esperimenti, poiché egli amava per carattere la varietà, quindi ne nacque, che quelle cose, che potevano osservarsi con sollecitudine erano dal Signor Bianchi esattamente vedute, ma dove poi face d’uopo per rintracciare la verità una lunga serie d’esperienze, non era questo lavoro per lui, e ne abbandonava l’impresa, o se pure voleva seguirla il facea con lentezza, ed il più delle volte con infelice successo». Bertòla scrisse ad Amaduzzi il 26 dicembre 1775, inviandogli «l’elogio di Planco vostro»: «Ho detto delle verità alquanto dure. La vostra dolce e assai più umana filosofia renderà a Planco quello che io gli ho potuto torre colla mia forse soverchia schiettezza. [...] Ricordatevi che io ho qualche poco di immaginazione poetica, e in conseguenza una buona dose di amabile pazzia.» (Manoscritti n. 4, BFSA). Di Bertòla, Bianchi il primo dicembre 1774 aveva scritto ad Amaduzzi che era un «Giovane di molta abilità, e talento» (Manoscritti n. 5c, tomo IV, BFSA)

[51] Il testo è in G. Gasperoni, Settecento italiano (Contributo alla storia della cultura), I. L’ab. Giovanni Cristoforo Amaduzzi, Padova 1941, pp. 319-343. Il brano cit. è alle pp. 325-326.

[52] Il brano prosegue: «e mi trovai spesso anche nel caso di dover vendicare il sistema Agostiniano per conto delle dottrine teologiche dai ben noti contrari attacchi, giacché incerto della futura mia sorte, premuroso di non mancare di un presidio, che una volta mi potesse essere necessario, e di cui ne mancano tanti, che dovrebbero pur possederlo, e che nonostante giudicano su queste materie, e giudicano coll’altrui sentimento, e mortificato sovente di non comprendere tante clamorose questioni del secolo, che nella capitale della religione specialmente si discutevano, riputai conveniente cosa accingermi anche a que’ studi, quasi collo stato mio tuttora profano non mi sono mai pentito d’aver congiunti».

[53] Si tratta di questi testi: Sul fine ed utilità dell’Accademie (1776), La Filosofia alleata della Religione (1778), e Dell’indole della Verità, e delle Opinioni (1786). Nel saggio di M. Ceresa, Una biblioteca nella Rivoluzione, «Due Papi per Cesena. Pio VI e Pio VII nei documenti della Piancastelli e della Malatestiana» (a cura di P. Errani), Bologna 1999, p. 216, si legge che Pio VI possedeva «una sola opera, un opuscolo, di Giovanni Cristofano Amaduzzi», secondo quanto emerge da un Catalogo conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Grazie alla cortesia dello stesso dottor Massimo Ceresa, dell’Apostolica Vaticana medesima, ho potuto apprendere che l’opuscolo cit. è il Discorso dell’indole della Verità, e delle Opinioni.

[54] «Le insinuazioni domestiche a serbare in ogni azione la verità e la schiettezza, qual patrimonio di casa, e qual marca d’onore, trovarono la più volontaria accettazione nel mio cuore quasi come loro sede» (cfr. Rimostranza, nel cit. Gasperoni, Settecento italiano, p. 325).

[55] Cfr. la cit. lettera del 3 gennaio 1776.

[56] Come anticipato alla nota 41, il periodo riminese di Amaduzzi è qui definito di «sei anni», mentre di «sette anni» si parla alla c. 35 di Manoscritti n. 33.

[57] Nella cit. cartella in FGMR, AGC, sono conservate dodici lettere (1775-1778) di Amaduzzi al nipote di Planco, dottor Girolamo Bianchi: alcune contengono, come leggiamo nella prima (9 dicembre 1775), la richiesta di ricercare tutte le sue missive inviate allo zio «quasi ogni settimana cominciando dal Maggio dell’anno 1762» (quando lo stesso Amaduzzi si recò a Roma), «sino al tempo presente». Nel FGLB, ad vocem, di questo immenso carteggio, sono conservati soltanto diciotto esemplari, contro le 984 epistole di Bianchi ad Amaduzzi custodite in BFSA: cfr. G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, I, Forlì 1890, p. 104. (Il 17 giugno 1773 Amaduzzi inviò al maestro la «Benedizione in Articulo Mortis», come Bianchi appuntò sopra l’indirizzo di quella missiva, FGLB, ad vocem.)

[58] Cfr. G. Bianchi, Minute di lettere 1717-1770, SC-MS. 965, BGR, c. 101r: la missiva è monca, senza data (ma febbraio 1752), e senza destinatario (un’«Eccellenza» che era il padre di Giambattista, forse di Bologna). Analoga minuta, c. 102r, è una raccomandazione diretta a persona di quella stessa città, dove Antonia fu spedita da Planco dopo lo scoppio dello scandalo.

[59] Cfr. le lettere di A. Cavallucci in FGLB, ad vocem.

[60] Cfr. A. Montanari, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna, arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60. Qui si parte dal caso di una giovane «di bassa estrazione, e maggiormente avvilita dall’esercizio di Cantastorie sopra un pubblico teatro», che sposa un nobile riminese in «contravenzione della legge sopra i Matrimonj disuguali» (p. 46).

[61] Segue un elenco dei «principali suoi critici».

[62] Si tratta della lettera del 9 dicembre 1775 già cit. alla nota 57.

[63] Nel 1766 Bianchi compiendo un tour a Loreto, Assisi, Perugia, Todi, Napoli, Siena, Firenze e Bologna, si fermò a Roma dove conobbe l’abate Johann Joachim Winckelman, come Amaduzzi ricorda l’anno successivo nelle Novelle letterarie (cfr. tomo XXVIII, n. 34, 21 agosto 1767, coll. 531-534: Amaduzzi dal 1766 è assiduo collaboratore del foglio fiorentino, seguendo l’esempio del maestro). Su questo soggiorno romano di Planco, cfr i suoi citt. Viaggi 1740-1774, ad annum; ed uno scritto amaduzziano di archeologia, apparso in Miscellanea di varia Letteratura di Lucca, tomo VII, 1768 (p. 175).

[64] Cfr. il cit. tomo VII, p. 129.

[65] Cfr. lettera del 21 febbraio 1770, FGLB.

[66] Cfr. E. Raimondi, I lumi dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Milano 1989, cap. «Ragione ed erudizione  nell’opera di Muratori», pp. 79-97 (ripubblicato in Id., I sentieri del lettore, ii, Dal Seicento all'Ottocento, Bologna 1994, pp. 133-150). Raimondi, sulla scia di L. A. Muratori, contrappone ad un’erudizione «oratoria o all’antica», quella «di gusto moderno, sul tipo scientifico, [...] legata allo spirito critico e nutrita di ragione moderna».

[67] Della loro esistenza ho dato per primo notizia nel 1992 nel cit. volume Lumi di Romagna (p. 102, nota 1). Conservati in BFSA, essi si riferiscono soltanto agli anni 1757-59.

[68] La cit. è tolta da p. 51. Cfr. la mia Appendice all’ed. an. del discorso amaduzziano La Filosofia alleata della Religione, Rimini 1993, pp. 58-59. (Su tale ed., cfr. la mia dissertazione nel Quaderno XVII dell’Accademia dei Filopatridi, Savignano 1995, pp. 119-126.)

[69] Cfr. «Il Caffè», 1764-1766, Torino 1998, p. 770.

[70] Secondo Condillac, in quanto «cause fisiche», le «qualità» esistono realmente «nei corpi», ma esse danno soltanto «occasione alle impressioni che provocano sui nostri sensi»»: cfr. G. Paganini, L’io e le idee, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Roma-Bari 1966, p. 248. Bianchi è completamente al di fuori del dibattito su questo tema.

[71] Grazie proprio a J. Locke (1632-1704) di cui parla Amaduzzi (soprattutto nel terzo discorso filosofico), l’«Europa éclairée» conosce quella che Sergio Moravia chiama la «liberalizzazione epistemologica», la quale approda a molteplici opzioni metodologiche grazie alla lezione dell’empirismo, che sostituisce «tutta una serie di categorie o di strumenti di indagine con altri strumenti e categorie»: cfr. S. Moravia, Filosofia e scienze umane nell’età dei lumi, Milano 2000, p. 5. Sulla fortuna di Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da parte di Amaduzzi, cfr. A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, ne «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura di L. Morelli, Firenze 2000, pp. XXVIII-XL.

[72] Cfr. B. Fadda, L’innesto del vaiolo, Milano 1983, p. 192-193.

[73] Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Il Ponte, Rimini 1998, p. 75, nota 85.

[74] La lettera è nel cit. FGMR, AGC. Da altre due precedenti missive (29 novembre 1769 e 21 gennaio 1770), ricaviamo che Bianchi sperava di poter ripubblicare i suoi testi presso la Stamperia di Propaganda Fide, grazie ai buoni uffici di Amaduzzi.

[75] Cfr. il mio cit. Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano; e M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel Settecento italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de’ Ricci, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVIII, 1, Roma 1974, pp. 94-126; e XXX, 2, Roma 1976, pp. 405-437.

[76] L’ingresso nella Stamperia di Propaganda Fide, avvenne contro il parere del suo Prefetto, cardinal Giuseppe Maria Castelli (futuro Camerlengo del Sacro Collegio), che riteneva Amaduzzi antigesuita. In base a tale opinione, Castelli aveva già respinto un precedente intervento a favore del savignanese fatto da papa Ganganelli.

[77] Cfr. la cit. Orazion funerale, p. XXVIII. Nell’Arte comica Planco aveva mostrato un atteggiamento opposto a quello manifestato in precedenza: difese dagli attacchi dei Giansenisti la pedagogia dei Gesuiti, i quali usavano nei loro collegi anche il palcoscenico per educare gli allievi. Ed agli «schiamazzi de Giansenisti d’Italia» aveva attribuito erroneamente la condanna all’Indice del suo trattatello: cfr. il cit. mio saggio Tra erudizione e nuova scienza.

[78] Sulle affinità tra il pensiero di Amaduzzi e quello di papa Ganganelli, ricordo il passo di un’epistola che il futuro Clemente XIV scrisse nel 1757: «La filosofia è la base della vera Religione, essendo la Fede appoggiata sulla ragione» (senza nome del destinatario, p. 165 della cit. ed. veneziana delle Lettere interessanti).

[79] Cfr. nel cit. Lumi di Romagna, il cap. 6. «L’insonnia di papa Ganganelli», pp. 57-62.