Riministoria
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3.
DolomitiNews - Rete Civica Belluno - Isbrec - I Protagonisti - N.64N.64 Anno XVII luglio-settembre 1996 Ad un anno dalla catastrofe il comunista Giorgio Bettiol denunciò, attraverso l'editoriale de "L'Unità" del 9/10/64 che ancora non era stata resa giustizia ai superstiti e che la mancata ricostruzione era dovuta alle
http://www.sunrise.it/dnb/isbrec/64/delorenzi2.htm
N.64 Anno XVII luglio-settembre 1996
Ad un anno dalla catastrofe il comunista Giorgio Bettiol denunciò, attraverso l'editoriale de "L'Unità" del 9/10/64 che ancora non era stata resa giustizia ai superstiti e che la mancata ricostruzione era dovuta alle lentezze burocratiche, ma anche all'assenza di una volontà politica governativa indispensabile per il superamento di queste difficoltà. Il deputato rimarcò maggiormente che ad un anno di distanza si fosse ancora obbligati a richiedere una tempestiva e concreta attuazione delle leggi straordinarie, a sollecitare una giusta erogazione e un produttivo impiego dei fondi raccolti dalla solidarietà nazionale e internazionale(26).
L'anno seguente (settembre 1965) la situazione denunciata dal quotidiano sembrò non essere mutata di molto. Sotto il titolo Vajont un dramma che non ha fine vennero riportati i disagi segnalati l'anno precedente, sottolineando che l'incapacità governativa di mantenere gli impegni assunti per la rinascita dei paesi distrutti fosse risolvibile solo col conferimento agli organi elettivi ed amministrativi decentrati di poteri decisionali atti a coordinare localmente tutte le procedure di competenza delle varie amministrazioni statali.
Il secondo anniversario della catastrofe fu l'occasione per un'ennesima freccia spezzata dal quotidiano per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e locale sui continui disagi vissuti dalla popolazione superstite. Fu Mario Passi a smuovere le acque:"Il Vajont è ancora una ferita aperta [...]. La ricostruzione vera e propria deve tuttora cominciare. L'individuazione delle responsabilità [...] è stata incredibilmente rifiutata dalla maggioranza della commissione parlamentare d'inchiesta, verso la quale era rivolta l'attesa del Paese. Oscure manovre sono in corso ai margini della complessa, laboriosissima istruttoria penale, tutte rivolte a creare le condizioni perchè anche il processo si risolva praticamente in nulla di fatto"(27).
"L'Unità", quindi, oltre ad occuparsi primariamente della "questione dei superstiti", perseguì lo scopo, unitamente all'azione svolta dal PCI a livello nazionale, di denunciare a tutti e tener viva nella memoria dell'opinione pubblica la situazione di precarietà non risolta celermente dal governo.
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Note
12) Cfr. "Il Gazzettino", 11/10/63, p. 2. 13) Ibidem, p. 4. 14) Cfr. M. Isnenghi, Il potere della carta. Il dopo-Vajont e la lotta delle parole, in M. Reberschak (a cura di), "Il Grande Vajont", Tip. Commerciale, Venezia, 1983, p. 54. 15) Cfr. "Il Gazzettino", 13/10/63, p.1, in cui ancora una volta il direttore Longo con l'articolo Giudicare dopo, affermò: "Ogni parola appare vana, sia che voglia paragonare l'evento al diluvio, sia che voglia confortare chi è sopravvissuto, scappando, come scappano quelle formiche che il piede dell'uomo inconsapevolmente risparmia, eppure appartenevano alla medesima colonna che il piede ha schiacciato". Subito dopo manifestò il dubbio che vi potessero essere anche colpe umane, "perchè la mente non si appaga dell'idea della fatalità. [...] Noi non pretendiamo di sostituirci agli inquirenti e alla Magistratura come, purtroppo, a fini di speculazione politica e di confusione generica, è stato già fatto e non soltanto dai comunisti. [...] Non saremo certo noi a dire che i capitalisti sono degli altruisti, [...] ma si offende il più elementare buon senso quando si sostiene che costoro possano aver mandato miliardi alla malora per far morire gli abitanti di Longarone e di Erto Casso e che abbiano voluto costruire la diga con la consapevolezza del gigantesco rischio". Infine concluse così: "A noi pare che le possibili responsabilità siano di due ordini. Innanzi tutto di ordine tecnico, [e cioè] alla costruzione della diga in quel posto. In secondo luogo di ordine morale e si riferiscono alla probabile leggerezza di coloro che [...] nell'immediata vigilia del disastro, non ne intesero l'entità e non provvidero a mettere in allarme le popolazioni. [...] Giudicheremo dopo, non prima. Di fronte alla grande tragedia cerchiamo di dare spettacolo di serietà". 16) Ibidem, 16/10/63, p.2.
17) Ib., p.2. 18) Cfr. Intervento di G. Lago tenuto a Belluno l'8 ottobre 1993, in "Protagonisti" n.53, ottobre-dicembre 1993, pp. 55-56. 19) Nel 1960 la giornalista Tina Merlin ed il direttore de "L'Unità" furono denunciati e processati per aver diffuso notizie false e tendenziose sulla pericolosità della diga. Il Tribunale di Milano si pronunciò per l'assoluzione affermando che "il bacino artificiale costruito dalla Sade costituiva ed era considerato dagli abitanti del luogo un serio pericolo, appunto perchè si temeva che le acque, erodendo il terreno franoso, determinassero lo sprofondamento delle acque". Cfr. PCI (a cura di), Il Libro bianco, Roma, 1963, p. 43. Il libro bianco, redatto dal PCI e consegnato a Segni il 13/10/63, oltre a contenere le fasi di questo processo, raccolse numerosi documenti e testimonianze sulla diga, sulle proteste fatte dalla popolazione, dai Consigli Comunali delle zone limitrofe alla diga e dal Comitato Provinciale d'azione per il Progresso della Montagna. 20) Cfr. "L'Unità", 11/10/63, p.1. Vedi anche "L'Avanti!" dell'11/10/63, p.1. Significativo fu anche l'articolo di Aldo Lualdi comparso su "L'Avanti!" il 20/10/63 a p.6, intitolato Due giovani si sono sposati fra un mare di rovine. Il giornalista scrisse: ""E vissero felici e contenti": così finiscono le favole che anche i bambini di Longarone, di Pirago e delle altre frazioni distrutte avranno sentito innumerevoli volte [...]. Che cosa vogliamo raccontare loro, adesso? Che c'era una diga sicura e una montagna cattiva, che il destino, all'improvviso, ha fatto franare la montagna e l'acqua ha ucciso tanta gente? No: i bambini diventano grandi, non ci credono più sin da adesso a questo tipo di fatalità. [...] E poi ci sono "loro", no? quelli che sanno tutto, gli studiosi, i tecnici e quelli responsabili dell'incolumità della gente. Se c'è pericolo, diranno qualcosa. O la patria, come disse Vanoni, si ricorda di noi solo quando arriva la cartolina rosa del servizio militare? [...] Esce l'ondata assassina. [...]L'acqua cancella Longarone. Cosa fare? Si alzano le braccia: perbacco! [...] E' proprio un destino crudele. [...] Sembra grottesca la risposta della SADE all'ultimo drammatico allarme [di pericolo]: "Dormite con un occhio solo". Nessun riferimento al sonno eterno. [...] Entra in funzione l'Italia dei poeti e dei sottosegretari e, fra la commozione generale, si distribuiscono soccorsi ai sopravvissuti. E' un po' tardi, adesso, e c'era tutto il tempo di pensarci prima. [...] La vita riprende e la favola non bella del Vajont si conclude come nelle favole della nonna, con un matrimonio; ma vicino è un mare di rovine e di morte. "...e sopravvissero felici e contenti"". Vedi, inoltre, "Paese Sera" del 20/10/63, p.7, in cui Bruce Renton, corrispondente del "New Statesman" di Londra, pubblicò l'articolo Il giorno più lungo di Longarone. Il pezzo cominciava con una frase di Shakespeare: "La colpa non è nelle stelle, ma in noi stessi..." e proseguiva con la descrizione del paesaggio devastato, affermando: ""L'Italia frana!...": ecco il grido fatalistico che si sente dopo ogni disastro. I geologi alzano le spalle, i tecnici promettono sicurezza per l'avvenire. E ognuno aspetta il prossimo disastro. C'è una specie di circolo vizioso della catastrofe in Italia!". Il 19/10/63 su "Paese Sera" Enrico Ardù sottolineò che "se c'è tragedia che dimostra il distacco totale, assoluto, irreparabile, tra le popolazioni e le autorità costituite, è questa del Vajont. [...] Ma lo Stato italiano non può essere rappresentato soltanto da quei ragazzi di vent'anni in penna nera che dopo aver disseppellito i morti stanno adesso vegliando i vivi". 21) Cfr. "L'Unità", 11/10/63, p.2. Vedi anche "L'Unità", del 25/10/63, p.3, in cui Mario Passi scrisse che "il grande dramma nazionale si va diluendo nelle pratiche della burocrazia, nell'eterno conflitto delle competenze, nell'elemosina spicciola della POA. Era il momento in cui l'Italia del miracolo economico doveva dare prova di se stessa. Stringere con una mano il collo dei responsabili e con l'altra mano correre qui, per restituire la fiducia, una prospettiva a costoro che tutto hanno perduto". 22) Ibidem 12/10/63, p.1. 23) Ib., 13/10/63, p.1. A tale proposito anche l'editoriale del 20/10/63, Via i farisei dal tempio, del direttore del quotidiano, Mario Alicata, in cui accusò i gruppi dominanti conservatori, in particolare la DC, di fariseismo, di essere cioè "falsi zelatori della verità, del bene e del giusto". 24) Ibidem", 24/10/63, p.5, in cui il giornalista Passi affermò: "C'è da far conoscere ora il dramma dei vivi: [...] di queste donne di Erto e di Casso che il lutto vestono fin da ragazze con i fazzoletti neri annodati sul capo, le vesti lunghe fino ai piedi; di questi uomini che si aggirano con aria smarrita, umiliata [...] e chiedono soltanto di riprendere a lavorare; di tutta questa gente che vorrebbe ricominciare a vivere". E continuò: "L'assistenza della CGIL non è carità pelosa, umiliante elemosina. Se la fanno gli ertani tra loro. L'assistenza va bene, ma non può bastare". Cfr. anche "L'Ora" del 19/10/63, p.3, in cui Ardù affermò: "La retorica continua a imperversare: la vita riprende. E' lo slogan di oggi. Qui la vita non riprende: continua la morte. Giungono richieste di adottare bambini. Il vice-sindaco Arduini risponde secco con un comunicato: " La tragedia che ha colpito Longarone ha distrutto il 90% delle famiglie del capoluogo, famiglie intere. Delle famiglie colpite non vi sono superstiti e quindi non vi sono bambini da adottare". Queste è la terribile realtà, non si possono adottare dei morti".
25) Cfr. "L'Unità", 1/11/63, p.2. 26) Lo stesso giorno, a p.5 Passi affermò che "[...] Il paesaggio è davvero lunare, così arido, deserto. C'è stanchezza ed esasperazione fra questa gente. [...] Essi sentono soprattutto che la tragedia non è servita a mutare [...] il rapporto fra stato e cittadini: che lo stato rimane un'entità lontana, estranea, spesso ostile, presso la quale possono più un pugno di potenti, la Sade, che non un'intera comunità colpita fin nelle sue fibre più profonde. [...] Una barriera tricolore sventola dal campanile. Altri segni di vita non ci sono. Tutto è morto, il silenzio fa stringere il cuore". 27) Ibidem, 9/10/65, p.2. Per capire quanto detto valga questo episodio: numerosi scienziati ed esimi titolari di cattedre universitarie di geologia e idraulica declinarono l'invito ad assumere l'incarico di periti di parte civile contro gli imputati del Vajont. A tale proposito un giornalista anonimo il 10/10/65 scrisse su "L'Unità": "Non si sfida la Sade, l'Enel. Occorre [...] un grande coraggio civile. Come quel professore francese che ha detto: " So che vado incontro a un suicidio professionale". Pochi in Italia e in Europa sembrano possedere questo coraggio. Studiosi stranieri che avevano accettato l'incarico si sono fatti prendere da strani ripensamenti, scienziati che avevano manifestato in vari modi il loro giudizio di condanna sul Vajont non osano esporre tale loro giudizio al tribunale, in contraddittorio con lo schieramento mobilitato dall'Enel a protezione degli imputati. Non a caso le società ex elettriche italiane, grazie ai capitali disponibili per gli indennizzi derivanti dalla nazionalizzazione, sono considerate oggi, su scala mondiale, fra le più importanti imprese progettatrici e realizzatrici di nuovi impianti all'estero".