il Rimino - Riministoria

Tatarcord? La Rimini di Davide Minghini
Le sue foto in mostra al Palazzo del Podestà

Per Rimini e buona parte del territorio che circonda la nostra città, Davide Minghini è stato lungo molti lustri la memoria visiva che ha registrato con accuratezza non soltanto i grandi fatti, ma pure i segni dei mutamenti, che avvenivano in maniera apparentemente lenta, d'una società e d'una civiltà (se la parola non suona troppo grossa, come spero).

Dirlo fotografo significa solamente collocare un'indicazione utile come può esserlo qualsiasi cartello stradale, dove leggiamo il nome di un palazzo, e non ne troviamo spiegata la storia. Cronista del suo tempo, di quel fluire delle vicende collettive e delle singole persone, il suo progetto fu forse ambizioso nell'accumulo dei materiali, ma non arrogante perché in Minghini prevalevano la cortesia sincera e la fatica umile di chi, con la certezza dell'onesto lavoro quotidiano, andava in silenzio testimoniando ai posteri le mille facce della realtà.


L'artigiano
e il tecnico

Adesso che la preannunciata mostra curata dall'Archivio fotografico della Biblioteca Gambalunghiana (dal 25 ottobre al 30 novembre al Palazzo del Podestà), ci offre l'occasione di ripensare a questo impareggiabile artista che aveva la costanza di un artigiano ottocentesco e l'arguzia di un tecnico alle prese con gli strumenti tecnici più moderni, alla mente ritornano tanti episodi che risalgono sino ad oltre quarant'anni fa.

Di quegli anni Sessanta del secolo scorso, Minghini (scomparso nel 1987) ha raccontato le mille facce: un turismo confermato ai suoi livelli internazionali, una città in crescita (sempre affannosa e urbanisticamente confusa), un angolo di pigra provincia invernale che poi tutt'ad un tratto ebbe i primi sussulti, mostrò i segnali che «il mondo stava cambiando», mentre ancora molti, forse troppi, non se ne volevano accorgere.


Dai vitelloni
alla contestazione

Quel decennio vide passare la città dal sonnolento tran-tran (che sotto certi aspetti doveva per forza richiamare alla mente le immagini dei «Vitelloni» felliniani), agli scossoni della «contestazione generale» che faceva uscire gli studenti dalle aule scolastiche nelle strade dove si consumarono i primi rivolgimenti delle «verità» universalmente accettate.

Un giorno arrivò una troupe televisiva (c'era soltanto la Rai, allora) guidata da Sergio Zavoli (eravamo forse ancora nel 1967, o pochi mesi dopo), per realizzare all'Arengo una trasmissione sul rapporto fra padri e figli. Ad un certo punto Zavoli fu costretto a riprendere il lavoro dall'inizio perché alla dichiarazione di una ragazza sulle difficoltà di dialogo incontrate in famiglia, aveva fatto sèguito l'accesa risposta della madre che, sentendosi offesa, assicurò la sua bambina: «Con te, i conti li facciamo poi a casa».


«Rimini
da salvare»

Proprio prima che la «contestazione generale» attirasse l'attenzione altrettanto generale della gente, cogliendo di sorpresa più gli ambienti che si consideravano progressisti di quelli tranquillamente reazionari (i quali aspettarono, e trovarono facilmente, le occasioni per menare le mani ed usare i bastoni non soltanto in città), con Minghini organizzai un servizio che aveva per tema la «Rimini da salvare».

La prima puntata apparve il 20 novembre 1968 sul periodico cittadino «Il Corso», diretto dall'indimenticabile amico Gianni Bezzi. La settima ed ultima puntata fu pubblicata il 30 gennaio successivo, con la promessa d'una continuazione che non ci fu. In quei giorni lasciai «Il Corso», intravedendone l'imminente chiusura, e tutto finì lì.

Da Piero Meldini e da Oriana Maroni che cura la mostra su Minghini, ho appreso che in essa sarà presentata una sezione chiamata appunto «Rimini da salvare». Poi Francesca Sancisi, per conto della Gambalunghiana, mi ha chiesto notizie su quell'iniziativa giornalistica e sul materiale che sarà ospitato al Palazzo del Podestà.

Non conosco quante siano state le foto archiviate da Minghini sul tema (od esposte ora), ma soltanto quelle che mi passò per la pubblicazione. Quindi non posso che ricordare due aspetti: le intenzioni mie nel formulare il progetto dell'inchiesta (che non ho avuto voglia di rileggermi), ed il senso della collaborazione con Minghini (argomento che stava in particolare a cuore a Sancisi).

A Minghini suggerivo i temi che dovevano essere illustrati, e lui li traduceva in riprese sempre accurate e perfette, con suggestivi scorci che, a distanza di tanti anni, non hanno perso nulla della loro eleganza formale e del contenuto informativo.

Tra le 'cose' da salvare che elencai allora, c'era ovviamente l'arco di Porta Montanara (destinato proprio adesso al ritorno in via Garibaldi), che era stato inizialmente collocato in terreno comunale (ex area museale prebellica) e che dopo la costruzione del mercato coperto «San Francesco» venne attraversato da un piccolo «muro di Berlino» che divideva il luogo pubblico del mercato stesso dalla proprietà privata della Curia.

Che dalla nostra inchiesta del 1968 alla sistemazione dell'arco di via Garibaldi siano passati tranquillamente 35 anni, significa che le nostre intenzioni di allora non approdarono a nessun risultato? Allora non c'era nella classe politica molta sensibilità verso questi aspetti della cultura monumentale. Vennero successivamente, come ho spiegato a Francesca Sancisi, momenti duri, con problemi gravi: dalla contestazione alle questioni sindacali, al terrorismo. Da salvare c'era la pelle, non le mura malatestiane vicino alla Madonna della Scala (come fu fatto in anni successivi).


Il mistero
dei teschi

Rispolverando le vecchie pagine del «Corso», proprio a fianco della prima puntata del 20 novembre 1968, ho riletto soltanto un corsivo che d'altra parte ricordavo alla perfezione.

In breve. Durante i primi lavori di restauro a Castel Sismondo, erano stati rivenuti teschi in gran numero, ammassati poi in un ampio scatolone. Passando nei pressi della rocca diedi un'occhiata, vidi aperto il misterioso e macabro contenitore, poi andai di corsa da Minghini. In studio non c'erano né lui né il suo operatore Guido Marchioni (anch'egli ottimo fotografo). Ritorno quindi al Castello per prendere un appuntamento. Mi spiegano che su quei teschi c'è l'ipoteca di un'esclusiva della Rai che deve scendere da Bologna.

Noi abbiamo fatto in tempo ad uscire il 20 novembre 1968 con la notizia di quell'assurda esclusiva, senza veder nulla nei tigì di Mamma Rai. Sono poi trascorsi trentacinque anni e del ritrovamento di Castel Sismondo non si è avuta più alcuna notizia.

Perché, lo ignoro. Spero che ci sia qualche esperto di buona memoria, capace o desideroso di chiarire questo episodio, in mezzo ai tanti che s'appassionano in città alla materia.


In Romagna
con Matteini

Quando all'inizio di queste righe ho parlato dei segni della nostra società e civiltà registrati sulla pellicola da Minghini, non pensavo soltanto alle immagini giornalistiche ma soprattutto a quelle che, ad esempio, costituiscono il filone narrativo visivo della «Romagna» con testi di Nevio Matteini, volume edito da Cappelli di Bologna proprio quarant'anni fa. La differenza con il nostro vivere quotidiano attuale, lo dimostrano le foto con i relativi commenti: il gregge condotto da un bambinetto sul greto del Marecchia («Immagine bucolica» recita la didascalia: e sembra un olio ottocentesco), oppure quattro diversi filari testimoni della «stessa serena quiete» della nostra terra.

Introvabili se non nella memoria, sono i momenti delle donne al nostro lavatoio pubblico. Oppure le carrozzelle in fila alla stazione, già avvertite allora come «memorie di un tempo che scompare».

Una volta Davide Minghini, che era stato anche a ritrarre il set felliniano d'«Amarcord», organizzò una mostra il cui titolo era veramente, come suol dirsi, tutto un programma: «Tatarcord?». Questa rassegna postuma al Palazzo del Podestà aiuterà a rinfrescare le nostre memorie individuali e comuni, per chi ha vissuto quegli anni, con lo spirito di quel titolo.

E per chi allora non c'era, sarà occasione di scoprire frammenti d'una recente archeologia sociale per la quale il sottoscritto, contrariamente a quanto accade di solito in chi ha superato la sessantina, non nutre intimamente alcun rimpianto. E spiegarne il perché sarebbe ora troppo lungo. E forse non ne sono neppure capace, a causa dell'avanzare dell'età. Confido tuttavia nell'aiuto disinteressato (?) di qualcuno di quei numerosi spiriti concittadini, superbamente colti e sommamente eruditi, che tutto sanno e tutto amano fare, compreso l'interpretare ex cathedra il pensiero altrui ancorché non espresso.

Antonio Montanari


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833/15.09.2003