Riministoria
© Antonio MontanariDon Giovanni Montali nasce a Canonica (Santarcangelo di Romagna), il 28 marzo 1881, in una famiglia povera e legata alla terra, terzo dei sei figli di Michele e Maria Maggioli. A 18 anni entra in Seminario a Rimini, dove (come lui stesso scriverà), fu «attirato subito dagli studi sociali: erano gli anni in cui si propagava in Italia l'ideale della Democrazia Cristiana», per opera soprattutto di un prete marchigiano, don Romolo Murri.
Ordinato sacerdote il 22 settembre 1906, il giorno successivo celebra la prima messa nella Collegiata di Santarcangelo. Va cappellano a San Martino Montellabate per una ventina di mesi, poi il 18 luglio 1908 viene trasferito a San Lorenzino, in aiuto all'arciprete don Leonardo Leonardi, vecchio e malato di cuore. Don Leonardi scompare ottuagenario il 23 marzo 1912: è stato parroco a San Lorenzino per 53 anni. Gli succede don Montali. L'investitura ecclesiastica è dell'11 agosto.
Nel 1912, a San Lorenzino ci sono 305 famiglie, per un totale di 1.967 persone. È molto forte l'emigrazione, in quel piccolo borgo popolato da mezzadri, operai e qualche pescatore. Sul giornale cattolico del tempo, L'Ausa, nel 1903 si era scritto che quella «contrada» negli ultimi anni era stata funestata «da moltissimi fattacci di sangue con inaudite violenze e prepotenze».
Don Leonardi ha lasciato a don Montali una bella chiesa, continuamente da lui ampliata ed arricchita, ed alla Curia un'eredità di seimila lire, con undicimila di debiti.
I due terremoti del 1916 (17 maggio e 16 agosto), mutilano il sacro edificio che dev'essere ricostruito. La benedizione della nuova chiesa avviene il 24 dicembre 1922. L'inaugurazione ufficiale, il 27 agosto dell'anno successivo.
Nel settembre 1944 la distruzione si sarebbe ripetuta, al momento del drammatico passaggio del fronte.
In quella parrocchia costituita soprattutto di poveri, Don Montali, figlio di gente contadina, sta dalla loro parte. Alla sorella Nazzarena confidava: «Sono con loro, li devo difendere, aiutare, seguire. E nello stesso tempo, essere loro un po' utile».
Durante la prima guerra mondiale (come racconta il nipote don Michele Bertozzi), don Giovanni interveniva presso i padroni perché applicassero la legge che li obbligava a sostituire i lavoratori maschi che erano al fronte, pagandoli loro: «Questa povera gente si trovava con l'acqua alla gola, perché quasi tutti gli uomini erano sotto le armi, e a casa rimanevano solo le donne e qualche inabile».
Un uomo molto di cuore, definiva Nazzarena il proprio fratello: egli diceva che «alla tavola di un Montali c'era sempre posto per tutti». E Luigi Semprini, genero di Nazzarena, conferma: «Era di una generosità sconfinata».
La parrocchia era aperta a tutti, a tutte le ore. A chi gli faceva notare che il suo studio era diventato una specie di Camera del lavoro, don Montali rispondeva: «Ma qui si lavora gratis e senza richieste né imposizioni di tessere».
Nel 1914 don Montali istituisce la Cassa rurale di Riccione, San Lorenzino e Casalecchio. Nel '21 i soci saranno 110.
«Nel 1919/20», scriveva lo stesso don Montali, «sostenni i lavoratori nelle lotte agrarie del Riminese: alcuni proprietari terrieri che mi conoscevano bene giunsero perfino a togliermi il saluto qualificandomi peggiore di un socialista. Venuto il fascismo, non mi lasciai spostare da esso neppure di un pollice dal mio programma».
Quel programma ha le sue radici nell'enciclica di Leone XIII Rerum Novarum che nel 1891 ha dettato la prima dottrina sociale della Chiesa: lo Stato doveva provvedere affinché fosse osservata «con inviolabile imparzialità la giustizia retributiva». Il papa aveva condannato, assieme alla cupidigia dei padroni, anche la lotta di classe che aveva attizzato nei poveri l'odio verso i ricchi.
È proprio questo odio che porta all'uccisione, a San Lorenzino, di Secondo Clementoni, un proprietario terriero fulminato da un colpo d'arma il 1° luglio 1920.
Prima del 1922, anno in cui sale al potere Mussolini, don Montali ha lottato conto i socialisti, in modo aperto, «non a tradimento», dice don Bertozzi. Lo stesso avviene sotto il fascismo.
Per don Montali, non esistevano nemici, «ma solo amici di idee contrarie», ci spiega don Carlo Savoretti che fu suo cappellano tra 1934 e '36: «Ha fatto del bene a tutti. Non guardava in faccia alle idee. Don Montali era l'amico ideale. Per lui l'amicizia era cosa sacra».
L'avversione al fascismo lo fa entrare nella lista nera dei nemici del regime. Contrario alla guerra (è suo un importante articolo del 5 novembre 1938, apparso nel Diario Cattolico di Rimini), sfiduciato nelle sorti del conflitto, don Montali finisce nel mirino dei fascisti più fanatici che riveleranno la loro violenza nei terribili giorni del '44. Avvisato che volevano fargli la pelle da «un fascistone di quelli grossi» (come ci ricorda il nipote Elio Coscia), don Montali si rifugia a San Marino, scappando in bicicletta la sera del 20 giugno 1944. A settembre, mentre infuria la guerra, i nazifascisti gli uccideranno per vendetta i due fratelli Luigi e Giulia, che avevano voluto restare a San Lorenzino. Avevano 66 anni Luigi, e 59 Giulia.
«Mai ho potuto sapere con certezza chi sia stato l'autore di tanta barbarie
», scrive don Montali nel '57. Ma la verità è che lui non ha mai voluto sapere. Ascoltiamo don Walter Bacchini, che fu suo cappellano: «Subito dopo il fronte, quando don Montali era già tornato nel suo San Lorenzo, io volli andare a trovarlo. Si fece due passi per vedere e constatare le rovine della guerra. Il discorso cadde sulla morte tragica dei suoi fratelli. Sapevo i nomi dei mandanti degli assassini e stavo per manifestarli, ma lui mi troncò il discorso, dicendomi che voleva continuare a fare il parroco a San Lorenzo, trattando tutti allo stesso modo, senza alcun ritegno. Non chiamerò questa una bontà eroica, ma semplicemente sacerdotale».
Il 13 marzo di quel tragico '44, è intanto morto per malattia Romolo Murri. La Chiesa lo aveva condannato per la sua azione politica con la scomunica maggiore, nel 1909: davanti a quel provvedimento del Santo Offizio al tempo di Pio X, Montali disse di aver provato «uno dei dolori più grandi» della sua vita.
Anche dopo la condanna (la quale proibiva ogni contatto con lo scomunicato che doveva essere evitato a tutti i costi), don Montali conservò con Murri un'amicizia fraterna che tradusse in atti di concreto aiuto all'ex prete ridotto in miseria. Ad un certo punto, don Montali fu tramite tra Murri e il Vaticano. E fu grazie a don Montali che Murri, uno degli spiriti più vivaci ed acuti della cultura cattolica di inizio secolo, poté rientrare nella comunione con la Chiesa di Roma.
Quando arrivò la lettera di Murri che annunciava il suo ritorno alla Chiesa, racconta don Bacchini, don Montali «scoppiò in un pianto da bambino»: «Si era a tavola. Si mise ad aprire la busta ansiosamente, perché immaginava ciò che potesse contenere. Aveva appena letto le prime righe quando incominciò a piangere».
Il dopoguerra vede la seconda ricostruzione della chiesa di San Lorenzino. Nel '56, la parrocchia e la diocesi festeggiano i 50 anni della prima messa di don Giovanni, che si è fatto conoscere in tutt'Italia attraverso un lungo, paziente lavoro di traduzione di importanti testi religiosi francesi.
Il sacerdote scompare il 9 novembre 1959, dopo una lunga malattia. L'Orazione funebre è tenuta per espressa volontà di don Montali, dal suo ex cappellano don Carlo Savoretti, alla presenza del vescovo di Rimini, mons. Emilio Biancheri.
«Figlio del popolo, ebbe predilezione per gli umili e per gli indigenti che più rassomigliavano a Gesù Cristo, felice quando poteva sollevarne le miserie e consolarne i dolori», disse don Carlo: «Non si bussava mai invano alla sua porta. Se non aveva mezzi -perché don Montali visse povero, è morto povero ed ha voluto essere sepolto da povero tra i poveri- li cercava e li trovava. Riferisco dalla stampa di questi giorni: Qualche tempo fa si presentava a don Montali un operaio che doveva lasciare l'abitazione per fine contratto senza essere in grado di procurarsene un'altra perché sprovvisto di denaro. Il parroco vuotò allora il portafogli estraendo trenta mila lire; era l'unico denaro che possedeva. Poi lo consegnò all'operaio scusandosi per la impossibilità di non poter fare di più mentre nella sua voce tremava la commozione. Sembrava -dichiarava l'operaio- che quasi avvertisse un senso di colpa, lui che era capace di dare via anche la camicia pur di aiutare il suo prossimo».
Antonio Montanari
Luglio 1934. Ordinato sacerdote da pochi mesi, don Carlo Savoretti viene mandato a San Lorenzino, e ci resta fino al febbraio 1936. «Sono rimasto poco con don Giovanni, con dispiacere. Poi ho vinto il concorso per la parrocchia di Mondaino. Egli aveva l'età di mio padre. Con lui mi sono trovato benissimo. Era ospitale, cordiale. E democratico: mi impressionò il suo attaccamento alla democrazia e la sua avversione alla dittatura. Ciò affiorava in tutti i suoi discorsi. Era un democratico nato. Noi giovani (sono del 1911, quindi avevo ventitré anni quando arrivai da lui), non sapevamo niente. Eravamo imbevuti di fascismo. Mussolini era il dio dell'Italia».
«Nessuno ci aveva mai parlato dello Stato democratico», dice don Carlo: «non sapevamo che cosa fosse, non lo avevamo mai visto per ragioni anagrafiche, credevamo che il regime fascista fosse l'ideale. Soltanto dopo la guerra, nel 46, ho apprezzato la democrazia. Quando ero cappellano, ero imbevuto dell'idea totalitaria. Il fascismo appoggiava la Chiesa, e noi ritenevamo che esso fosse la forma migliore di organizzazione politica. A quei tempi, faceva paura l'idea del comunismo ateo. Mussolini riscuoteva la simpatia dei preti perché fermava il comunismo. E poi non dimentichiamo che allora tutti o quasi, in Italia, erano per Mussolini. Così anche noi in Seminario».
Era inevitabile che il continuo confronto tra il giovane cappellano ed il maturo don Montali talora sfociasse in qualche pacato scontro: «Con don Montali si discuteva. Una volta lo presi in giro: Voi democratici
. Lui mi rispose: Ti prego di lasciare stare la democrazia. Noi abbiamo speso la vita per la democrazia. Era una lezione un po' seria che mi rimase impressa».
***
Nel 1937, quando arriva a San Lorenzino, don Walter Bacchini ha 24 anni. Resterà con don Montali sino al giugno 44. Don Walter viene immediatamente affascinato dalla personalità del suo parroco: «Aveva una grande apertura d'animo per comprendere tutti, soprattutto quelli che avevano bisogno di aiuto materiale e spirituale. Dava soldi e grano, di nascosto del fratello» che curava gli affari agricoli della parrocchia.
«Aborriva la doppiezza, don Montali, soprattutto quando questa era motivo per guadagnare onori. Era un impavido soldato di Cristo, per difendere i diritti umani contro ogni sopruso politico».
Don Bacchini una domenica durante l'omelia ha l'ardire di sostenere che la gente non la si nutre con il ferro dei cannoni, ma con il pane. Un giovane lo denuncia al fascio di Riccione. Provvedimenti su di lui non vengono presi, ma lo segnalano a Forlì: «Ci fu a Riccione, mi hanno detto, una specie di riunione per il caso provocato da me. Forse per la mia giovane età o per la stima che aveva preso molti nei miei confronti, la cosa fu messa a tacere». L'unica traccia dell'episodio rimase in un certificato militare, ove fu annotato che don Bacchini «aveva manifestato sentimenti antifascisti».
Quell'atteggiamento di rivolta contro la dittatura, ci spiega don Walter, «non era dovuto a me in particolare, ma al fatto di aver avuto la fortuna di essere stato accanto ad un campione della libertà come don Montali».
«Venuto il fascismo, non mi lasciai spostare da esso neppure di un pollice dal mio programma. Ebbi l'onore di parecchie dimostrazioni ostili da parte di esso: ne ricordo una molto clamorosa nel 1932 a S. Lorenzino, ove erano convenute tutte le autorità di Riccione, con otto automobili senza contare quelli che si servirono della bicicletta. Ne ebbi un'altra, anch'essa molto clamorosa, ai 10 giugno 1940, alla sera, per aver sostenuto che l'Italia non doveva entrare in guerra a fianco della Germania, perché il mondo non le avrebbe lasciato vincere la guerra. Nello stesso anno fui denunziato dal Segretario politico di Riccione alle autorità di Forlì, presso le quali dovei andare a difendermi personalmente ed ebbi l'onore di essere diffidato.
«Parecchi anni addietro, nella speranza di potermi annoverare tra i fascisti, da un amico mi fu proposta la tessera ad honorem, che naturalmente rifiutai, dicendo che l'avrei presa se la tessera desse ingegno.
«Nei miei discorsi dal pergamo o dall'altare, il più delle volte vigilati da emissari del fascio, ho parlato spesso della dignità dell'uomo, della libertà che Dio ha concesso all'uomo quale maggior don che Dio fesse creando».
Don Giovanni Montali
15 febbraio 1945
Cercato a morte, il 20 giugno 44 scappai a S. Marino, dove mi tenni per lo più nascosto per evitare di essere preso e consegnato
Tornai nell'ottobre quando la zona del Riminese venne occupata dagli alleati. Quale differenza. Col cannocchiale vidi da S. Marino le rovine più gravi: la chiesa, opera nuova che mi costò non pochi sacrifici, avendola voluta costruire ex novo, trapassata dalle cannonate, con abbattimento di tutto il tetto, tutto il soffitto, con la facciata logorata e rosicchiata dalle cannonate e poi fatta saltare dalle truppe alleate, le quali avevano bisogno di materiali per i loro usi, il campanile dimezzato e forato da colpi della Marina alleata, le campane in parte asportate e in parte spezzate dalla Marina alleata e scomparsi perfino i pezzi di bronzo, la casa canonica anch'essa rovinata e dalla quale furono asportati tutti (diconsi tutti) i mobili meno un letto di ferro che poi fu rubato dai civili, non più porte, non più finestre, non più armadi, non più tavoli, non più sedie, tutto insomma, comprese le scansie dei libri, compreso l'archivio parrocchiale che fu portato via con tutti i documenti che conteneva: la chiesa spogliata dei tre altari che aveva, asportate le 30 panche che avevo fatto costruire in olmo a mie spese per la comodità dei fedeli, asportato l'ambone, che era un'opera d'arte e due grandi confessionali che oltre al loro servizio, decoravano le due cappelle che li ospitavano: tutto insomma scomparso, compresa la quasi totalità degli arredi sacri e dei calici. Le truppe alleate qui di stanza per parecchio tempo si impossessarono perfino dell'ultima sedia e dell'ultimo tavolo e tavolino: l'ultima sedia fu bruciata dalle truppe alleate (indiane) davanti ai resti della chiesa prima che partissero.
Don Giovanni Montali
11 giugno 1957
Don Giovanni Montali (1881-1959), parroco di San Lorenzino a Riccione, fu silenzioso protagonista del "modernismo" romagnolo. Il testo che presentiamo è tratto da «Una cara "vecchia quercia"», edito lo scorso anno dal «Ponte». Nel settembre del '44, i nazifascisti, non trovando in canonica don Giovanni, uccisero i suoi fratelli Giulia e Luigi. Ha scritto don Walter Bacchini: «Subito dopo il fronte, quando don Montali era già tornato nel suo San Lorenzo, io volli andare a trovarlo. [
] Sapevo i nomi dei mandanti degli assassini e stavo per manifestarli, ma lui mi troncò il discorso, dicendomi che voleva continuare a fare il parroco a San Lorenzo, trattando tutti allo stesso modo, senza alcun ritegno». «Voglio perdonare, non ne parliamo più», disse don Montali al suo ex cappellano.
Lo scrivente, odiato dalle forze tedesche e similari, era scappato, perché odiato a morte, non dalla popolazione, ma dagli invasori dell'Italia perché sosteneva la politica della libertà. Egli non era né fascista, né tedesco.
Nella seconda metà del mese di marzo 1940 [
] fu invitato da un suo amico a prendere un caffè e durante la breve chiacchierata con l'amico fu richiesto del suo pensiero sulla guerra che la Germania combatteva: conquistata la Polonia dall'esercito tedesco e russo nello spazio di tempo di circa un mese, la lotta si rivolgeva contro la Francia.
L'amico sosteneva che la guerra sarebbe stata vinta sicuramente dalla Germania, tanto agguerrita e tanto forte, con dei soldati di acciaio. Lo scrivente fu di parere diametralmente opposto, affermando che la Germania pur così armata, pur così forte, avrebbe riportato parecchie altre vittorie, ma che in ultimo avrebbe immancabilmente perduta la guerra. L'amico non si dava per vinto e propose una scommessa di mille lire che la Germania avrebbe vinto. Accettai la scommessa allungando la mano e stringendo, a conferma della mia idea, quella dell'amico. L'Italia era ancora neutrale [
].
Ai 27 maggio 40 fui chiamato a Forlì [
] per essere interrogato dal Questore sulla mia scommessa fatta a Riccione e per essere ammonito a non parlare di questi argomenti. Firmai, senza leggerla, una dichiarazione. Ero un po' innervosito, quantunque non potessi lamentarmi del trattamento ricevuto; anzi trovai comprensione più di quanto mi aspettassi. Chi mi doveva annunziare al Questore mi disse di non parlare di una certa lettera scritta da me sullo stesso argomento dei risultati che avrebbe avuto la guerra a un signore di Riccione perché quella lettera se l'era tenuta per sé, sottraendola ai documenti, che i miei avversari politici di Riccione avevano accumulato contro di me.
La cosa mi fece piacere, perché pensai che anche nella Questura c'era, anche senza conoscermi personalmente, chi mi voleva bene. [
] la stessa persona che si era tenuta per sé la mia lettera, all'uscita mia dal colloquio col Questore, mi suggerì di scrivere un memoriale alla Questura sullo svolgimento della mia conversazione con l'amico di Riccione, anche perché c'era contro di me una lettera del Maresciallo di Riccione.
Appena giunto a casa (e c'era chi pensava di mandarmi al confino) scrissi con la macchinina che ora è mezzo in pensione per i grandi lavori che mi ha permesso di fare (traduzioni dal francese di parecchi anche grossi volumi) il memoriale suggeritomi [
]. Cercato a morte, il 20 giugno 44 scappai a S. Marino, dove mi tenni per lo più nascosto per evitare di essere preso e consegnato
Tornai nell'ottobre quando la zona del Riminese venne occupata dagli alleati. Quale differenza. [
] Mentre il paese e la cittadina di Riccione non ebbero a soffrire gran che dalla guerra, questa parrocchia fu invece colpita gravissimamente, tanto che un ufficiale alleato la definì una «2ª Cassino». La lotta durò 14 giorni. I tedeschi scavarono una galleria dalla cucina alla chiesa ove in una cavità scavata a poca distanza dall'altar maggiore mi fu detto che misero un cannone per opporsi all'avanzata degli alleati. [
]
Al mio ritorno da S. Marino vidi lungo la via Coriano qualche cadavere tedesco. Presso il campanile vi era sepolto un tedesco, con le scarpe visibili; presso la scuola [
] furono trovati due tedeschi morti, un altro tedesco morto fu trovato [
] nell'orto di Agostino Andreani, falegname in via Coriano [
]. I morti degli alleati erano tutti indicati da una croce bianca: quelli tedeschi senza indicazione. [
]
Durante il passaggio del fronte una cinquantina di parrocchiani civili perdettero la vita - settembre 1944 - la maggior parte caduti sotto il piombo tedesco, adoperato con grande facilità. Immagina, lettore, quale dovette essere la condizione di spirito dello scrivente, quando al ritorno da S. Marino, trovò immane disastro nella chiesa, nella canonica rovinata e spogliata, i miei poveri fratelli Luigi e Giulia Montali scomparsi e trovati in un pozzo attiguo alla canonica, e già sepolti.
Ero partito nel pomeriggio del 20 giugno in bicicletta [
] E trovare tutto rovinato, tutto asportato, e non trovare più i miei fratelli, persone innocue sotto ogni punto di vista e pensare quale orribile morte debbono aver fatto in un pozzo!
[Ridotto dal testo originale di]
don Giovanni Montali