Riministoria © Antonio Montanari
il Rimino, n. 65, anno III, marzo 2001
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Speciale / il Rimino: Daniele Luttazzi, è versa satira, con scritti di Massimo Gramellini, Giampaolo Pansa, Oreste del Buono e Pierluigi Battista.


Giovani, la miopia degli adulti

Recuperare le "radici"

di Piergiorgio Terenzi (*)

Fiumi di parole sono stati versati e tuttora si versano sul pianeta giovani. Tutte parole assennate ed anche con bravi e solidi fondamenti. Parole specialistiche di psicologi, sociologi, sacerdoti ed educatori compresi.

L'ampiezza, se da un lato arricchisce e permette la focalizzazione delle varie facce del diamante, alla fine rischia di scoraggiare anche il più dotato di metodo, pazienza e buona volontà. Come uscire dalla strettoia nella quale, senza colpa, siamo?

Unica pista, almeno ipoteticamente parlando, è quella del recupero serio delle "radici". A questo, pur in poche righe, vorrei mirare.

Sempre di più succedono fatti che sconcertano. Episodi che hanno come protagonisti dei giovani che, con apparente illogicità, sconvolgono, anzi negano schemi di valori o di comportamento cosiddetto "civili".

Il punto interrogativo che ne nasce, è anche stizzoso, quasi risentito. E' premessa logica e psicologica di una risposta non solo violenta, ma persino dittatoriale.

"Oggi hanno i soldi… e noi non li avevamo! Hanno tempo per divertirsi… e noi solo in certi periodi dell'anno. Vanno quasi tutti a scuola… e noi a lavorare duro! Cosa cavolo vogliono di più dalla vita? Il vero male è che 'hanno troppo'! Andava meglio quando andava peggio!". Potremmo continuare.

Tali giudizi hanno una logica ed una loro credibilità. Sono fondati. A mio parere, il difetto più grande che presentano è quello di essere "miopi"! Vedono bene e chiaro da vicino, ma non riescono a cogliere con lucidità "il contesto".

Contesto non colto perché di questo essi stessi sono prigionieri. Lo considerano dogmaticamente "normale".

Il vero punto critico da esaminate meglio è proprio il normale.

Normale non tanto in se stesso, ma "perché pacificamente e tacitamente accettato". Potremmo definirlo il "dogma" inamovibile della nostra cultura. Dogmi identici a destra come a sinistra. Cambia solo l'indicazione dell'idolo davanti al quale prostrarsi.

Però, alla fine del nostro discorso, potremo ripetere con sicurezza: "L'uno o l'altro per me pari sono".

La radice di tutto, in termini psicoanalitici, si chiama "sindrome da onnipotenza". In termini mitici si chiamava più semplicemente "pietra filosofale". E' la ricerca spasmodica della "chiave" in grado di aprire "tutte le porte".

Per possedere, o meglio per conquistare questa chiave (messianismo) occorre essere disposti ad uccidere anche la propria madre (vedi ultimo episodio).

Come si chiamano tali chiavi magiche? "Mercato", "Collettivismo", "Scienza e tecnica", "Medicina", … a voi il compito di completare.

Spesso l'irrazionalità oggettiva dei loro comportamenti è dura denuncia della follia storica, oltre che teorica, delle mete e dei valori che ci muovono non solo in chiave personale, ma anche politico-sociale.

Bisogna riconoscere che per "curare" i giovani, dobbiamo fare una seria autoanalisi ed una severa terapia di noi "più adulti".

Facile rendersi conto che l'analisi e la terapia proposte non sono di "nostro pieno gradimento". Alla fine, però è così.

[28.02.2001]

(*) Fondatore e primo direttore del settimanale riminese "Il Ponte".


Questo articolo è stato pubblicato da "Il Corriere di Romagna" del primo marzo, ricordando che è stato scritto per "il Rimino". Ed è citato integralmente nella rubrica di G. Riotta, Stampa on line, del 2 marzo. In una lettera apparsa sullo stesso "Corriere di Romagna" del 3 marzo, il dottor Antonio Bondì ha scritto: "Grazie a Don Piergiorgio Terenzi, parroco di Montefiore Conca, per la sua lettera apparsa sul Corriere di Rimini di oggi".


PERICOLOSE MODIFICHE ALLA LEGGE SULLA STAMPA

La proposta di legge Anedda (7292/2000), apparentemente dedicata al reato di diffamazione a mezzo stampa, contiene alcuni pericolosi emendamenti che potrebbero modificare la legge sulla stampa (47/1948) in senso fortemente repressivo, estendendo il reato di stampa clandestina a qualsiasi "periodico, anche se diffuso a mezzo di trasmissioni informatiche o telematiche, senza che sia stata eseguita la registrazione".

Per maggiori informazioni: http://www.peacelink.it/censura
Fonte: ShinyStat / Shiny Corporation S.r.l info@shinystat.it


"Rimini, non sei l'ombelico del mondo"

Sotto questo titolo appare nel "Ponte" del 4 marzo, e nell'edizione on line, un bell'articolo di Giorgio Tonelli, Caporedattore del TG3 dell'Emilia Romagna, nonché fratello di don Giovanni Tonelli, direttore dello stesso " Ponte ".

Su questo giornale, nel numero precedente era apparso un articolo critico verso la Rai regionale, accusata di ignorare Rimini e la Romagna ("La televisione e la radio pubblica 'schiacciate' sulla vita bolognese", sintetizzava il sottotitolo.)

Ecco che cosa scrive Giorgio Tonelli:

"Rimini, vista da Bologna, è una giovane città di provincia, dal gran dinamismo, ma politicamente poco più che nana. Una città che non sembra avere una cultura politica che vada oltre il proprio orticello. Del resto, le menti migliori della città si dedicano ad altro. Col risultato, per esempio, che negli ultimi dieci anni Rimini non ha espresso un solo assessore regionale. La vicina Ravenna, solo per fare un esempio, ne conta ben tre (oltre ad Errani, Pasi al Turismo e Tampieri all’Agricoltura).

"L’espressione morettiana (da Nanni Moretti) "continuiamo a farci del male" ben si adatta a Rimini se guardiamo anche alle recenti cronache di palazzo Garampi, ad di là delle appartenenze. Modesto consiglio dunque: allo spesso inutile bla bla riminese proviamo tutti a seguire con maggiore attenzione ciò che si muove nelle altre città della Regione.

"Scopriremo che nella sanità Modena sta superando il pur celebrato polo ospedaliero bolognese che - per qualità della vita e benessere - Bologna ha sostituito Parma, che le principali province della Regione hanno raggiunto la piena occupazione, che crescono le aziende della Regione quotate in Borsa. E si potrebbe continuare. E Rimini? Distrugge ciò che crea - come ricordava anche Sergio Zavoli in una intervista al "Ponte", ammira il proprio ombelico, non crea alleanze (è città troppo orgogliosa), ogni anno tira il dado sperando che la stagione vada bene. E soprattutto non ama le proprie creature. Un esempio? La nuova Fiera dal parto interminabile. Sono apparentemente uscito dal seminato solo per dire che ogni città ha ben diritto di rivendicare più spazio nella comunicazione. E tuttavia lo spazio è proporzionale a ciò che si ha da dire in termini di innovazione, di esclusività, d’importanza che una scelta assume per la gente.

"La comunicazione è un fattore competitivo purché si abbiano chiari gli strumenti e gli obiettivi. Purtroppo la richiesta di maggiore visibilità può servire - lo riscontro quotidianamente - anche a nascondere una sostanziale mancanza di idee. Poi ci si stupisce quando si verificano scollamenti fra il Paese istituzionale e quello reale. La città di Rimini si apra maggiormente al confronto e al dialogo con Bologna, con Roma, con Bruxelles. Si candidi per qualche importante ruolo (penso a Parma e alla sua richiesta di sede per l’Authority Alimentare). La Rai ci sarà, pronta a raccontare, sorreggere, sostenere Rimini non per una richiesta campanilistica ma per un ruolo più consono alla sua importanza ed alla sua storia."

Come diagnosi non è male: si può dare torto ad un giornalista così esperto come Giorgio Tonelli, quando sottolinea i vizietti del provincialismo riminese?

Caro Giorgio, tu conosci la stima e l'affetto che mi lega a te. Con tutta sincerità debbo confessarti che ti meriti un bel "dieci" come voto per questo tuo compitino. Ma come negare che il 'tuo' telegiornale privilegia l'Emilia e trascura la Romagna?

Non lo dico con lo spirito di quelli del "Mar", da cui sono lontano mille miglia, per una complessità di motivi che non sto qui a spiegare (dico solo che il sen. Lorenzo Cappelli che da politico del "Mar" lancia tuoni e fulmini, alla fine come presidente dei Filopatridi di Savignano, affida la cura degli Statuti di quel Comune ad uno studioso di Modena: in Romagna, tra i mille suoi amici ed adepti, non ne ha trovato nessuno. Siamo ridotti molto male se è cosi).

Tutto è Bologna e contorni, non solo in Rai, come dimostrano purtroppo anche altre emittenti: una tivù 'diversa' ha trasmesso un notiziario dell'Ente Regione (pagato cioè dai contribuenti) sulla stampa scritta, parlata ed 'immaginata' in Emilia Romagna. Di cose romagnole neppure l'ombra.

A proposito di Rimini, caro Giorgio, vorrei aggiungerti una perla: in un tg locale (VGA) ho sentito il presidente della Fondazione Carim, Luciano Chicchi, dire, a proposito dei restauri al Tempio e al Castello di Sigismondo: "Dopo che abbiamo riconsacrato il Tempio…". "Abbiamo": c'erano lui ed il Vescovo a celebrare? Chicchi è forse Cardinale, od almeno si ritiene tale in pectore, se ha pronunciato quella frase…

Comunque, buon lavoro a tutti, Cardinali e Sagrestani.
P. S. Sabato 3 marzo una trasmissione pomeridiana della Rai con il buon Osvaldo Bevilacqua da Forlì e Cesena, ha presentato una carta della regione con due sole province romagnole: Forlì e Ravenna. Rimini, chi era costei?

[A. M.]


Sigismondo ed i Malatesti


Da Il Nuovo, Sabato, 24 Febbraio 2001.

Lo splendore dei Malatesti a Rimini

In mostra dal 3 marzo una delle Signorie che hanno fatto la storia del nostro paese, con cimeli e opere esposte al Tempio malatestiano restaurato per l'occasione.

RIMINI - Il potere, il fasto e lo splendore di una delle Signorie che hanno avuto influenza nel nostro Paese. I Malatesti stanno per arrivare a Rimini, dove saranno in mostra dal 3 marzo al 15 giugno. I restauri del Tempio malatestiano e di Castel Sismondo, faranno da sfondo alla manifestazione che racconterà cio' che la potente Signoria significò per l'arte, la scienza, la tecnologia, l'architettura nei territori dominati. Sarà anche l'occasione per riaprire il dibattito sulla

vicenda storica di un dominio durato tre secoli, esteso, nell'età di Sigismondo Pandolfo Malatesti, su vasti territori della Romagna e delle Marche settentrionali. 

La mostra sarà allestita a Castel Sismondo, che proprio in questa occasione aprirà, per la prima volta, i battenti al pubblico. Il recupero di Castel Sismondo si è affiancato a quello di un altro straordinario monumento simbolo della dinastia, il Tempio malatestiano.

L'esposizione, curata da Andrea Emiliani e Antonio Paolucci, si offre come una compiuta illustrazione della vicenda quattrocentesca di Rimini, allora capitale dello stato malatestiano. Armature, cimieri, barde da cavallo, armi da difesa e da torneo, gli impressionanti strumenti di assedio ricostruiti secondo i progetti dell'epoca, illustrano il potere militare e la vocazione belligerante della dinastia. Accanto al potere militare i ''moderni'' modelli di macchine ed argani, illustrati dagli antichi manoscritti e dai disegni originali, resti- tuiscono l'aspetto scientifico e tecnico della cultura fiorita all'ombra della signoria malatestiana.

Ma la sezione certamente piu' affascinante della mostra è quella che rievoca la vita e gli svaghi di corte, degni di una signoria ''illuminata'': suppellettili, arredi, maioliche provenienti dal Victoria and Albert Museum di Londra, accostati alle suggestive effici su monete e medaglie dei membri della dinastia eseguite da Pisanello e Matteo de' Pasti, contribuiscono ad illustrare lo stato dell'arte nel Quattrocento in terra romagnola e marchigiana.

(23 FEBBRAIO 2001, ORE 09:30)



DOCUMENTI/Corriere della Sera, 25 agosto 2000

Il bacio di Paolo e Francesca ispirato da un libro galeotto

di RAFFAELE LA CAPRIA

Quando ho scelto di raccontare per il Corriere la storia di Paolo e Francesca ero convinto che in qualche biblioteca avrei trovato qualche vecchia cronaca, o una novella, un documento sulla vicenda, e poi ne avrei scritto con parole e sentimenti miei la mia versione. Ma ahimè, quando ho chiesto informazioni al mio amico Vittorio Sermonti, che di Dante è uno studioso, tutto mi aspettavo tranne che lui mi dicesse che su Paolo e Francesca non esiste proprio niente. Esiste solo la memoria del fatto di sangue e il racconto che ne fa Dante. E allora? A "lavorare di fantasia" si cava poco, perché la fantasia di Dante è talmente grande che lascia poco spazio alla fantasia altrui. Potrei provare a raccontare la storia come una favola, mi son detto, una di quella favole come La bella e la bestia che ci hanno affascinato da bambini e che anche oggi leggiamo con diletto. Dopotutto la storia di Paolo e Francesca ha molti elementi della favola: la fanciulla che aspetta lo sposo a lei destinato dalla famiglia, lo scambio di persona quando lo sposo le appare nelle vesti del bellissimo Paolo, l’amore a prima vista, la brutale verità (perché il vero sposo era un altro, il fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta, lo sciancato) la delusione spaventosa di Francesca, i successivi incontri con Paolo dopo il matrimonio, il bacio, la vendetta, e la morte degli amanti trafitti dalla spada del marito tradito. Una favola crudele, ma non tutte le favole sono a lieto fine,e questa è una di quelle. Però si possono oggi raccontare ancora delle favole? È un’impresa ardua, anche se qualche volta è riuscita: a Saint Exupery, per esempio, con il suo Il piccolo principe. E se cominciassi a raccontare questa storia prendendo le cose alla larga? Prendendo lo spunto dal fatto che tutto accade, tra Paolo e Francesca, perché c’è di mezzo un libro "galeotto", un libro che fa da mezzano? Mentre i due leggono questo libro (che racconta la storia dell’amore di Lancillotto per la bella Ginevra, moglie di Re Artù) capita che la stessa situazione amorosa si ripeta con loro, e Paolo bacia "tutto tremante" la bocca di Francesca. Com’è sensuale, pronunciata da Francesca la parola "bocca", anche se quel "tutto tremante" ci riporta all’adolescenza, o meglio, all’estrema giovinezza dei due amanti. Perché, non dimentichiamolo, Francesca avrà avuto più o meno 15 anni, immagino, e Paolo poco più, e ricordando questo, tanto più orribile appare il matrimonio combinato per procura dalla famiglia di Francesca, di una ragazza con un uomo che lei non aveva mai visto, e che se avesse visto avrebbe rifiutato con tutte le sue forze. Ma così si usava a quei tempi. Dante mette nel girone degli assassini Gianciotto Malatesta ("Caina attende chi a vita ci spense"), ma non chiama in causa i membri delle due famiglie, i Da Polenta e i Malatesta, che combinarono con l’inganno il matrimonio. Quelli in quale girone andrebbero messi? Ma torno ai due che leggono il libro "galeotto" e agli effetti non proprio benefici di quella lettura, viste le conseguenze. Be’, questo coi libri capita spesso, e in letteratura ci sono esempi notevoli del cattivo influsso di certe letture sugli animi troppo sensibili o non preparati a resistere alle suggestioni esercitate dai libri sulla fantasia. Don Chisciotte, per esempio, per aver letto troppi libri di cavalleria finì pazzo, anche se era un pazzo del tutto speciale, che dice a Sancio: "Se un cavaliere errante diventa pazzo per qualche motivo, grazie tante! Il bello sta a impazzire senza motivo...". Comunque la nipote di Don Chisciotte e un prevosto suo parente fecero un bel falò dei libri della sua libreria che consideravano nocivi, e altri buttarono giù dalla finestra nel cortile. Vale la pena di leggere quelle pagine dove viene messa in atto una selezione molto rigorosa, e alcuni libri che lo meritano (pochi) vengono salvati, gli altri finiscono come ho detto. Una simile selezione e conseguente soluzione sarebbe utile ancora oggi che troppi libri inutili vengono immessi sul mercato. Madame Bovary, neppure lei, ebbe coi libri un buon rapporto, visto che le accesero la fantasia, e con le loro storie aggravarono il suo bovarismo e la resero infelice. Il fatto è che, come dice Ceronetti, i libri ci fanno sognare e "se non immette nel sogno la letteratura è morta". Ma ci sono sogni pericolosi, sogni sbagliati, come quelli di Madame Bovary: "Non erano che amori, amanti, dame perseguitate che svenivano in qualche padiglione solitario, postiglioni uccisi a ogni muta, cavalli scoppiati a ogni pagina, foreste oscure, agitazioni di cuore, giuramamenti, singhiozzi, lacrime e baci, barchette al chiaro di luna, usignuoli nei boschetti, signori coraggiosi come leoni, dolci come agnelli, virtuosi come non se n’è mai visti, sempre ben messi e pronti a piangere come fontane... Più tardi, con Walter Scott, s’infervorò di cose storiche, sognò forzieri, corpi di guardia e menestrelli. Avrebbe voluto vivere in qualche vecchio maniero, come quelle castellane dai lunghi corsetti che, sotto un’ogiva trilobata, passavano le giornate, con il gomito sulla pietra del davanzale e il mento nella mano, a veder venire dalla campagna un cavaliere dalla piuma bianca galoppante su un cavallo nero". Dopotutto non si riesce a dar torto alla suocera della Bovary che corre alla biblioteca di Rouen e interrompe l’abbonamento fatto a suo tempo dalla nuora. Per Flaubert i cattivi effetti della lettura non si fermano al bovarismo. Il signor Bouvard e il signor Pécuchet sono lettori accaniti, e più si illudono di arricchire il loro sapere più diventano preda di quei terribili luoghi comuni che Flaubert sapeva scovare così bene.

Qui finisce la mia digressione sui possibili effetti nocivi della lettura e riprende, con altri pretesti, la storia di Paolo e Francesca che, come si vede, non so raccontare se non tergiversando. Ci si provò D’Annunzio a raccontarla come un drammone elisabettiano fosco e sanguigno, ma a me la sua Francesca da Rimini quando ho incominciato a leggerla è parsa, per la sua ambientazione, costumi, e tutta la paccottiglia dugentesca, un’anticipazione del Sem Benelli, quello della Cena delle Beffe , che tutti ricordano nella versione cinematografica, con Amedeo Nazzari e il seno scoperto di Clara Calamai. Certi dialoghi del primo atto, tra giullari e donzelle, sono davvero spassosi tanto sono inattendibili. Se si pensa al lettore di D’Annunzio, al tipico borghese italiano, che si beava di quell’improbabile cicaleccio medievalesco e di quella poetica lingua esaltata, ci si domanda perché non è stata scritta mai una storia sociologica delle infatuazioni letterarie. Io credo che ci rivelerebbe sulla società italiana e la sua mitomania delle cose molto interessanti.

Con questo non voglio dire che D’Annunzio non sia stato un grande poeta "prefascista" e decadente, anzi penso che nell’uso della lingua, della sua plasticità, sia un maestro, e che l’ Alcione , per esempio, è un libro di alta poesia. Ma la Francesca da Rimini , che lui scrisse per la Duse, non ha molti momenti in cui si sente la grandezza. È bella la figura di Francesca, un po’ più sbiadita quella di Paolo, quella di Gianciotto ricorda vagamente l’ Otello shakespeariano, forse perché accanto a lui c’è il crudele Malatestino a istigarlo con la perfidia di Jago. In definitiva è l’effetto in me prodotto dalla lettura di questo "capolavoro" che mi ha dissuaso dall’idea di "sceneggiare", ri-raccontandola per il Corriere , la storia dei due giovani amanti. E così preferisco ancora divagare...

Appena ho detto queste cose della Francesca da Rimini ho litigato con mia moglie Ilaria, che invece difende quel testo, forse perché fu da lei interpretato nella parte di Francesca quando era ancora una giovane allieva dell’Accademia d’Arte Drammatica, con la regia del bravo Orazio Costa. Lei dice che "teatralmente" il testo non solo regge bene, ma non c’entra niente con Benelli, e il paragone denota soltanto la mia cattiva disposizione. Dice che la figura di Francesca è poetica e drammatica, e insomma leggere un testo teatrale come ho fatto io non vuol dire niente e non serve a niente, perché un testo teatrale si capisce soltanto quando è rappresentato, e durante tutto il lavoro che si fa per rappresentarlo. Per dimostrarmi quanto ero stato superficiale nel mio giudizio mi ha letto alcuni versi, con la giusta intonazione, non declamata cioè, e la sua bella voce mi ha conquistato:

"Come l’acqua corrente

che va che va, e l’occhio non s’avvede,

così l’anima mia..."

Dice Francesca. E ancora, rivolta a Paolo:

"... e tu sei mio

et io son tua,

e la gioia perfetta

è nell’ardore della nostra vita".

Questo lo dice con il presentimento della morte nel cuore, della morte imminente, in agguato là, dietro la porta della sua stanza.

E così, dopo questa dimostrazione, anche in me ambiguamente ha operato la magia dannunziana. Dopotutto sono italiano e non posso eliminare del tutto dal mio essere profondo le ataviche inclinazioni della mia stirpe, come pretendeva il mio senso critico. Così se prima ho proposto, a proposito di D’Annunzio, una storia sociologica delle infatuazioni letterarie, nel mio caso dovrei proporre uno psicanalista junghiano.

A questo punto credo che la cosa migliore da fare sia per me di tornare a Dante, anche perché ho avuto la ventura di leggere a Palermo al Teatro Biondo, davanti a un eletto pubblico, il V Canto dell’Inferno. Apro la Divina Commedia e rileggo i versi dedicati a Paolo e Francesca. Ma mentre leggo mi domando: chissà perché Dante li ha messi all’Inferno se poi ce li presenta come due innamorati romantici travolti, loro malgrado, dalla passione, e che per la giovane età destano solo la nostra pietà. Certo Francesca commette adulterio, ma quel matrimonio combinato con un inganno così atroce non è un’attenuante? E quando Dante vede quei due ragazzi così delicati e quasi inconsapevoli del peccato commesso, non riconosce che lì c’è lo zampino di quell’ "Amor ch’a nullo amato amar perdona", e che, cioè, la felicità dell’amore appagato si paga sempre? Ma perché, se le cose stanno così, quella felicità si paga nientedimeno che con l’Inferno? Non avrebbe potuto Dante mettere Paolo e Francesca in Purgatorio? E poi perché Francesca, una ragazzina che s’immagina con uno sguardo sognante come quello della Venere di Botticelli, Dante la mette nello stesso girone accanto a Cleopatràs lussuriosa, e accanto a Semiramide? Come si fa ad accomunare due esperte peccatrici a due giovinetti che si baciano con tanto tremante trasporto? "La bocca mi baciò tutto tremante": amore adulterino, sì, ma anche inesperienza, avventatezza, innocenza. Insomma nonostante tutto, nonostante la trasgressione a uno dei dieci Comandamenti, Dante qui mi appare un po’ troppo severo. E forse se ne rende conto lui stesso, perché lui mette Paolo e Francesca all’Inferno, ma li fa stare insieme. "Quei due che insieme vanno"... "questi che mai da me non fia diviso"... La vera pena sarebbe stata di metterli separati , uno in un girone e una in un altro. Invece no, stanno insieme , abbracciati sembra, e dunque qui c’è un’attenuazione della pena da parte di Dante. E infine, quando mai, nonostante tutto quello che ha visto nell’Inferno, a Dante è capitato di svenire? Ma qui, davanti a questi due ragazzi e all’enormità della pena che ha dovuto loro infliggere (sembra quasi suo malgrado), Dante sviene. "E caddi come corpo morto cade". È un’emozione troppo forte la sua, un turbamento insostenibile. Come se si fossero sovvertite le leggi che ordinavano non tanto il suo universo morale ma quello poetico. E il "dolce stil novo", che fu suo, ora bruciasse tra le fiamme eterne, travolto dalla "bufera infernal che mai non resta".

Venerdì 25 Agosto 2000

© RCS Corriere della Sera


Il Rimino, 10 marzo 2001


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"… e nessuno tenti di muovere obbiezioni a questo discorso perché io lo rivolgo a chi vuole e rispetta la verità, non ai falsari."

Indro Montanelli, Corriere della sera, 15 febbraio 2001


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