Riministoria.

Antonio Montanari

I giorni dell'ira.

Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino

Capitolo IV. Repubblichini e nazisti

Il calvario di Rimini inizia il primo novembre 1943 alle 11.50 con una missione di diciotto aerei inglesi divisi in tre squadriglie. Continuerà fino all’alba del 21 settembre 1944, giorno della liberazione. Ci saranno in tutto 396 bombardamenti. Non resterà in piedi che qualche brandello di muro.

La gente scappa senza una meta precisa, racconta nel suo diario Flavio Lombardini: "Sul volto di ciascuno si notava la disperazione". Il 4 novembre ’43, venticinquesimo anniversario della Vittoria, sono sepolte le vittime del bombardamento di tre giorni prima. Vengono stampati e diffusi migliaia di volantini con la scritta "basta con la guerra: vogliamo la pace e il ritorno alla libertà". Chi li ha pubblicati? Annota Lombardini: i responsabili sono "da ricercarsi fra i ‘sovversivi’ d’ispirazione anarchica". Ma il desiderio di pace non fioriva soltanto fra i seguaci di Bakunin. "I borghi Marina, San Giuliano e Sant’Andrea, maggiormente indiziati, vengono minuziosamente setacciati. Segni iniziali di resistenza. Se qualcuno si muove, i tedeschi distruggono tutto. Si registrano alcuni arresti fra gli elementi più sospetti".

Il 27 novembre lascia il suo incarico il Commissario prefettizio avvocato Eugenio Bianchini. Lo sostituisce Ugo Ughi, il cui nome è stato imposto al prefetto di Forlì da Paolo Tacchi. Ughi, nato a Rimini nel 1908, è un funzionario dell’ente ospedaliero cittadino. Capitano combattente sul fronte albanese e su quello greco, l’8 settembre era a casa in licenza. Ughi accetta controvoglia, ma prima tenta di rifiutare l’incarico. Cerca di utilizzare ambiguamente la cartolina precetto che gli è appena arrivata. Dice all’Esercito che deve fare il Commissario in Comune a Rimini, e comunica alla Prefettura che deve partire per le armi. Tenta cioè di servirsi della cartolina come "arma per evitare" sia il ritorno in divisa sia la nomina politica. Da Forlì lo costringono a scegliere: "Non c’erano scappatoie e scelsi l’incarico civile".

Nelle sue memorie Ughi ricorda "i veti e le pretese dei Comandi Tedeschi". Scrive Lombardini, sotto la data dello stesso 27 novembre 1943: "I tedeschi la fanno da padroni assoluti. Il loro comportamento nei confronti delle Autorità civili e dei pochi riminesi che vivono ai margini della città o sfollati nelle campagne… si palesa aggressivo, spesse volte disumano. Sentono per noi un disprezzo senza limiti… e lo dimostrano con retate di giovani, razzìe di bestiame, cereali, automezzi…". Cominciano ad operare i partigiani: "Vengono abbattuti pali telefonici, poste mine anticarro, messa in opera ogni forma di sabotaggio". La reazione tedesca è dura, spietata. I civili sono costretti a lavori massacranti. Al mare si demoliscono le ville e si distrugge il viale Principe Amedeo per creare postazioni di difesa antisbarco.

 

 

Il 26 ottobre ’43 il Commissario Prefettizio ha avvisato: "In caso di nuovi atti di sabotaggio comunque compiuti il Comando militare germanico procederà alla deportazione dei cittadini in ostaggio": da parte italiana i colpevoli sarebbero stati puniti con la pena di morte. Noi dunque peggio dei tedeschi. Ai nazisti non piacerà lo zelo dei repubblichini riminesi. Comunque tra fascisti di Salò e tedeschi ci sarà sempre uno scambio di favori in nome della stessa causa ed in vista di un fine comune. I fascisti fanno da spietati servitori ai nazisti.

Testimonia il pittore Demos Bonini: "Una notte, il ras della Rimini repubblichina [Paolo Tacchi], venne ad arrestarmi come ostaggio politico, e assieme ad altri otto finii nelle mani dei tedeschi… Fummo portati al Comando di Villa Spina sulle colline riminesi e passammo tre giorni in uno stanzone vuoto, in piedi o sdraiati sul pavimento…". Era il dicembre ’43: "Poi venne la fine della prigionia, ma la vigilanza della polizia politica era sempre presente. Così cominciò la lunga fuga, mai in casa, via per le montagne vicine, partenza all’alba, e ritorno alla sera".

Pietro Arpesella, che a Riccione aveva partecipato al salvataggio di tre generali inglesi, ricorda quanto si fosse dato da fare Paolo Tacchi per catturare lui e gli altri antifascisti che avevano agito in quell’occasione. Ad aiutarlo, ci furono i carabinieri, "rischiando di persona": il maresciallo Fico, attraverso il brigadiere in pensione Russo, fa sapere ad Arpesella che Tacchi ha dato un ordine preciso: se lo prendono, non arrestarlo ma fucilarlo sul posto.

La famiglia Lanzetti subisce le ire di Tacchi per aver dato ospitalità ad un soldato inglese. All’arresto dei fratelli Gino ed Anselmo segue il loro trasferimento a Lugo, dove i due vengono colpiti con "botte da orbi". A Bologna deve svolgersi il processo contro di loro, li salva un bombardamento: "Avevamo una scorta di dodici persone con due carabinieri; i dodici se la sono squagliata" ed i due carabinieri dicono ai Lanzetti: "Noi vi diamo la libertà". Maria Geroni, moglie di Anselmo Lanzetti, aggiunge: "Dopo l’arresto di mio marito, una sera si presenta Platania e si mette a parlare", dicendo che "Tacchi voleva che la famiglia dei Lanzetti fosse sterminata".

 

 

Dopo i bombardamenti del 26 novembre e del 28, 29, 30 dicembre, Rimini diventa una "Città morta": così la definisce Ugo Ughi nel suo rapporto al prefetto, scritto il 2 gennaio ’44. "Una sola cosa mi conforta", scrive Ughi, "che Iddio e gli uomini dopo la sperata vittoria vendichino tanta strage e tanti danni arrecati su una Città inerme…". Le relazioni di Ughi al prefetto sono una fonte di cronaca sulla vita a Rimini sotto i bombardamenti, con i segni della realtà politica di quei giorni. I protagonisti sono divisi su due opposti palcoscenici. Da una parte la gente comune, con la sua sofferenza in quel tragico spettacolo di morte, con la distruzione lenta della città voluta non dal caso ma dai piani di guerra decisi dopo la conferenza di Teheran, svoltasi dal 28 novembre al 2 dicembre ’43. Dall’altra, il capo dell’amministrazione pubblica che ostenta sicurezza nella "sperata vittoria" e negli incrollabili destini della Patria, secondo gli ultimi scampoli della logora retorica di regime.

A volte sembra quasi che Ughi non riesca a rendersi conto di quanto scrive. Dopo i bombardamenti succedutisi dal 28 al 30 dicembre ’43 egli riferisce: "La cittadinanza -percossa da così vasta sciagura- ha mantenuto contegno calmo e, vorrei dire, spartano: gran parte lavoravano sulle macerie…". Don Angelo Campana racconta invece che quei "tre bombardamenti costrinsero tutti ad andare via, ben pochi rimasero" in città. Dopo l’incursione del 21 gennaio ’44 Ughi osserva: "La popolazione presente in Rimini ha tenuto un contegno tranquillissimo: i bombardamenti subìti l’hanno già spiritualmente corazzata". Ed aggiunge di sperare nella "risurrezione di Rimini". "Tutta Rimini e dintorni in campagna!", riporta don Serafino Tamagnini nella "Cronaca parrocchiale" di Vecciano (Coriano). Il potere mostra certezza in se stesso, pur in mezzo alle difficoltà: "Durissimo il mio compito - quello del camerata Tacchi Segretario del Fascio… attivissimo il Fascio". Tra la gente si acuisce "l’odio ai fascisti, causa di tutti i guai d’Italia", spiega don Tamagnini.

 

 

Il 30 gennaio ’44 Ughi definisce Rimini una "Città quasi deserta". Il giorno prima le bombe hanno arrecato "irreparabile offesa" al Tempio malatestiano: "Dall’immane ferita aperta verso il cielo non più sale a Dio la preghiera dei fedeli, ma sì una invocazione di giusta vendetta contro gli assassini degli innocenti e i distruttori dei più alti valori dello spirito e della civiltà umana", dei quali ovviamente i fascisti si sentono eredi ed incarnazione. Le autorità sono sempre "sul posto prima del cessare dell’allarme". "Calmo ed ordinato il contegno della popolazione presente": Rimini dà un esempio "meritevole… di essere posto all’ordine del giorno della Nazione".

Don Tamagnini scrive: "La storia d’Italia e del mondo non ha forse visto spettacolo più triste! Che orrore! Che disfatta! Povera Patria! Povera Rimini!".

Dalle campagne e dai Comuni limitrofi, scendono a Rimini i "corvi umani", contro cui nulla può, precisa Ughi, "la dinamica energia del Segretario del Fascio", Paolo Tacchi. Nelle retrovie, racconta don Tamagnini, i tedeschi procedono al saccheggio "delle nostre belle contrade. Razzìe di bestiame, rubamenti a mano armata nelle case e nei campi, oltraggi alle persone…". Il 23 marzo ’44, Ughi elogia ancora il comportamento "veramente ammirevole" della popolazione di Rimini che "merita di essere additata ad esempio di elevatezza morale, di sentimento patriottico, di spartano stoicismo non solo alle Città di Romagna, ma a tutta l’Italia". "Serenità e stoicismo", ribadisce tre giorni dopo, quando viene sconvolto il Cimitero: "…oggi anche la maledizione dei morti" perseguita "i selvaggi nemici".

 

 

"Serenità". La gente vive invece nel terrore. Dal cielo, arrivano le bombe. E sulla terra ci sono repubblichini e nazisti. I tedeschi rastrellano in continuazione la popolazione per i lavori forzati. Qualcuno riesce a fuggire col cuore in gola, gettandosi tra l’erba alta dei campi della periferia. E per trovare forza a continuare a scappare e placare l’arsura, mangia fili d’erba. Qualcun altro è meno fortunato. Athos Olmeda, un riccionese di diciotto anni, è ucciso per essere andato a bere ad una fontanella: i tedeschi sospettavano una fuga.

Nella piazza di un paese della Val Marecchia, un soldato tedesco sporge dal telone posteriore di un camion, con una mano dalla quale tende "una borraccia seguita da una voce lamentosa che chiedeva "Wasser!"", acqua. Un ragazzo di dodici anni vuole vedere, e s’avvicina a quegli autocarri nazisti "carichi di morti e di feriti". Caritatevolmente, il ragazzo afferra la borraccia, corre alla fontana, mentre il veicolo si avvia: "Un altro braccio improvvisamente si sporge dal camion, agguanta per i polsi il fanciullo con borraccia e tutto e lo issa di peso dentro l’automezzo…", sotto gli occhi del padre e della madre. Invano il ragazzo tenta di liberarsi. Il suo destino è ormai segnato da quella borraccia. Non ritornerà più a casa, "scambiato probabilmente per una staffetta partigiana o comunque uno scampato a una strage e perciò nemico e da trattenere…". Solo mezzo secolo dopo, scrive Rodolfo Francesconi, il suo destino è stato ricostruito perché "il nome, puntigliosamente, figura ancora in due elenchi: quello di un carico arrivato ad Auschwitz e, quello più terribile, di un gruppo di prigionieri avviati alla camera a gas".

La strada per Auschwitz passa da Forlì, dove all’albergo Commercio in corso Diaz, è allestito nel ’44 un "campo di concentramento degli ebrei" della nostra provincia. Non si sa quante persone vi siano state segregate. Grazie alle ricerche di Paola Saiani si sa che a Forlì furono compiuti due eccidi restati sconosciuti: il 5 settembre (30 vittime, 26 identificate di cui 10 ebree), ed il 17 settembre (7 donne ebree uccise: erano le madri, mogli e sorelle delle vittime precedenti). Spararono le SS tedesche, i repubblichini vigilavano attorno. Gli uccisi erano italiani e stranieri, tutti arrestati nella provincia e trasferiti a Forlì nel tragico hotel sulla via di Auschwitz. Una testimone di quegli orrori fu suor Pierina Silvetti che nel ’44 era assistente al reclusorio femminile del capoluogo, e che ricorda i fatti in un diario: "Credevamo davvero che le donne sarebbero state risparmiate, perché un ufficiale delle SS ci aveva assicurato che le avrebbero rimpatriate. […] Poche ore dopo sapemmo la terribile verità, erano state fucilate" alle Casermette, in aperta campagna. Nella primavera del ’45, suor Pierina fu portata dal Comando alleato a riconoscere quei corpi che "giacevano decomposti l’uno accanto all’altro, tutti portavano i fori dei proiettili alle gambe e alla testa".

 

 

I nazi-fascisti all’inizio del ’44 mettono in atto un piano di spoliazione per lasciare agli italiani ed ai loro alleati soltanto "terra bruciata". I documenti non sono numerosi, scrive Bruno Ghigi, ma appaiono sufficientemente eloquenti per dimostrare "quali altri terribili rischi, oltre ai continui bombardamenti" avrebbe corso Rimini se i tedeschi avessero potuto portare a termine i loro piani di demolizione di seicento tra case e ville. Il Commissario straordinario Ughi il 4 aprile ’44 invia al Prefetto un’allarmata relazione su Bellaria, parlando di un’"eccitazione, ora allo stato di ebollizione" capace di esplodere "al verificarsi delle demolizioni": "il dolore e l’ira e l’angoscia dell’attesa fanno velo e impediscono il giudizio sereno e la rassegnazione". Per Rimini "è palese una maggior compostezza nel racchiuso dolore", perché "parte dei proprietari degli edifici in demolizione appartiene al ceto medio in possesso di qualche altra risorsa economica".

Il linguaggio del Commissario straordinario oscilla in un’ambiguità disarmante. Per i bellariesi s’invoca "un intervento di più alta autorità", capace "forse" di "abbinare l’azione di convincimento alla sia pur vaga eventualità di misure di energie" per "sedare gli animi". Il Commissario Ughi non poteva ignorare che le misure energiche venivano prese, se necessario, e non studiate come "vaga eventualità".

Il "Piano di evacuazione" avrebbe costretto i riminesi ad una deportazione a tappe forzate in sette giorni fino a Tebano (Ravenna), nella zona all’incirca di Riolo Terme. Erano 114 chilometri da percorre a piedi con questa scansione: 20 (Rimini- Montalbano attraverso Canonica), 13 (Montalbano-Longiano-Calisese), 18 (Calisese-San Carlo), 16 (San Carlo- Fratta), 15 (Fratta-Vecchiazzano), 12 (Vecchiazzano-Villagrappa) e 20 (Villagrappa-Tebano). "Gli sfollandi potranno trasportare con loro indumenti ed oggetti strettamente necessari", dice il "Pro memoria" della Prefettura di Forlì (13 aprile ’44), che citava "ordini pervenuti dal Comando germanico". Il piano interessava una profondità dalla costa di circa dieci chilometri.

Il 30 aprile il Commissario Ughi rende noto che "per ordine delle autorità militari germaniche è fatto obbligo alla popolazione di evacuare, entro il giorno 15 maggio" le zone costiere, mentre il Comune si riserva "di trattare colle autorità militari germaniche circa la possibilità di permanere o accedere ai poderi, orti e terreni […] ai fini della coltivazione e della custodia e raccolta del bestiame e dei prodotti". Secondo gli ordini tedeschi, non sono state concesse eccezioni: lo sgombero è "assolutamente obbligatorio per tutti, e perciò anche per la popolazione colonica e per la massa del bestiame".

Perché il piano non venne attuato? Ha scritto Maurizio Casadei che la causa va rintracciata nella "ferma opposizione in massa della gente e delle amministrazioni locali". Mutava anche la situazione militare al Sud d’Italia. La sera dell’11 maggio inizia l’offensiva alleata contro la "linea Gustav" che seguiva il corso del fiume Garigliano dalla foce a Montecassino e poi, attraverso l’Appennino molisano, arrivava all’Adriatico. Il 18 maggio il corpo polacco inserito nell’VIII armata britannica riesce, dopo durissimi combattimenti, a impossessarsi di Montecassino dove i tedeschi avevano installato artiglierie che tenevano sotto controllo la parte decisiva del fronte. La "linea Gustav" era spezzata. E il 4 giugno Roma viene liberata. Per la costa riminese non si parla più della deportazione dei civili.

 

 

Il 18 febbraio 1944 ai renitenti e ai disertori è comminata da Graziani la pena di morte, dopo una protesta di Kesselring su quell’esercito che è una "burletta". Graziani chiama anche alle armi le classi ’22 e ’23, ed il primo quadrimestre del ’24, entro il 25 febbraio. Pena di morte a chi non si presenterà. Uguale trattamento a chi si assenterà "per tre giorni". Adesso, i soldati che scappano, li chiamano "assenti". Poi Graziani fa marcia indietro. Perdona chi si è presentato prima del 9 marzo, e quelli che, arrestati entro tale data, si arruoleranno "volontari". Infine, i disertori costituitisi non saranno uccisi ma mandati in galera per un minimo di dieci anni.

Nel marzo ’44, racconta Luigi Sapucci, "il problema di rimanere a casa stava diventando sempre più difficile, perché la repubblica sociale aveva messo insieme una certa rete di informatori". Sapucci decide di arrendersi agli eventi, si arruola, viene mandato come aiuto cuciniere a Padova. Qui trova due compaesani di Mulazzano, Libero Pedrelli e Ottorino [Vittorio] Giovagnoli, che diserteranno, saranno ripresi nelle loro case, e poi fucilati: "Alla fine della sparatoria diversi tedeschi corsero ad immergere le loro dita nel sangue ancor caldo che sgorgava dai corpi delle due vittime e a sbaffiare i nostri volti dicendoci: "Buono sangue italiano?"". Il 25 aprile ’44, Graziani promette il perdono agli "sbandati".

 

 

"A Viserba, c’era un fascista che tutti i giorni si metteva in mezzo alla strada, in divisa nera, pistola al fianco, due pugnali alla cintura, mentre un disco suonava ‘Giovinezza’", rammenta Nicola Padovani, classe 1921. A Viserba, nella corderia, vengono rinchiusi gli italiani rastrellati dai tedeschi e dai repubblichini. Salvatore Berardi, classe 1932, giocando con altri ragazzi suoi coetanei, aveva scoperto per caso che una specie di fogna collegava la corderia con la fossa esterna dove scorreva l’acqua per il mulino: "Essendo dei bambini noi allora potevamo girare senza paura e così ci avvicinammo ai cancelli", per avvisare i prigionieri italiani di quella possibile via di fuga. "Ne sono usciti molti, e a guerra finita, in tanti sono ritornati qui per ringraziarci".

Ma nella corderia si trovano anche i "turkestani prigionieri dei tedeschi". Addestrati dai nazisti, "quando iniziarono ad uscire dalla corderia si dimostrarono subito più cattivi degli stessi tedeschi, perché quando vedevano i giovani cercavano di catturarli per portarli come prigionieri alla corderia".

 

 

La gente ricorda i rastrellamenti operati dai militi di Salò assieme ai tedeschi. Un episodio accaduto in Valmarecchia a Ponte di Casteldeci: "I rastrellatori tedeschi… oltre il bestiame razziato avevano nove ragazzi che consegnarono ai repubblichini… Per evitare che durante la notte i prigionieri fuggissero, li avevano messi sul ponte, e all’entrata e all’uscita del ponte s’erano accampati centinaia di militi".

Nonostante questo imponente servizio di sorveglianza, un rastrellato di origine slava riesce a fuggire. "Al mattino presto i militi prendono gli altri otto prigionieri, ad uno ad uno gli tagliano i capelli con la baionetta, asportando anche diverse parti della pelle della testa, poi li conducono nel fiume e gli chiedono qual era il loro ultimo desiderio…". Uno di quei ragazzi vuole una sigaretta, come nei film. Un altro va a lavarsi il viso nell’acqua del fiume, altri bevono: "Poi li fecero mettere tre per tre, con le braccia incatenate l’uno all’altro, e quando erano a posto un milite dalla strada li ha falciati con un mitra". Era il sabato santo, 8 aprile 1944.

I repubblichini spogliarono di scarpe, portafogli e documenti quei giovani, e stavano per andarsene quando si accorsero che uno di loro era ancora vivo: un grosso busto di gesso che indossava, aveva ridotto l’effetto delle pallottole. Si era alzato dal mucchio dei cadaveri, chiedendo perdono: "Sono figlio di mamma anch’io, lasciatemi vivere". Una seconda raffica lo fulmina. Poi "il brigatista boia, prende delle bombe a mano e le lancia sui cadaveri, riducendoli in uno stato pietoso". La testimonianza è di Benedetto Carattoni.

A Tavullia, le bombe a mano i repubblichini le tirano contro la popolazione inerme che attende un’assegnazione di grano. Ricorda Carlo Toni che dopo l’otto settembre fu costretto dai carabinieri di Cattolica a presentarsi al Distretto militare di Forlì, dove assistette alla fucilazione di un gruppo di reclute (che rifiutavano di indossare la divisa di Salò), e di altri soldati che avevano tentato un’evasione: "Le fucilazioni furono eseguite alla presenza delle reclute in modo da intimorirle a non tentare altre fughe". A Gabicce, c’era il Comando dei Bersaglieri di Salò: due militari che hanno tentato di scappare, Rasi e Spinelli, vengono ripresi e giustiziati entro le mura del cimitero di Cattolica.

Una pensionata comunale di Tavullia, Luigia Benelli, così ritrae la situazione della primavera del ’44 nel suo paese: con l’arrivo di molti militi della Legione Tagliamento, comandati dal cap. Antonio Fabbri, quella popolazione, "visse giorni tristi, difficili e tragici". Anche qui cinque giovani fucilati accanto alle mura del cimitero per non aver risposto alla chiamata alle armi. Tra i fascisti, ricorda la Benelli, "oltre ai fanatici, vi erano anche dei buoni ragazzi, ingannati, costretti a dover prestar servizio militare perché presi in rastrellamenti". Ne ricorda uno, con la testa rapata a zero, per punizione: aveva rifiutato di partecipare al plotone di esecuzione. Un altro era stato incarcerato, e raccontava: "Vede, per non fare del male agli altri, mi hanno messo in prigione".

Nella settimana santa del ’44 tedeschi e repubblichini danno la caccia ai partigiani tra i monti della Val Marecchia: siamo a Fragheto, frazione di Casteldeci. Candido Gabrielli, classe 1921, vede arrivare i partigiani che portano con loro un soldato germanico. "Lo scontro tra partigiani e tedeschi… durò tre o quattro ore", e si risolse con la fuga dei partigiani, sopraffatti dalle truppe hitleriane. Il tedesco prigioniero riesce a scappare, raggiunge il suo Comando che decide un’azione di rappresaglia contro la popolazione di Fragheto, rea di aver ospitato i partigiani. I nazisti passano casa per casa, "uccidendo vecchi, donne, bambini". Le case vengono incendiate. È il venerdì santo. Le vittime civili furono 33, tra cui "un bimbo di 18 mesi", come scrive Guglielmo Marconi nelle sue memorie dove è riportato un bollettino militare partigiano sullo scontro armato tra partigiani e tedeschi, prima dell’eccidio: "Dopo quasi tre ore di combattimento i tedeschi lasciavano sul terreno più di cento [uomini] tra morti e feriti, mentre i nostri reparti si ritiravano con soli quattro morti e due feriti leggeri". Poi, "i tedeschi fucilarono trentatré persone della popolazione locale, unicamente responsabile dell’esser stata vicino al luogo del combattimento". Marconi parla di responsabilità di "brigatisti italiani" e di "sete di sangue dei fascisti" che "si scagliò anche sui pochi civili, vecchi, donne e bimbi del luogo… senza che fossero colpevoli di atti di guerra".

La domenica di Pasqua, mons. Luigi Donati si unisce a Ponte Messa ad un gruppo di persone che stava andando a Fragheto: "Ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo terribile, raccapricciante. […] La maggior parte delle case bruciate aveva il tetto di lastre che era crollato seppellendo persone e cose, lì sotto il fuoco ardeva ancora". A chi gli chiedeva notizie, nei giorni successivi, sulla ferocia di tedeschi e repubblichini, abbattutasi a Fragheto, mons. Donati rispondeva: "Mi vergogno di essere uomo".

 

 

I Tre Martiri di Rimini rappresentano bene l’immagine di gente comune, oscuri attori che la cieca violenza nazi-fascista fa diventare protagonisti, recidendo vite giovani. Sono ragazzi costretti a vedere nella lotta armata l’unica strada per riconquistare la libertà per tutti. La Resistenza (quasi sempre) fece dimenticare ai suoi uomini le differenze sociali, e quelle ideologiche. A ricrearle, quelle differenze, spesso ci hanno pensato gli storici, quando hanno ricostruito le vicende di quei momenti.

In una stanza al pianterreno del convento delle Grazie, trasformata in prigione, trascorsero le loro ultime ore Mario Capelli (23 anni), Luigi Nicolò (22) e Adelio Pagliarani (19), i Tre Martiri, che erano stati sorpresi nella base partigiana di via Ducale a Rimini. "Penso che siano stati collocati lì, perché quella stanza funzionava già da prigione e, per di più, il luogo non era molto lontano dal Comando tedesco": infatti erano frequenti le ispezioni dei militari germanici. Così ricorda quei momenti padre Teodosio Lombardi che allora si trovava nel convento del Covignano. Prosegue padre Lombardi: "Il padre Callisto Ciavatti… ebbe contatti con i tre partigiani e li visitò più volte, fino al giorno in cui furono condotti nella piazza Giulio Cesare di Rimini per essere impiccati". Era il 16 agosto ’44.

 

 

Nel 1946 padre Ciavatti inviò al tribunale di Forlì, dove si discuteva la causa per la morte dei Tre Martiri, una deposizione scritta che ricostruisce in maniera molto particolareggiata quanto avvenne alle Grazie il 15 agosto 1944: quel giorno, scriveva padre Ciavatti, "fui informato dal Comando tedesco di Covignano della cattura operata dal Segretario Politico di Rimini [Paolo Tacchi], di tre giovani della città di Rimini. Fui pure informato che sarebbero stati giustiziati l’indomani mattina. Mi presentai al Comando tedesco alle 19 del giorno stesso, dopo aver porto ai tre prigionieri il mio primo saluto. I tre prigionieri, sottoposti evidentemente a torture, erano in condizioni pietose. Il Comando tedesco, dopo ripetute richieste, mi concesse di portare l’assistenza spirituale ai detenuti, il mattino seguente alle 6.30. Successivamente però potei ancora intervenire, attraverso l’interprete, onde commutare la pena di morte nella deportazione. Alle 20 circa uscii dal Comando di Covignano, con la promessa fattami, tramite l’interprete, di rivedere la cosa e con l’ordine di non presentarmi al mattino successivo, attendendo nuove disposizioni. Ma fatti pochi passi, incontrai Tacchi. Egli mi chiese in tono perentorio il perché della mia visita e, alle mie spiegazioni, esclamò: "Niente da fare, padre. La giustizia umana è ormai compiuta". Ma il dubbio che mi percosse in quel momento, diventò certezza allorché, incontrato di nuovo il Tacchi, verso le 22, egli ebbe ad esclamarmi: "Padre, lei è servito!". Poco dopo l’interprete mi confermava la condanna a morte per impiccagione dei tre giovani".

Padre Lombardi, la mattina dell’impiccagione dei giovani, si reca a dir Messa nella chiesa di San Gaudenzio: "Nel ritorno al convento", racconta, "vidi i Tre Martiri, legati con le mani dietro la schiena, scortati dai tedeschi, che si dirigevano verso Rimini".

Padre Amedeo Carpani, che si trovava pure lui al convento del Covignano, il 16 agosto mattina si alzò alle tre e andò subito sotto il portico della Chiesa, "pensando al destino dei poveri giovani". Non ha più speranze di salvarli dall’esecuzione capitale. La sera prima, è andato assieme a padre Callisto Ciavatti, a scongiurare il Comando tedesco "di non ucciderli, ma di portarli eventualmente in Germania". Conferma padre Carpani: "Non ci fu niente da fare, anche perché Tacchi, che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli". Padre Carpani, alle sei di quel 16 agosto, vede arrivare "sul piazzale delle Grazie gli ufficiali tedeschi, con una piccola squadra di Mongoli, a prelevare i tre giovani", che, con le mani legate dietro alla schiena, vengono condotti in piazza Giulio Cesare: essi "erano convinti di essere fucilati, ma poi quando seppero che venivano impiccati rimasero molto male". Padre Carpani "di nascosto riuscì a seguire i particolari di quella triste vicenda andando sino alla piazza" Giulio Cesare.

 

 

Chi era quel Leone Celli (barbiere, originario di Forlimpopoli) che aveva permesso la cattura dei tre giovani? Un "infame" come scrissero i partigiani nella relazione sul fatto? O anche lui una vittima degli eventi? Celli si sarebbe trovato coinvolto casualmente nella vicenda. Assieme ad altre persone verso l'8 agosto, aveva assistito alle minacce rivolte da un contadino ad una vecchietta che raccoglieva frutta da un albero del podere. Celli ne prese le difese, minacciando il contadino per il tono violento usato contro la donna, eccessivo rispetto all'entità del furto subìto. Qualche giorno dopo quell'episodio, è incendiata una trebbiatrice, il 12 agosto. Celli viene sospettato di essere l'autore del sabotaggio. Fermato dai repubblichini, forse perché picchiato o forse per evitare guai peggiori, scambiò la propria salvezza con la delazione: "So dove ci sono dei partigiani", avrebbe detto. Lui, come barbiere, in via Ducale, c'era stato qualche volta.

Quando furono arrestati i Tre Martiri? Il 13 agosto verso le 17.30, secondo un articolo di Montemaggi del ’64 in cui si riportava una testimonianza di Paolo Tacchi. Montemaggi nel ’94 ha spostato l'evento al giorno 14 in base al "Rapporto riservato" (stilato il 30 agosto), del 471° Gruppo germanico. Nel "Diario di guerra" del Comando Supremo della Decima Armata tedesca, la notizia è registrata il 15 agosto: lì si trova anche scritto che la cattura dei tre "banditen" avvenne "nell'ospizio Marino (poco a sud-est di Rimini)" in località Comasco: è un errore. I tre giovani sono stati catturati nell'Ospedalino Infantile (Aiuto Materno, via Ducale). Padre Carpani ricorda il 14 agosto. In altre fonti si parla di quanto tempo i tre giovani restarono nelle mani dei nazi-fascisti. Secondo Maria Pascucci ("Il ras di Rimini [Tacchi] li tortura per far loro confessare i nomi. Essi tacciono e resistono…"), si tratta di "tre giorni". Essendo stata eseguita l'esecuzione capitale il 16 mattina, la cattura sarebbe dunque avvenuta il 13 pomeriggio. Per Guido Nozzoli, tra l'arresto e l'esecuzione non passarono che trentasei ore. Quindi la cattura sarebbe del 14. Chi vi era presente? Secondo Montemaggi (1994), c'era Alfredo Cecchetti [Cicchetti]. Per Nozzoli, Cicchetti non era nella base di via Ducale al momento dell'irruzione.

 

 

Ad un pranzo ufficiale di ringraziamento da parte dei tedeschi ai medici dell’ospedale di Rimini nel giugno ’44, Paolo Tacchi ha pronunciato "una specie di discorso": "…penso che la guerra per noi sia già perduta… […] La Germania e l’Italia… ormai sono fuori combattimento". Il col. Christiani, ascoltando le parole di Tacchi, tradotte da un interprete, "diventò pallido e mostrò la sua incredulità e sofferenza". Un allarme aereo tolse dall’imbarazzo gli invitati italiani, già in preda ad un "certo panico" per quell’incidente politico. Ognuno "prese la via della fuga". [M. Righi]

Quando, nell’estate del ’44, il ten. col. Werner von Lutze se ne va da Rimini, il nostro Municipio gli regala per ricordo un portasigarette d’argento, dal valore di 2.400 lire. Alle gentilezze, i nazisti rispondono requisendo tutti gli automezzi. È del luglio il bando tedesco che obbliga tutti gli uomini dai 18 ai 30 anni, a presentarsi a lavorare per le truppe germaniche. Il 12 agosto il maresciallo Kesselring annuncia che sono previste feroci rappresaglie contro le popolazioni residenti dove agiscono i partigiani.

Dal primo luglio ’44, "tutti gli iscritti regolarmente al Partito Fascista Repubblicano di età fra i 18 e i 60 anni e non appartenenti alle Forze Armate Repubblicane, costituiscono il corpo ausiliario delle Camicie Nere composto dalle squadre di azione". Le brigate nere, scrive Petacco, "si riveleranno nella loro stragrande maggioranza delle bande di canaglie e di torturatori", che misero in atto la ‘carta bianca’ che era stata concessa nel novembre ’43 di passare per le armi gli antifascisti, e che costituì "l’inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il Paese".

Il 15 luglio ’44 i partigiani sono stati riconosciuti dal governo italiano "come parti integranti dello sforzo bellico della nazione". Dal 5 luglio, l’ingresso a Rimini è vietato senza un lasciapassare. Annota nel suo diario, Lombardini: "La città è irriconoscibile. Sul viso di quanti incontro noto i segni della disperazione. Quando avrà fine il triste calvario? L’avanzata delle truppe alleate procede lentamente. Sono ancora assai lontane".

L’attacco alleato alla Linea Gotica inizia nella notte tra il 25 ed il 26 agosto 1944, sulle rive del fiume Metauro. L’arrivo a Rimini il 21 settembre apre le porte all’Italia del Nord. Il fiume Marecchia, scrive il Quartier generale alleato, era "l’ultima barriera prima della pianura". I soldati alleati che girano per le nostre strade tra le infinite macerie, hanno sulla bocca una sola esclamazione: "Cassino, Cassino!".