Riministoria© Antonio Montanari

Biografia di mons. Luigi Santa

 

In Seminario

 

Africa. Per il seminarista Luigi Santa, sedici anni, quinta ginnasiale alle porte, quel nome richiama soltanto un ricordo geografico. È il settembre 1911. Un suo ex compagno di studi, Giuseppe Francisco, volontario con gli alpini alla guerra di Libia, dal fronte gli descrive le miserevoli condizioni degli arabi, per i cui bambini Luigi raccoglie piccole offerte. Il gesto annunzia un destino. Rispondendo all’amico, Luigi manifesta il desiderio di poter andare in futuro anche lui in Africa, ma ad annunciare la pace del Vangelo.

Luigi conosce per esperienza diretta il significato di parole come miseria e fame. Proviene dalla campagna di Chivasso. È nato a Castelrosso il primo giugno 1895, nono ed ultimo figlio di Giovanni e Marcella Avanzato che vivono all’interno di una famiglia patriarcale composta da venti persone. Cinque loro bambini sono morti prima di raggiungere i cinque anni d’età. Il padre è scomparso nel settembre del ’96, quando Luigi aveva soltanto sedici mesi. La madre ha dovuto sfamare le sue quattro piccole bocche, aiutata dalla suocera. Luigi è vivace, corre per i campi dove aiuta i parenti e gioca con i cugini. Un giorno scivola da un ponticello dentro una roggia. Lo salva la sorella Maria con il rastrello usato per ammassare il fieno. Soltanto in chiesa acquista compostezza, diventa un altro.

 

Nei primi tre anni di scuola elementare, frequentati a Castelrosso, si segnala per studio e condotta. I premi che porta a casa, ripagano la madre delle preoccupazioni. Nel 1904 per completare il ciclo delle elementari va Chivasso: ogni giorno a piedi fa otto chilometri tra andata e ritorno.

A Chivasso Luigi si prepara alla Cresima ed alla Prima Comunione. Sono i momenti in cui egli avverte la chiamata del Signore. La mamma riceve la sua prima confidenza sulla volontà di farsi prete. Lei non è sorpresa, ma non si fida delle proprie sensazioni. Vuole che sia un sacerdote cugino dei Santa, don Firmino Golzio, a pronunciarsi.

Il giudizio è favorevole. Don Golzio sbriga le pratiche che portano Luigi, il primo ottobre 1907, al Seminario di Ivrea. Così lo ricorderà un suo professore: "Arrivò in lindo, rustico abito. Pallido, sereno, timido, misurato e pensoso".

 

I primi mesi sono di difficile rodaggio. L’assistente della camerata difende Luigi davanti al Rettore che vorrebbe rispedirlo alle campagne d’origine. I fatti gli danno ragione. Quel ragazzo incerto s’impegna per recuperare lo svantaggio e diventa il primo della classe, non per soddisfazione d’orgoglio, ma per obbedire ad un impegno di serietà che estende nell’aiuto ai compagni di studio. Dirà Luigi Santa divenuto Vescovo: "Quando una cosa ci appare difficile e un linguaggio duro, bisogna applicarvisi con maggiore attenzione". D’estate torna a casa dal Seminario, e condivide la vita dei campi con fratelli e cugini.

Agli esami di terza ginnasio nel 1910 è promosso con la media del nove. Due anni dopo, a quelli di licenza, per la sua preparazione stupisce gli esaminatori che lo elogiano pubblicamente. Passato al liceo, indossa con gioia l’abito talare: "Amare il Signore con una sottomissione piena, amorosa, umile", è il suo programma di vita. Studia con devota attenzione la "Storia di un’anima" di Teresa di Lisieux, ricevendone (sono parole sue) "un gran bene". Diventa assistente dei bambini di quarta e quinta elementare del Piccolo Collegio. Un suo insegnante liceale, mons. Borra lo avrebbe ricordato come una figura che "è sempre stata al di sopra di tante altre pur degne di rilievo, per un complesso di qualità che non troppo sovente si trovano unite in una sola persona". Prima di iniziare il suo lavoro, ogni mattina all’alba va a pregare in cappella. Cresce in lui la consapevolezza della "chiamata" del Signore.

 

 

1915, in guerra

 

Nel 1915 l’Italia entra in guerra. Luigi viene chiamato alle armi mentre si sta preparando alla licenza liceale: al momento di lasciare il Seminario, invoca la protezione di Pio X, morto l’anno precedente, "il Papa della mia vocazione, della mia formazione, del mio destino". Prima è di stanza a Torino, poi deve trasferirsi all’Ortigara. Ammalatosi, fa ritorno a Torino e diventa segretario particolare del generale della Prima Compagnia di Sanità. Si segnala e si fa benvolere per l’impegno e la capacità dimostrati. In chiesa, adesso come da bambino, Luigi non è più allegro ed attivo. La preghiera lo inchioda all’inginocchiatoio. Il suo pensiero va sempre più al progetto di essere missionario in Africa.

Estate 1919: ottenuto il congedo, Luigi torna in Seminario, per completare i corsi di Teologia, materia mai abbandonata durante il servizio militare. A Pinerolo ha conseguito la "licenza normale" che dà diritto all’insegnamento elementare. Per proseguire all’università, vorrebbe ottenere anche quella liceale, non conseguita a causa dell’arruolamento. Ma questo non è "nei desideri" del Vescovo mons. Filipello. E Luigi si ferma per obbedienza.

Se qualche anno prima aveva organizzato una piccola società filodrammatica mettendo in mostra le sua qualità di recitazione, adesso fonda la "Compagnia del Fil di Ferro" per i reduci della guerra in Seminario, un modo originale di aiutare i ragazzi in crisi. La merenda unisce nella spensieratezza, a cui tengono dietro il confronto e l’approfondimento degli argomenti di studio. Altra sua iniziativa, è la fondazione du un Circolo missionario dedicato al "Sacro Cuore di Gesù".

Durante gli Esercizi Spirituali in preparazione agli Ordini, Luigi decide di entrare nell’Istituto dei Missionari della Consolata. Il 18 dicembre 1920 diventa diacono. Da qualche mese è insegnante in quarta elementare nel Piccolo Seminario. "Chiaro, paziente, bravo", lo ricorda un suo ex allievo. Prima di ricevere il 26 marzo 1921 l’Ordinazione sacerdotale, conferma il progetto di essere missionario "sotto la protezione della Consolata".

 

 

"Alla Consolata!"

 

Il Vescovo Filipello ha grande stima di don Santa. Per lui progetta una degna carriera da iniziare con un anno di tirocinio quale viceparroco a Verolengo, vicino a Castelrosso. Don Santa vi esprime un severo impegno pastorale. Ogni giorno attende per un’ora i fedeli al confessionale, si esercita nella predicazione, organizza attività ricreative per i fanciulli, dirige un circolo femminile dedicato a Giovanna d’Arco, insegna alla scuola serale per adulti, ai quali legge parti della Commedia dantesca.

Passato l’anno, egli chiede al Vescovo il permesso di andare alla Consolata. Mons. Filipello gli risponde negativamente ancora una volta: deve rimare a Verolengo. Nel maggio ’22 don Santa si reca a Lourdes: "Domando alla Madonna la grazia di esserle degno figlio missionario". Il 15 ottobre ’22 scrive a don Adamini: "Il Signore vuole forse da me il sacrificio di una partenza non benedetta da Monsignore e mi accingo ad agire silenziosamente, ma decisamente". Ha appena esposto "a Torino" il suo piano: "fu approvato ed incoraggiato".

 

Don Santa progetta di inviare "un ultimatum a Monsignore comunicandogli" la sua "decisione irrevocabile": "La prova è dura; eppure mi sfugge spesso dalle labbra e dal cuore il Deo gratias della riconoscenza". È il 16 novembre. Il 21, festa della Presentazione di Maria al tempio, parte "per le Missioni della Consolata", dopo aver scritto una lettera piena di rispetto al Vescovo, e senza salutare nessuno della propria famiglia.

Il passo, scrisse Padre Bartolomeo Giorgis (allora novizio alla Consolata), "era carico di gravissime conseguenze. Lasciava la Diocesi senza la benedizione del superiore amato; anzi contro la volontà di lui". Don Santa però è convinto di non aver disobbedito al Vescovo, ma di aver soltanto seguìto il dettato della propria coscienza. C’è una sua frase dal senso autobiografico: "Se debbo dirti una parola, è che ti appigli al partito che più costa". Lui ha fatto così.

La sera del 27 novembre inizia gli Esercizi Spirituali che lo preparano alla vestizione religiosa. Per due settimane, aggiunge Padre Giorgis, "Santa fu posto sotto la pressa e divenne ben presto un modello". Cinge la fascia sulla talare alla vigilia dell’Immacolata il 7 dicembre ’22. Durante i dodici mesi del noviziato si dedica alla preghiera, all’ascetica ed all’acquisto della vita contemplativa. Confida umilmente: "Credevo di possedere già abbastanza virtù sacerdotale, ma ora ho capito che ne ero appena all’abbiccì". Ha frequenti colloqui con Padre Giuseppe Allamano, futuro Servo di Dio, che ha fondato la Consolata ventidue anni prima.

All’inizio del ’23 mons. Filipello manda a don Santa la sua benedizione.

 

 

1924, in Etiopia

 

L’8 dicembre ’23 Padre Santa emette solennemente la Professione religiosa temporanea. Il 7 febbraio ’24 parte per l’Etiopia: Padre Allamano lo ha destinato al Kaffa, una regione montuosa sud-orientale. Il primo missionario della Consolata a mettervi piede è stato mons. Gaudenzio Barlassina nel ’18, dopo cinque anni di attesa causata da difficoltà politiche, ed a quindici dallo sbarco in Africa dei primi padri dell’Istituto.

In Etiopia la religione cattolica è stata proibita dopo l’espulsione del francescano Padre Guglielmo Massaia nel 1879. Ci sono pure forti resistenze legate alla nostra espansione coloniale: l’Italia nell’89 ha ottenuto il protettorato sull’Etiopia, durato sino al disastro militare di Adua del ’96. La prefettura del Kaffa, con capitale Gimma, comprende buona parte dei territori in cui aveva operato Padre Massaia.

Padre Santa guida le prime sei Suore destinate ad entrare in Etiopia. Ricorda Suor Tecla che sotto un’apparenza austera, Padre Santa "nascondeva un carattere sereno ed un’intelligenza aperta, un cuore pronto e attento ai bisogni altrui, una stoffa di santo". Prima di imbarcarsi a Napoli, il gruppo è ricevuto in Vaticano da Pio XI: "Noi vi accompagniamo con le nostre preghiere e con tutte le nostre benedizioni", dice il Pontefice.

Per ordine superiore, Padre Santa indossa abiti civili. La prima tappa del viaggio è ad Aden, il 27 febbraio. A Massaua quattro giorni prima il Padre e le Suore hanno potuto visitare la Missione cappuccina. Il 2 marzo a bordo di un piccolo piroscafo giungono a Gibuti. Li accoglie mons. Barlassina, ora Prefetto apostolico, il quale si trova ad Addis Abeba dal Natale del ’16. Gli oltre ottocento chilometri che separano Gibuti da Addis Abeba sono percorsi in ferrovia. Il pomeriggio del 4 marzo avviene l’ingresso nella Missione, tutta fatta di capanne e casette all’indigena. Il primo saluto è quello di tre ragazzi e due fanciulle, schiavetti da poco riscattati da mons. Barlassina.

I Missionari vivono da clandestini: non possono mostrare alcun segno dello stato sacerdotale. Il 5 marzo Padre Santa scrive alla madre ricordando la silenziosa recita del Magnificat fatta la sera precedente: "Ho gustato il cantico di Maria fra lacrime di riconoscenza come mai nel passato".

 

 

"Sacerdote senza cristiani"

 

Ad Addis Abeba Padre Santa diventa direttore della scuola italiana, eretta regolarmente come istituto nazionale all’estero. "La città è molto grande", scrive alla famiglia, "e per fare alcune commissioni, a volte anche col cavallo, si sta fuori tutta la mattinata". Visita i ricoverati dell’ospedale italiano "Principessa Maria di Piemonte" che sta nascendo per volere di mons. Barlassina il quale ne ha affidato la responsabilità ad un giovane medico piemontese, il dottor Edoardo Borra, e dove prestano servizio le Suore della Consolata.

È un lavoro impegnativo che però gli sta stretto: "Missionario senza neofiti", si definisce, "sacerdote senza cristiani, maestro con pochi scolari, commerciante senza merce. Cose da matti". Alla madre spiega che deve fare "l’impresario, il commerciante, l’infermiere, il farmacista, il maestro e lo …scolaro" nello studio delle lingue africane. In attesa dei tempi migliori, scrive, "bisogna saper tesoreggiare di tutte le cosette più minute". Mette in pratica le regole che aveva illustrato nell’agosto ’23 presso la Casa Madre, trattando delle "azioni ordinarie e comuni": ogni piccolo gesto è un atto di carità, non di formale cortesia, per cui è necessario "mettere maggiore diligenza ed esattezza" nel compierlo. "Gli organi governativi etiopici", ha scritto mons. Barlassina, "riconobbero e non esitarono a confessare" i meriti educativi di Padre Santa, "anche attraverso la loro stampa locale".

Per gli altri Missionari dell’interno egli deve fungere da magazziniere e spedizioniere, procurando loro i vari generi necessari: a lui tocca pure organizzare le varie carovane che da Addis Abeba portano i rifornimenti alle nove "stazioni" o parrocchie della Prefettura del Kaffa che ha una superficie due volte l’Italia. Addis Abeba è fuori dalla circoscrizione del Kaffa: vi risiede il Procuratore che rappresenta il Prefetto apostolico (quasi sempre in viaggio) e tiene i rapporti con il governo etiopico. Ben presto Padre Santa ne diventa Superiore e Procuratore. Nei nuovi incarichi tiene fede al suo principio: "Chi si compiace dell’autorità ne è indegno".

 

Nel ’25 scrive alla Superiora della Congregazione di Betania del Sacro Cuore, a Vische Canavese che l’Etiopia "è sempre un paese da catacombe, e nonostante tutte le promesse di libertà, si deve lavorare sott’acqua con la massima prudenza, per non guastare tutta l’opera iniziata e promettente". A Vische è nata nel ’22, su iniziativa di Madre Luisa Margherita Claret de la Touche, l’"Opera dell’Alleanza sacerdotale per l’Amore infinito", della quale Padre Santa fa parte dallo stesso ’25. Lo scopo dell’"Opera" è di unire i Sacerdoti cattolici di tutto il mondo nello studio e nell’imitazione del Sacro Cuore di Gesù, "per vivere la dottrina dell’Amore infinito e farla conoscere e vivere alle anime loro affidate": la prima approvazione all’"Alleanza" è venuta dal Vescovo di Ivrea mons. Filipello.

"Le popolazioni non sarebbero cattive", prosegue la lettera, "ma c’è un numerosissimo Clero Eretico Copto, appoggiato dal governo, che ci sorveglia continuamente per cogliere un’occasione propizia di farci dare uno sfratto completo. E noi siamo qui, in abiti di Commercianti, di Maestri e di Infermiere, costretti quasi a respingere le pecorelle erranti che vengono spontaneamente a noi, obbligati a gemere sommessamente nel silenzio delle nostre Cappelle nascoste".

L’8 dicembre ’26 emette la Professione perpetua nella piccola chiesa dell’Arcangelo Raffaele di Addis Abeba. Dalla capitale viene trasferito a Sayo, distante settecento km, che raggiunge nell’aprile ’27 dopo quaranta giorni di carovana attraverso ventidue province. Vi organizza un Seminario indigeno (con 18 alunni e 2 chierici) che sorge nel cuore della foresta, accanto agli impianti industriali creati dai Missionari. In essi si costruiscono anche due palazzine smontabili per l’imperatrice etiope Zauditù (figlia di Menelik, a cui è succeduta nel ’13) e per ras Tafari Makonnen (cugino di Menelik), reggente dal ’16, che con un colpo di Stato nel ’28 si proclamerà re (Negus) e due anni dopo imperatore (Negus-neghesti) con il nome di Hailé Selassié (Forza della Trinità). Il trasferimento delle palazzine ad Addis Abeba è un’impresa epica: vi sono impegnati 3.600 portatori in 160 giorni di carovana.

Nell’ottobre ’27 muore la madre di Padre Santa: "Ha fatto tanto bene per noi, per me in particolare", egli scrive ai fratelli. A Sayo si ferma un anno e mezzo, scrivendo tra l’altro i testi di scuola nelle lingue Oromo e Galla. Il 9 dicembre dello stesso anno ritorna nella capitale, come reggente della "stazione".

Nel ’30 giunge ad Addis Abeba mons. Marchetti-Selvaggiani per restituire la visita fatta nel ’26 dall’allora reggente Tafari a Pio XI. Il diplomatico vaticano ha anche un altro compito più delicato, indagare sui metodi usati dai Padri della Consolata nel lavoro svolto sotto le mentite spoglie di mercanti ed industriali: "Con il rappresentante del Papa Padre Santa ebbe parecchi abboccamenti nei quali seppe dissipare alcuni malintesi sorti sul conto della Chiesa nell’Etiopia", spiega Padre Giorgis. "L’atteggiamento umile e tranquillo, il parlare leale di Padre Santa e la pronta sottomissione", scrive Maria Massani, "disarmarono il futuro Cardinale Vicario".

Nel ’31 si costruisce il nuovo collegio. Nel maggio ’33 Padre Santa torna a Sayo per sette mesi. Il celebre studioso Enrico Cerulli ricordava quella scuola "fatta di canne, mezzo aperta al vento della foresta", e l’insegnamento "persuasivo" di Padre Santa che sapeva suscitare l’attenzione "di giovinetti appena tratti da una condizione che si può dire primitiva".

 

 

Verso la tempesta

 

Nel ’34, dopo che mons. Barlassina è stato eletto Superiore Generale della Consolata, Padre Santa gli succede nella direzione della Prefettura. Dipendono da lui oltre sessanta Missionari, di cui la metà sono Suore. La nuova carica lo obbliga ad un rientro in patria per le pratiche relative alla nomina. È ricevuto in udienza privata dal Pontefice e poi corre a rivedere la famiglia. A metà settembre è ancora ad Addis Abeba. Il 15 invia la circolare n. 1 ai confratelli ed alle Suore: il suo "proposito e desiderio", scrive, è che "tutto proceda in nomime Domini, con una vicendevole fraterna cooperazione di bene, secondo le sagge norme del sempre desideratissimo nostro mons. Barlassina".

Il primo ottobre lo raggiunge come Procuratore padre Giorgis che testimonia: "La situazione si presentava piena di incognite foriere di tempesta", qualcosa "di estremamente pericoloso maturava per le nostre missioni in Etiopia". A metà novembre Padre Santa si mette in viaggio con una grande carovana verso l’interno, portando derrate e vettovaglie ai Missionari dispersi in un territorio immenso. Fa ritorno verso la fine di febbraio ’35.

I Missionari continuano a vestire abiti borghesi, ma tutti li conoscono come sacerdoti e li chiamano per antonomasia "Barlassina". Intorno al Natale ’34 sul far della sera, Padre Giorgis è stato minacciato per strada: "Corri, italiano che ti ammazzo". L’atteggiamento delle autorità etiopiche, dopo una fase di apertura, è ora tornato rigido.

Il 29 aprile ’35 Padre Santa invia al Prefetto di Propaganda Fide una relazione che sottolinea il "coraggio apostolico con cui tutti fissano con tranquillità il non sicuro avvenire, pienamente abbandonati alla Divina Provvidenza, pronti a qualsiasi evento". Il primo maggio raccomanda ai confratelli "molta prudenza nelle parole e negli scritti; nessun cenno ai fatti presenti. Ricordare sempre la nostra qualità di Missionari, e non vantare altri titoli". Il 22 agosto Padre Santa fa partire le Suore del Kaffa, invitandole a condire il "silenzio con lo spirito di mortificazione e di santa umiltà". Il giorno dopo spiega al Superiore Generale il senso del provvedimento: in caso di guerra le Religiose avrebbero corso "grave pericolo".

Padre Santa resta con due Confratelli ed un Coadiutore: "Per tutti, e tutti con lui", ha deciso di rimanere, scrive Padre Giorgis che faceva parte del gruppetto: "Il cuore di Padre Santa sanguinava. La bufera aveva fulmineamente spazzato via tutto il complesso delle sue missioni".

Il 6 giugno ’35 Padre Santa comunica al Superiore Generale: "La conclusione è sempre una: "rimanere". Più ci inoltriamo verso il periodo critico più mi pare ragionata e missionaria questa norma". A luglio Padre Santa viene a conoscere notizie allarmanti: la guerra con l’Italia sarebbe poteva da un momento all’altro. Nel luglio le nostre autorità ordinano ai connazionali di rientrare in patria o almeno di riparare in zone fuori dell’Abissinia, la regione centro-settentrionale dell’Etiopia. Padre Santa risponde che i sacerdoti non dipendono dallo Stato, ma ubbidiscono "esclusivamente alle autorità della Chiesa e dell’Istituto".

 

 

"L’ordine di partire"

 

La mattina del 5 ottobre ’35 i quattro Missionari sono fatti prigionieri dal corpo di guardia dell’imperatore. Padre Santa s’inginocchia in adorazione davanti al Santissimo. Due giorni prima le truppe italiane hanno varcato i confini dell’Etiopia e lo stesso 5 ottobre issano sulle rovine del forte di Adigrat la bandiera ammainata il 18 maggio 1896.

Sui giorni seguenti le relazioni di Padre Santa offrono un diario dettagliato. 14 ottobre: "Il Ministro degli Esteri del Governo Etiopico mi ha invitato (= ordinato) a far partire tutti della Missione. […] Noi partiamo se obbligati: NON DOMANDIAMO di partire. Dominus nos benedicat". Sul foglio segue un’annotazione di sua mano: "L’ordine di partire giunse prima della presente". Il Presidente della Croce Rossa etiopica dice "che, causa la crudeltà degli italiani, i quali uccidono senza distinzione donne e bambini, bisogna che anche tutti i Missionari italiani lascino subito il Paese; che il popolo è troppo eccitato, che loro non vogliono aver noie". L’ambasciatore francese gli confida che c’è "l’intromissione di Albione", cioè degli inglesi. Conferma un missionario francese: "sono i protestanti a far muovere tante pedine". "Secondo le mie deboli viste", osserva Padre Santa, "la Diplomazia Vaticana poteva ottenere qualcosa di più positivo. Viva Dio".

28 ottobre. Dal Vaticano attraverso i diplomatici francesi giunge notizia che alla Casa Madre della Consolata è pervenuto un telegramma sull’espulsione con la forza di trenta Missionari: "È certo che il Vaticano dà la nostra causa come perduta, e non ha torto", scrive Padre Santa ricordando che gli Etiopi, prima di darne avviso a lui, "avevano diramato ordini perentori, con picchetti armati, alle Stazioni dell’interno".

 

Il 2 novembre due europei (diventati etiopici), rappresentanti della locale Croce Rossa, prendono possesso dell’ospedale italiano (la consegna ufficiale avviene soltanto il 13). Continuano ad arrivare ad Addis Abeba ed a partire per Gibuti i Missionari dell’interno, espulsi per ordine del Governo Centrale. Il 15 Padre Santa osserva che "l’espulsione dei Missionari della Consolata dalla Prefettura del Kaffa è stata causata da considerazioni politiche": "È l’ora delle tenebre e del protestantesimo". Per farli ritornare, "bisognerà seguire i passi della politica stessa". Il 17 viene battezzata una bimba che sarebbe figlia naturale di un dipendente dell’ospedale, ora rimpatriato.

Esasperazione ed odio crescono contro gli italiani. Il 6 dicembre il Vice governatore intima lo sfratto ai quattro Missionari che l’indomani sono costretti ad andarsene. Chiusi a chiave sul vagone ferroviario e sorvegliati da tre militari armati, partono il 7 mattina in stato di arresto. Durante la sosta notturna sono trattati come spie e traditori, ed i loro bagagli perquisiti inutilmente alla ricerca di documenti compromettenti. Li liberano la mattina dopo, 8 dicembre, ma il loro convoglio è già partito. Debbono aspettare quattro giorni: alle ore sette del 12 li imbarcano sul treno successivo come prigionieri: gli vietano di parlare tra loro e persino di guardare dal finestrino. Dopo cinque ore sono nella Somalia francese. Liberi. A Gibuti apprendono che sui giornali italiani il giorno 10 è stata data la notizia della loro morte.

 

 

La guerra d’Etiopia e l’Impero

 

Padre Santa rientra in Italia per pochi mesi. È nuovamente in Africa, a Mogadiscio, il 22 febbraio ’36. Il 5 maggio il maresciallo Pietro Badoglio entra in Addis Abeba. Il 9 Mussolini proclama l’impero, l’Etiopia è italiana. Padre Santa giunge ad Addis Abeba il 19: "Un compito d’immensa responsabilità l’attendeva nella rinata prefettura", scrive Padre Giorgis: "Tornati dall’esilio, abbiamo trovato le nostre abitazioni totalmente distrutte. I nostri cristiani erano però al loro posto".

Il rinnovato impegno pastorale deve smentire agli occhi degli Etiopi ogni ipotesi di legame fra l’opera missionaria e l’occupazione militare italiana. Il Prefetto apostolico, scrive la Massani, "era stato mandato dal Santo Padre "per i neri"". Quanti ne salvò, testimonia un sacerdote riminese allora in Africa. I rapporti dei Missionari con gli stessi italiani sono difficili. Padre Santa difende sempre l’indipendenza dei suoi padri: ha già respinto in precedenza la richiesta di far partecipare un confratello ad una sollevazione a Gimma.

In giugno è riattivato l’ospedale italiano, con altre Suore appena giunte da Torino. Il 27 e 28 luglio la guerra raggiunge la sede di Padre Santa, che le nostre truppe difendono dagli attacchi dei ‘ribelli’: "Cadevano gli italiani che sentivamo di amare come fratelli, e il sangue abissino scorreva ogni dove. Quei casi abissini", ha scritto Padre Giorgis, "per i quali avevamo esposto generosamente e a più riprese la vita": sono giorni terribili, gli eccidi si susseguono, "forse si è ecceduto da una parte e dall’altra".

Il 12 febbraio ’37 la "famiglia kaffina" registra un nuovo lutto: Padre Ernesto Gilardino muore a 38 anni di "tifo petecchiale, contratto nell’assistere ammalati e prigionieri". Nel "maggio vittorioso" del ’36 è scomparsa Suor Filippa, a novembre Suor Teofana. Anche Padre Santa si ammalerà: "Continuò a lavorare come prima e, se possibile, più di prima, nonostante i frequenti disturbi che in Africa lo colpirono dopo una malattia improvvisa che fu, forse, un segnale precursore del suo terribile male", annota la Massani: "Rimase a letto venti giorni […] dopo un viaggio disastroso, durante il quale si era sentito male. Forti vomiti anche di sangue". In seguito, spiegò il suo segretario, "fu sempre molto delicato di stomaco e di intestino", ma non volle nessun riguardo particolare.

 

 

Vicario a Gimma

 

Il 25 marzo ’37 Padre Santa è nominato Vicario Apostolico di Gimma (distante 360 km da Addis Abeba). La notizia gli giunge soltanto il 28 aprile. Da lui dipenderanno 130 persone, tra Sacerdoti, Coadiutori e Suore. Il 21 settembre avviene la consacrazione episcopale. Al momento della cerimonia non si trova più la valigetta con la "bolla" papale. Deviata per Parigi forse da qualche spia, giungerà nei giorni successivi. Sceglie come motto "Si radis sancta et rami": se è santa la radice, sono santi anche i rami.

Il 29 ottobre parte per la sua sede, Gimma, un paese pagano e musulmano. Un mese dopo, al primo colpo di piccone per l’erigenda chiesa della Consolata (quella attuale è un tendone), il Vescovo Santa sottolinea: "L’apertura di una chiesa significa la chiusura di una prigione". Al nuovo governatore di Gimma, egli rammenterà nel settembre ’38 le parole di Papa Pio X: "Di quei poveri neri fatene prima degli uomini, per poterne fare poi dei cristiani".

Il 21 gennaio ’38 inizia la sua prima visita pastorale: "Comincia così quel perenne pellegrinare che lo troverà sempre pronto, sempre disposto ad affrontare i disagi delle strade e le difficoltà di casi innumerevoli", scrive la Massani. Aggiunge Padre Giorgis che mons. Santa "soffriva, taceva, pregava, come sanno pregare i santi", anche per i cattivi esempi degli europei: "Purtroppo non tutti gli italiani in Abissinia professavano esemplarmente la loro Fede". In un pubblico discorso mons. Santa dice: "La nostra finalità è di fare cristiane le popolazioni etiopiche. Ed oggi, sempre nell’uguaglianza dei figli di Dio, un nuovo compito si unisce a quello finora svolto: l’assistenza religiosa e morale ai nazionali, per fare dei nazionali stessi altrettanti Missionari del buon esempio, della giustizia particolarmente, e della serietà della vita in mezzo a questo popolo".

 

Nel marzo ’39, precisa mons. Santa all’Agenzia Fides, a Gimma tutti i cattolici sono di rito latino. I cristiani scismatici copti sono profughi politici, "protestanti ed ebrei non costituiscono nuclei degni di considerazione". I musulmani, "piuttosto numerosi" nell’anteguerra non sono una forza temibile perché non hanno il fanatismo di quelli della costa e sono "appena tollerati. Ora le cose si sono alquanto modificate". Mons. Santa, nella fermezza della propria fede, si dimostra sempre deferente e rispettoso verso copti e protestanti.

Dopo un viaggio in quasi tutte le Stazioni, il primo maggio mons. Santa spedisce ai confratelli del Vicariato una dettagliata circolare che segna una svolta rispetto al periodo clandestino: disapprova infatti ogni forma di commercio, raccomandando l’istituzione di scuole agricole ed industriali. Inoltre richiede collaborazione tra i vari settori di ogni "stazione", per eliminare una "mentalità sbagliata", sotto cui stanno "molta gelosia, non poco egoismo e niente carità".

"Non ozio e chiacchiere", comprese quelle epistolari, ammonisce, "ma pazienza e fatica", quella che fa "spargere reali sudori". La sua ricetta pastorale richiede anche puntualità alla levata del mattino (alle cinque e mezza) e nel riposo alla sera (alle ventidue), oltre al rispetto di rigide regole di comportamento: non si deve dare del "tu" agli altri, non si possono asportare cose da una Stazione senza il consenso del superiore locale. Infine l’invito a scrivere sul bollettino: "La penna è parte non trascurabile dell’apostolato". Mons. Santa ha promosso la pubblicazione di un foglio religioso, "La Consolata in Africa Orientale Italiana" che per quattro anni, secondo Padre Giorgis, "fino cioè alla nuova più tremenda bufera, è l’amico atteso e caro di ogni missionario".

 

 

"L’odio fraterno semina vittime"

 

All’inizio del maggio ’39 mons. Santa rientra a Torino per il Capitolo generale della Consolata. Prima di ripartire per l’Africa è ancora ricevuto dal Santo Padre. In agosto è di nuovo a Gimma. All’inizio del 1940 arriva in Etiopia il Superiore Generale mons. Barlassina che mons. Santa accompagna in visita a tutte le Missioni. La notizia che l’Italia il 10 giugno è entrata in guerra li raggiunge a Dembidollo il giorno successivo. Il loro viaggio nelle "stazioni" prosegue sino a metà novembre. Nella relazione sul secondo semestre del ’40, mons Santa spiega: "Il personale missionario è rimasto completo nelle rispettive Stazioni; solo alcuni Padri sono stati richiesti, e accordati, quali cappellani militari. Le cristianità non hanno subito alcuna scossa".

"L’odio fraterno infestava la terra e la seminava di vittime", documenta Padre Giorgis ricordando l’entrata in guerra: "Tra il gennaio e il maggio del 1941 tutte le Suore missionarie dovettero raccogliersi a Gimma dalle varie missioni dell’interno. I padri rimasero eroicamente al loro posto. Le ragioni sono più che evidenti". Mons. Santa nel marzo ’41 invia questa lettera-circolare: "Si domanda da molti, e con ragione: quid agendum? Restare? Andare? Il quesito riguarda i Missionari, non le Suore. Rispondo: Ubi oves, ibi et pastores". Dove c’è il gregge, lì sta il pastore, avendo "per unico stendardo Gesù Cristo Crocefisso. Questa norma Ci è stata consigliata dall’Eccellentissimo Delegato Apostolico; ed è stata ammessa come cosa ovvia dal Viceré". Tuttavia, il vescovo rimette ai singoli "Superiori di Stazione le decisione da prendere".

Le Suore tra gennaio e maggio "per ragioni di prudenza, ripiegarono su Gimma" dall’interno, "i padri restavano ai propri posti, decisi di non abbandonare il gregge, a rischio anche della vita", ribadisce mons. Santa nella relazione sul 1941: era "l’abbandono completo di tutta la cristianità dell’interno: oltre 12.000 cattolici indigeni senza un solo sacerdote!". Il primo aprile a Scirrè (Lechempti) una Suora ed un Padre sono feriti mortalmente da briganti abissini, assieme a due italiani, un ufficiale ed un civile.

 

 

L’arresto a Gimma

 

Gli inglesi bombardano ripetutamente Gimma che capitola nelle loro mani il 21 giugno. "Le autorità britanniche", scrive mons. Santa, "iniziarono subito l’allontanamento dalla periferia di ogni cittadino italiano, militari e civili; e rastrellarono parimenti i Missionari delle varie sedi", per salvarne, dicevano, l’incolumità. Le bande di ribelli costituivano un pericolo costante. Mons. Santa è sempre in prima linea, come quando accorre a difendere di notte il collegio femminile che alcuni indigeni stavano tentando di assaltare.

Dal 18 al 25 luglio gli inglesi perquisiscono la Missione di Gimma, alla ricerca di illegali somme di denaro: i dollari e le lire egiziane che trovano, sono un regolare sussidio governativo. La Missione, subito dopo l’occupazione ha consegnato agli inglesi "valori notevoli, non appartenenti a privati". Il Vicario Santa riceve l’ordine di non uscire dalla sua residenza. Vi resterà sino al 16 gennaio ’42 quando (sono sue parole al Delegato Apostolico di Addis Abeba), viene "portato via, sopra un camion, accompagnato da un ufficiale inglese e scortato da alcuni soldati inglesi di colore". L’ordine è tassativo: tutti i Missionari, in quanto cittadini italiani, debbono partire in tre riprese.

L’operazione è iniziata il 14 gennaio alle ore 7 con una lunga e minuta perquisizione all’interno della Missione. Nel pomeriggio, mons. Santa è sottoposto ad interrogatorio davanti al Comandante della guarnigione di Gimma. L’accusano di possedere un apparecchio radio trasmittente. Quello della Missione è invece una piccola e semplice radio ricevente. Il 15 mons. Santa viene fermato, trasferito al tribunale militare e fatto partire a bordo di una camionetta per Addis Abeba. Al posto di blocco, alcuni suoi missionari (un Padre, tre Suore) e l’autista personale, fermano l’automezzo militare per salutarlo, e ne ricevono una benedizione pronunciata con parole ispirate e serene. Il suo volto appare abbattuto e stanco.

Leggiamo nella sua relazione al Cardinale Segretario di Stato Luigi Maglione: "Il 15 e 17 febbraio 1942, in due convogli, denominati dallo stesso Ufficio Evacuazione "i convogli della Consolata", furono deportati una sessantina di Missionari ed una settantina di Suore", con la giustificazione che Padri e Suore "erano necessari per l’assistenza religiosa e sanitaria nei Campi di Concentramento. Effettivamente le Suore poterono compiere questo caritatevole ufficio, prodigandosi in fatiche e sacrifici senza numero, e raccogliendo ammirazione ed elogi, meriti e anime".

 

 

Ritorno in Italia

 

Nell’aprile ’42 Padri e Coadiutori sono "presto imbarcati a Berbera e portati alla Rodesia, una cinquantina; e al Kenya gli altri". Prosegue la relazione di mons. Santa: "Non vale il conto ricordare le scuse che i Missionari della Consolata non erano graditi al Governo Etiopico. Avrei prove categoriche per dimostrare il contrario. Ma i riguardi (!) usati, pochi mesi dopo, ai Missionari di tutti gli Ordini e Congregazioni dimostrano anche troppo ciò che era il programma delle Autorità Britanniche, riguardo ai Missionari Cattolici".

"Quanto a me e ai pochi Padri lasciati con me ad Addis Abeba "per chiudere casa", seguimmo poi la sorte comune degli altri Missionari: in giugno 1942, deportazione da Addis Abeba ad Harar; in novembre 1942, deportazione da Harar a Berbera. Le modalità del viaggio e le perquisizioni minute e disgustose del bagaglio e delle persone (non eccettuate le persone dei Vescovi) non fanno onore al protocollo inglese. Da Berbera le navi ci portarono felicemente in Patria, dove trascorriamo il nostro esilio apostolico". La relazione, stesa il 25 gennaio ’43, termina con la richiesta al Cardinale di una benedizione per "il povero scrivente".

Il breve racconto condensa un lungo dramma, durante il quale mons. Santa si mostra sempre fiducioso nell’aiuto del Signore. La sua serenità è di grande aiuto per tutti i suoi Missionari. Ad Harar mons. Santa fu deportato nel vescovado, dove si trovavano centinaia di religiosi e di religiose di diversi Ordini e Congregazioni, tutti prigionieri sotto vigilanza inglese. Nel ‘trasferimento’ a Berbera, ha come compagno di viaggio il Superiore Generale padre Barlassina, già confinato a Mogadiscio. Il viaggio di ritorno dura trentasei giorni e si conclude il 6 gennaio ’43 a Brindisi. "In tutte queste tappe", scrive Padre Giorgis, mons. Santa "seminò il bene con quel gran cuore di sacerdote, di vescovo, di missionario che, mentre sanguinava dalla profonde ferite, mandava sprazzi di luce e vampate di carità verso tutte le anime", confratelli, prigionieri o soldati negri: "in tutti vedeva riflessa l’immagine di Gesù".

Da Brindisi mons. Santa raggiunge Roma, dove è ricevuto in udienza da Papa Pio XII e dove ha la consolazione d’incontrare due giovani Sacerdoti etiopici appena consacrati, frutto del suo impegno nel Seminario di Sayo, abba Joannes Sciaccana e abba Joseph Tola. Mons. Santa torna infine a Torino dove riceve la nomina ad Ausiliare del Vescovo di Rimini mons. Vincenzo Scozzoli che ha ottantacinque anni di età e che da quarantatré regge quella Diocesi.

 

 

A Rimini, altri bombardamenti

 

Mons. Santa giunge a Rimini all’alba del 17 novembre ’43. Dal giorno di Ognissanti la città è presa di mira dagli aerei alleati. Fino al 21 settembre ’44, giorno della liberazione, ci saranno 396 bombardamenti con 607 morti. Rimini per la sua posizione sulla direttrice adriatica ha un’importanza strategica che spiega l’accanimento delle incursioni anglo-americane: i suoi scali ferroviari sono utilizzato dai tedeschi per i rifornimenti alle loro riserve nella zona di Roma.

Il 28 dicembre è colpito il Vescovado, dalle cui macerie escono, coperti di calcinacci, mons. Scozzoli e mons. Santa che vanno a vedere il vicino Tempio Malatestiano, appena sfiorato dalle bombe. Testimonia la Massani: "Mons. Santa si prodigò, sebbene ferito ma in maniera lieve, ad aiutare i colpiti in tutti i punti della città dove si erano abbattute le bombe; confortava, benediceva, pregava; e chiamava anche lui ad alta voce, per nome, quelli che non si sapeva se fossero vivi o morti sotto le rovine". Fu visto "cavare, con gli altri, i morti dalle macerie; una donna fu estratta semiviva dal Vescovo". Una famiglia "dovette alla sua opera se poté, in parte sopravvivere": due fratellini perirono, mons. Santa "diede mano valida a liberare dalle macerie il babbo, la mamma, un ragazzo".

Le incursioni alleate del 29 e 30 dicembre riducono il Seminario ed il Vescovado ad un ammasso di macerie. La Curia è costretta a trasferirsi alla periferia della Diocesi, nel ‘castello’ (Comune) di Serravalle della vicina Repubblica di San Marino, dichiarata neutrale e nonostante ciò sottoposta a continue violenze nazi-fasciste. Mons. Scozzoli si rifugia in varie località dell’interno prima di ritornare al paese natìo, San Martino di Villafranca, dove muore il 9 febbraio ’44 in seguito ad una polmonite.

 

Il Tempio Malatestiano, simbolo della storia riminese e duomo della città, viene mutilato il 29 gennaio ’44. Mons. Santa non riesce a star lontano dalla sede di cui viene nominato Amministratore Apostolico. Lo scrittore Flavio Lombardini annota che il 30 marzo, lungo il corso principale della città mons. Santa "accompagnato da alcuni civili, tiene in braccio una bambina da poco estratta fra le macerie ancora in vita".

Mons. Santa trasloca nell’entroterra riminese, a Montefiore Conca presso il Santuario della Vergine di Bonora, dove è anche riaperto il Seminario. Da qui visita i paesi vicini, accompagnando i seminaristi in passeggiate ed in giornate di ritiro. Il 3 giugno nel Santuario di Bonora avvengono le sacre Ordinazioni.

Il 13 settembre il Santuario è bombardato. "Tra le macerie fumanti e le granate", scrive la Massani, "mons. Santa lasciò rapidamente il campanile dove erano rifugiati, per correre a togliere le Sacre Specie dal tabernacolo". Alla fine di agosto, viene dato al Vescovo dal Comando tedesco l’ordine di lasciare Montefiore, assieme a tutti i seminaristi.

Don Carlo Savoretti rammenta: "Il primo settembre gli alleati occuparono Mondaino senza colpo ferire. Mons. Santa, quando seppe della nostra liberazione, lasciò Montefiore e, a piedi, attraversando la linea del fuoco, sfollò a Mondaino" in compagnia di un sacerdote nativo di quel paese: "Era il 3 settembre quando bussò alla mia porta domandando ospitalità. Lo accolsi con gioia, gli assegnai una cameretta con un semplice lettino. Rimase con me circa due settimane". Celebrava nel monastero delle Clarisse Cappuccine e trascorreva tutta la mattinata in confessionale "come un semplice cappellano".

 

 

Il Vescovo della ricostruzione

 

Ricorda don Lino Grossi che dopo il passaggio del fronte "il novanta per cento delle chiese e delle canoniche della Diocesi di Rimini erano state distrutte o danneggiate. I parroci tutto avevano perduto. Si erano ritirati in un angolo angusto tra i muri diroccati, alla meglio sistemato per ripararsi dal freddo. Non avevano né riscaldamento né panni, perché nei venti giorni di attacchi furibondi tra i due eserciti nemici, avevano perduto tutto. Il Vescovo Santa andava a trovarli, pieno di serenità e di fiducia nella Provvidenza; infondeva coraggio e speranza, confortava, aiutava". E rimediava stoffa per cappotti e talari a chi ne aveva bisogno.

Il 27 settembre mons. Santa può tornare finalmente a Rimini. Il 3 ottobre consacra il cimitero militare greco a Riccione. Con i seminaristi si stabilisce nella parrocchia di San Giovanni Battista, nei pressi dell’Arco di Augusto.

L’11 maggio ’45 mons. Santa scrive al Superiore Generale della Consolata: "Ho sentito che a Torino sono tutti in piedi. Deo gratias! Qui ci stiamo rialzando pian pianino dalla prostrazione totale causata dal passaggio del fronte. Di 136 chiese parrocchiali, 40 da riedificare dalle fondamenta, moltissime danneggiate gravemente, appena 25 intatte… Nella stessa proporzione tutti gli altri fabbricati. Fortunatamente poche le vittime umane".

Il 14 ottobre ’45, festa di San Gaudenzio, Patrono principale della città e della Diocesi, mons. Santa comunica di aver ricevuto la nomina a Vescovo Ordinario di Rimini.

I giorni del fronte sono da Lui stesso descritti in un documento del 27 aprile ’47: "Il ciclone devastatore della guerra è passato, ma ovunque si levano ancora rovine e macerie in attesa di una mano pietosa che le faccia risorgere. La Cattedrale, il Seminario, e il Vescovado furono ridotti a cumuli di macerie, e solo ora, con l’aiuto dei buoni e affrontando sacrifici di ogni genere, si cerca di farli risorgere. Non possiamo contare sull’aiuto dei nostri Venerandi Sacerdoti e dei nostri diletti figli, perché tutti troppo provati dalla guerra e tutti egualmente bisognosi. Altre volte abbiamo tesa la mano ai fedeli per gli infedeli; ora tendiamo la mano ai fedeli per i figli!".

"Come già in Etiopia, adesso a Rimini tutto da rifare. Il paziente "operaio di Dio" vi si accinge con fede, competenza, pazienza, fiducia illimitata fino alla metà del 1950" (Padre Giorgis).

Il 16 agosto 1946 il Vescovo celebra una Messa da campo nel secondo anniversario dell’impiccagione di tre giovani riminesi da parte dei nazifascisti. Il passato anche più vicino è ormai diventato la storia di un dolore che si trascinerà incancellabile nei cuori, in quel lungo dopoguerra.

 

 

Lungo il calvario della malattia

 

Nel 1950 ritorna ai suoi antichi splendori il Tempio. Per l’occasione mons. Santa accoglie a Rimini il Capo dello Stato Luigi Einaudi. La riconsacrazione è celebrata il 21 settembre, a sei anni dal giorno della liberazione della città. Costruite le case e le chiese, bisogna ora rafforzare la fede e la comunione di cristiani, minacciati dalle dottrine materialistiche, condannate dalla Chiesa. Il 1950 è anche l’Anno Santo. Il 14 ottobre, festa di San Gaudenzio, il Vescovo inaugura il Duomo con un solenne pontificale. Il primo novembre è a Roma, per la proclamazione del dogma di Maria Assunta in Cielo, fatta da Pio XII. In quei mesi comincia ad avvertire malesseri e stanchezza, segni premonitori della malattia che lo sta colpendo in maniera irreparabile.

Nel maggio ’51 si reca a Torino. Deve essere operato subito, ma prima mons. Santa vuol ritornare a Rimini per la processione del Corpus Domini. A giugno subisce l’intervento chirurgico nella stessa Torino, poi è costretto dai medici a trascorrere la convalescenza ad Alpignano: avrebbe voluto infatti rientrare subito in Diocesi. È di nuovo a Rimini in agosto.

Nel gennaio ’52 gli ritorna la febbre, dal 10 febbraio è costretto a letto per una quarantina di giorni. Alla fine di marzo riprende a visitare la Diocesi, in giugno si reca a Lourdes, in agosto i medici lo obbligano al riposo alla Certosa di Pesio, in Piemonte. Nel gennaio ’53 è sottoposto a Bologna ad un altro intervento chirurgico. Prima di partire ha acquistato un terreno sulle colline del Covignano, dove sorgerà il nuovo, grande Seminario. All’operazione seguono le terapie di radium che gli procurano forte e continuo dolore. Tre mesi dopo è ancora a Rimini. Le sue condizioni si aggravano ulteriormente, con sofferenze atroci, sopportate in spirito di comunione con il Crocefisso: "Chiese e desiderò di essere sempre presente a se stesso; lo chiese al Signore e lo disse alla Suora" che lo assisteva, scrive la Massani. Il 23 aprile riceve solennemente il Viatico. Cessa di vivere all’alba del 18 maggio ’53.

Nell’Elogio funebre, il card. Giacomo Lercaro, Arcivescovo di Bologna, lo ricorda "sereno, aperto, gioviale e nel tempo stesso cordialmente deferente". Il suo "spirito apostolico, dinamico e generoso, agile e ardito" lo esercitò dopo l’attività missionaria nella sua funzione di Vescovo: "L’esperienza ormai lunga e la sua viva intelligenza lo rendevano rapido nel decidere, fermo nel volere, lineare sempre nelle intenzioni, alla mano con tutti, aperto, faceto, rimaneva il Missionario cui la dignità episcopale portava soltanto un più acuto senso di responsabilità e un’ansia più profonda per le anime. Conservava la robustezza degli anni giovanili e corse incessantemente la Diocesi, come aveva corso la Missione, presente a tutti e vicino cordialmente a tutti".

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