Una fame da morire

Carestia a Rimini, 1765-68

SOMMARIO. Una pagina drammatica e poco conosciuta della storia moderna della città e della sua campagna, attraverso documenti ufficiali inediti. L’importante ruolo svolto a Roma da mons. Giuseppe Garampi per aiutare i propri concittadini. Le vicende hanno per protagonisti gli "ultimi", vittime della natura e della lenta burocrazia statale che non vedeva di buon occhio Rimini.

QUESTO DOCUMENTO CONSTA DI TRE PARTI

PARTE PRIMA

Di grano, fino al 1762, Rimini ne ha avuto a sufficienza per sé e per il Contado. I guai cominciano l’anno dopo: "Si scuoprì […] all’improvviso una grandissima penuria di molti generi necessarj al vivere umano […] tanto che minacciava un’imminente carestia", scrive un cronista del tempo, Ernesto Capobelli: la raccolta di grano è "scarsissima", al pari di quella dell’oliva e dell’uva.

La Diocesi di Rimini, compresa la città, conta 67.374 anime, diecimila in più rispetto al 1738, e 3.518 in più nei confronti del ’55. Nello stesso 1763 "si riaprì in più parti dell’Italia il comercio, e furono date moltissime commissioni di incettare grani, formentoni, ed altri generi […] di modo che rimasero vuoti tutti li Magazzini di Roma, de’ due Regni della Sicilia, dello Stato Fiorentino, e della fertilissima Provincia Anconitana". Il "gastigo" della carestia nel 1764 spinge a Roma "millioni di poveri" dai paesi vicini, "forzati a ricoverarsi dalla Fame". Nella città del Papa essi sono ospitati a spese dell’Erario, in due "serragli": alle Terme, gli uomini, ed alla Bocca della Verità in Campo Vaccino, le donne. Tra quest’ultime serpeggia un’epidemia di vaiolo.

Il "popolaccio" di Roma, ricorda Capobelli, "si fece più d’una volta tumultuante non solo contro li Fornari, ma di più contro Mons. Prefetto dell’Annona, e contro altri particolari Ministri": "Intanto perché la fame andava crescendo per mancanza di pane, e di grani, vivendosi di giorno in giorno alla provvidenza, e con la speranza di riparare quei disordini, che potevano nascere, cominciò il Governo a seriamente pensare per un solecito ripiego e provvedimento". Si acquista grano per un milione di scudi a Livorno, Genova e Marsiglia perché nelle Marche, "il granajo dello Stato Pontificio", non se ne trova più: anzi, i mercanti d’Ancona debbono portarsi a Trieste "ed incettare grani ivi calati dalla Moravia, e da altri lontani Paesi, e comprarlo a carissimo prezzo" (tre volte e più di quanto era prima di allora costato).

Soltanto la nostra Provincia di Romagna, in quell’"anno penurioso", è un "emporio felice, ricco ed abbondante di grano, fave, ed altre granelle, non soltanto per il sostentamento della sua popolazione, ma da poter anche somministrare agli esteri". Ma questa positiva situazione è causa della sua stessa rovina: la Romagna è "malmenata, ed oppressa da chi la reggeva, e governava". Il Legato fa incetta di grano per Roma ed Urbino, annullando tutti i contratti già stipulati con caparra. Dalla tenuta di San Mauro (della Camera Apostolica) e da quelle delle abbazie di san Giuliano e di san Gaudenzio (possesso del Cardinal Ludovico Maria Torregiani, segretario di Stato di Clemente XIII), si esportano tremila staja di grano.

Gli Abbondanzieri di Rimini si trovano senza provviste: non ne hanno fatte, perché erano privi di denaro. La distribuzione di pane e farina diminuisce, "e più volte successe, che le Botteghe dello spaccio" ne mancavano. Un’ultima vicenda giunge ad aggravare la situazione: le incursioni di contrabbandieri provenienti soprattutto da Talamello, Montebello, Mercato Saraceno, i quali obbligano i proprietari terrieri (di Santa Giustina, Sant’Ermete, San Martino de’ Mulini, Vergiano, Spadarolo e di altri paesi vicini), a vendergli il grano, che essi mettono poi in circolazione al doppio del prezzo pagato. Il risultato è che una parte della nostra campagna è spogliata del proprio sostentamento. Dall’ottobre 1763 al febbraio ’64, le scorte riminesi passano da 60 a 17 mila staja di grano. L’ombra della fame comincia a girare per le nostre contrade.

Nei giorni di mercato, centinaia di uomini e donne scendono dalla campagna a Rimini per ottenere la "permissione" di ritirare la loro quota di grano, e si accalcano nella piazza della Fontana, dove ha sede il Governatore: "Argine alla furia di questo Popolo oppresso ed avvilito dalla fame era l’insolente ed inumana sbirraglia, la quale a forza di bocconate, calci, pugni e colpi di bastone sopprimeva la folla, tanto che moltissimi furono li maltrattati, ed anche feriti in modo, che in più parti grondavano sangue". Una donna gravida "della Villa di Ariccione […] spinta, e giù dalle scale rovesciata, poté con gran difficoltà alzarsi, e con grandissima fatica giungere alla sua abitazione, ove in poche ore ne abortì con grave pericolo di sua vita". Anche nelle botteghe troppo affollate, "per resistere alla confusione, che poneva in qualche timore li spacciatori, convenne più volte servirsi del gravoso, ed infame ajuto de’ Birri, i quali con bastoni alla mano, e collo spavento delle loro Armi respingevano la furia del popolo". Il 25 luglio la tensione sfocia in un tumulto proprio sotto gli uffici del Governatore.

La raccolta del ’64, leggiamo ancora nel nostro cronista, non fu scarsa, "ma non riuscì come si sperava", per "il ribaltamento delle spighe, cagionato dalla furia de’ venti". Nel ’65 inizia una vera e propria carestia: a causa del maltempo, "il grano battuto nella maggior parte non s’era introdotto in Città per non esser del tutto secco", narra Capobelli. Il popolo della città e del suo territorio che, per quello scarso raccolto, "soffrì tanta miseria, sperava un ottimo cambiamento con la nuova messe. Ma oh quanto vana, e delusa rimase tale speranza". Anche il 1766, conclude Capobelli, è destinato a rimanere "ne’ futuri secoli memorabile per la sua carestia". La quale dura quattro anni, sino a tutto il ’68.

Prosegue in parte seconda