Riministoria © Antonio Montanari

1914, Sarajevo è lontana...
Come Rimini visse la vigilia della “grande guerra”


Domenica 28 giugno 1914 l’Agenzia di notizie Stefani comunica che l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie duchessa di Hohenberg sono stati uccisi a Sarajevo, capitale della Bosnia, da «uno studente dell’ottava classe liceale, certo Prinzip, nativo di Grakovo (Bosnia)». Poco prima l’arciduca era riuscito a respingere con le braccia una bomba lanciatagli contro da un tipografo di nazionalità serba.

Già, la Serbia. A Sarajevo esplode la sua rivalità con l’Austria, a cui premeva che la Serbia non avesse uno sbocco al mare (temuto anche dall’Italia). Quello sbocco, scrive Sergio Romano, avrebbe fatto diventare la Serbia «ciò che il Piemonte era stato sessant’anni prima per le sue provincie italiane».

Quel giorno a Sarajevo riesplode il problema dei Balcani. L’impero austro-ungarico nasce nel 1867, con autonomia per i due Paesi uniti nella persona dell’imperatore. Nel 1908 l’Austria si annette la Bosnia-Erzegovina, suscitando il risentimento della Serbia (filorussa) che vorrebbe unire le popolazione slave dei Balcani (Bosniaci, Erzegovini, Croati, Sloveni). Alla conclusione delle due guerre balcaniche (1912-13) nasce l’Albania indipendente, e la Serbia si allarga in Macedonia.

Alla fine del giugno 1914, Rimini vive già nel pieno della stagione turistica, ufficialmente aperta dal giorno 14. Ci sono preoccupazioni, ma riguardano la politica interna, non quella estera. Un foglio repubblicano locale, «Il Giornale del Popolo», il 4 luglio accusa: la «stampa quotidiana reazionaria», con «le diffamazioni più balorde», cerca di sabotare la vita turistica che promette bene.

Non si guarda a Sarajevo, ma ad Ancona. Il governo Salandra aveva vietato le manifestazioni antimilitariste preannunciate per il 7 giugno, festa dello Statuto. Nel capoluogo marchigiano, l’8 giugno dopo un comizio a Villa Rossa di Pietro Nenni (repubblicano) e di Errico Malatesta (anarchico), c’è uno scontro. Alcuni comizianti, da una terrazza della Villa, tentano di lanciare un pesante barile contro la forza pubblica. Una guardia esplode colpi di rivoltella a scopo intimidatorio. I carabinieri, credendoli partiti dalla folla, aprono il fuoco. Tre dimostranti restano uccisi.

E’ proclamata una settimana di scioperi nazionali. In altri disordini, muoiono tredici dimostranti ed un appartenente alla forza pubblica. In Romagna e Marche c’è un vero e proprio tentativo insurrezionale.

Dal 9 giugno i tumulti esplodono anche a Rimini. Durano quattro giorni. In prima fila ci sono i contadini, i quali ammassano migliaia di capi di bestiame nel «prato della Sartona» (stadio attuale). La violenza dilaga in città. La gente urla: «Abbasso i preti, evviva la repubblica popolare». Davanti al Seminario, di fianco al Tempio malatestiano, è fatta esplodere una bomba. C’è un tentativo di invadere la stazione ferroviaria, e di incendiare l’ingresso del municipio. I rinforzi militari al loro ingresso in città nel borgo di San Giuliano, tradizionale roccaforte anarchica, sono presi a fischi e sassate.

L’ordine viene ristabilito senza colpo ferire il giorno 12. Il rumore di un bambino che cade durante un comizio indetto per annunciare la cessazione dello sciopero generale, è scambiato per un colpo di fucile: la folla se la squaglia.

Racconta un testimone di quei giorni, Guido Fabbri che allora aveva dodici anni: «Erano tempi burrascosi, la folla eccitata composta da socialisti, repubblicani e anarchici metteva a subbuglio la città». Il parroco del Suffragio puntellò i portoni d’entrata della chiesa per timore di un’invasione. Quella folla aveva «appiccato il fuoco alla porticina del Duomo, al tempietto di Sant’Antonio, alla Cancelleria vescovile, alla porta della chiesa dei Servi», e aveva «attaccato gli uffici del dazio bruciando i registri». Nel negozio dell’armaiolo Fava, erano state asportate armi. Altri pubblici esercizi furono presi d’assalto. C’era il terrore, e la gente non usciva di casa. [«I miei novant’anni», p. 27]

«Il Giornale del Popolo», a commento della «Settimana Rossa», il 27 giugno riporta un articolo di Giovanni Papini apparso sulla rivista fiorentina «Lacerba»: «C’è crisi, c’è miseria. […] E quando un popolo sta male a quattrini e non ha simpatia né soggezione per i suoi direttori è possibile tutto: anche la rivoluzione». «L’Ausa» (foglio cattolico) il 20 giugno scrive che il governo è stato «debole, impotente, vile di fronte ai sovversivi», ed accusa i «parolai del sovversivismo» di ostentare pietà quando «avviene disgraziatamente un conflitto tra il popolo e la forza pubblica».

Rimini resta una città sorvegliata speciale. «Il Giornale del Popolo» parla di «provocazioni poliziesche coi ‘pattuglioni’» che perquisiscono a marina gli ungheresi, ed in città o nei sobborghi il domicilio di persone insospettabili, come il «sig. Domenico Francolini».

Francolini era un vecchio rivoluzionario: a ventiquattro anni, il 2 agosto 1874 a Villa Ruffi era stato arrestato con altri ventisei partecipanti ad un incontro segreto dei mazziniani, che aveva fatto temere al governo la preparazione di un’insurrezione armata. Era l’unico a non aver avuto esperienza di guerre garibaldine. Liliano Faenza lo definisce un «repubblicano flessibile».

Il 4 luglio «L’Ausa» commenta la tragedia di Sarajevo: «Un altro esecrando delitto ha fatto fremere di orrore tutti gli uomini di cuore, e ha piombato nell’angoscia e nel lutto l’augusta casa degli Asburgo». Di Francesco Ferdinando, scrive che aveva «sentimenti cattolici molto accentuati […] qualità personali positive ed un carattere fortemente temprato».

«Il Giornale del Popolo» osserva: «L’Austria nemica è in lutto; noi non presentiamo le nostre condoglianze. […] E’ deplorevole che il sangue cada sugli innocenti, che la morte segni colla sua tragica sigla le vendette, le rivendicazioni dei popoli oppressi; ma i potenti, i tiranni rifuggono forse essi dal sangue e dalla morte?».

La tragedia di Sarajevo, prosegue il periodico repubblicano, è «scontro immane di razze, battaglia di schiatte che si contendono i diritti del dominio e dell’azione vittoriosa. […] I popoli irredenti che sono incastrati colla forza brutale nel caotico impero di ribellano, chiedono libertà di regolare se stessi, ma il governo coi suoi sbirri ne lo vuole impedire. A Trieste la grande maggioranza è sopraffatta dalla minoranza degli slavi meridionali aizzati dal governo».

Il 28 luglio l’Austria invia la dichiarazione di guerra al governo serbo. Il 1° agosto la Germania dichiara guerra alla Russia. Il giorno successivo l’Italia dichiara la sua neutralità.

Scrive il 5 settembre «Il Giornale del Popolo»: «E’ giunta l’ora della riscossa dei popoli civili, democratici, liberali contro il dispotismo», per cui occorre stare «con le armi al piede». Ai redattori dell’«Ausa» il foglio repubblicano grida «Sciacalli!», per aver essi scritto di non poter «augurare la vittoria alle armi francesi»: «Essi sono per le gesta stupratrici del pronipote di Barbarossa».

Intanto l’«Ausa» il 13 luglio critica le «ultime acconciature muliebri, diventate addirittura procaci ed invereconde». Il 1° agosto ospita la lettera di un gruppo di madri che denunciano la «follia sensuale» della «cura balneare» e del «costume da bagno».

Il giornale invita le donne cattoliche a lottare «per una moda tutta ‘nostra’, tutta ‘italiana’»: occorre evitare quella francese che offende il pudore con «costumi d’inspirazione semitica» ed indossati dalle «ebree orientali a Tunisi e altrove».

[Questo voleva essere il primo di una serie di articoli sul periodo 1914-18. Ma la Biblioteca Gambalunghiana ora non permette di consultare la raccolta dei giornali antichi se non sui microfilm, cosa che risulta molto ‘difficile’ per chi, oculisticamente, non è più in verde età. Sono così costretto a rinunciare al progetto iniziale. Me ne scuso con gli amici lettori.]



Antonio Montanari



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