Riministoria© Antonio Montanari
Libro delle cose
La bicicletta

In un ipotetico «Libro delle cose» (a cui affidare immagini in trasparenza, capaci di cogliere nei flash della memoria non soltanto i contorni degli oggetti in primo piano, ma anche i chiaroscuri dello sfondo in cui essi erano collocati), alcune pagine andrebbero riservate alla bicicletta.
Essa fu sempre compagna dell'uomo romagnolo. In città o in campagna. D'estate e d'inverno. Nei giorni in cui il vento era l'unico suono ascoltabile, e durante i bombardamenti in cui il fischiare delle bombe incupiva i pensieri, mentre oscuravano il cielo le nubi degli scoppi, tra le case o lungo i campi delle periferie.

Le voci delle cose


Ogni cosa parla le voci che sappiamo ascoltarvi. E le due ruote possono raccontare mille storie d'ogni giorno, lunghe come i decenni della vita nostra e di chi ci ha preceduti.
Basta risalire le campagne che portano verso l'Emilia per ritrovare sopravvissuti fantasmi di vecchie che pedalano, fazzoletto in testo e sporta di paglia al manubrio, lungo le cavedagne o a filo della statale. Oppure seguire qualche corteo funebre, dove s'appoggiano senza mestizia al loro cavallo d'acciaio, uomini e donne avanti negli anni.
Quelle biciclette hanno età venerande anch'esse. Ci rimandano ai tempi in cui nella casa colonica, erano un lusso che ingolosiva i ragazzi, e costringeva al sacrificio del risparmio.
La memoria, nel dipanare i propri pensieri e quelli altrui, incontra parole (come questa: risparmio), che risuonano stranezza e fragilità, quasi a suggerirci di prenderle con la dovuta cautela nel mostrarle a chi potrebbe ignorare non tanto il loro significato linguistico, quanto quello umano. Dove c'era tanta povertà, in quelle campagne degli avi ove il sudore della fronte che irrigava la terra non era retorica deamicisiana, risparmiare si traduceva nel rinunziare a qualche innocente godimento domenicale. La pratica della «sabatina», la paga settimanale, poteva avere strappi alla regola, nei momenti bui dei bilanci di famiglia. Per il resto, la si accantonava se c'era quel sogno, che poi era anche un bisogno, di sollevare i piedi da terra, e quasi volare ridendo di felicità, coll'aria che scherzava sui capelli, facendo attenzione ai sassi, perché una caduta avrebbe rovinato anche l'orgoglio secondario del vestito della festa, aggiunto a quello superiore delle due ruote luccicanti al sole.

Gli anni del fronte

Quei ragazzi li mandarono a chiamare per la guerra. Nati negli anni Venti, avevano avuto appena il tempo di cominciare a sorridere alla vita. La ferocia delle armi se ne portava via parecchi. Chi era rimasto a casa, i vecchi e i bambini, facevano delle biciclette un uso prezioso e cauto. Un certo giorno, i tedeschi cominciarono a requisirle. Solo quelli che avevano un permesso dell'autorità germanica potevano conservarle, e circolare «liberamente». Sì, liberamente. Tutta questione di intendersi sulle parole.
Poi la libertà venne davvero. Una bambina nata sotto le bombe nel novembre del '44 ad Argenta, il paese dove i fascisti avevano ucciso don Minzoni, venne portata nella primavera del '45, dopo la Liberazione, a trovare i nonni a Rimini. Novanta chilometri in una cassetta da frutta, lungo strade ridotte a crateri, niente ferrovia, tutto macerie intorno. Il primo viaggio.
Con la bicicletta e i tricicli, la gente era scappata da Rimini sul finire del '43. Con gli stessi mezzi si ritorna a casa, quando la vita riprende. Le strade sono polverose, di terra battuta. Lungo la via Tripoli a certe ore sembra che passi il giro d'Italia: sono gli operai delle Officine.

Tutti al mare


La domenica mattina la gente va al mare. Altri grupponi da corsa ciclistica. Il «cannone» della bicicletta carica la moglie con il figlio più piccolo in braccio, quello più grandicello siede sul seggiolino dietro la sella riservata al capofamiglia. Tra qualche anno, magari con un figlio in più, la famiglia salirà sulla «Vespa» o sulla «Lambretta». Poi, dopo, arriverà la «Cinquecento». Ma la vecchia bici, non conosce tramonto.
Sul porto canale, per buona parte degli anni '60, un enorme posteggio accoglie le bici dei bagnanti (quasi tutti cittadini), e garantisce una custodia a poco prezzo. Poi le tasse comunali resero proibitivo questo servizio, che sopravviverà un poco più a lungo in piazza Tre Martiri e in piazza Cavour.
La bici accompagnò per un certo periodo le ragazze della campagna fino al centro della città, nei giorni di mercato, ed in quelli di festa, per andare ai cinema, che allora aprivano alle due del pomeriggio. Sul viso, quelle ragazze avevano il colore naturale della pelle. Le guance arrossate dal vento, non si erano ancora omologate a quelle delle ragazze di città che la domenica avevano il permesso di usare quel «trucco» che le madri ritenevano disdicevole da esibire gli altri giorni, andando a scuola o al lavoro.
All'arco d'Augusto, la domenica pomeriggio, bici senza pretese facevano risalire verso la Flaminia, ballerini impomatati che alle feste di «Pagnoc», a due passi dalla caserma «Giulio Cesare», radunavano anche militari e servette. La radio trasmetteva «Ballate con noi», chi aveva un giradischi veniva invitato ai veglioni domestici che madri ansiose organizzavano nel timore di zitellaggi persistenti presso la propria prole femminile. Per i più giovani, nelle case borghesi, i quattro salti in famiglia erano un modo che i genitori si riservavano al fine di controllare la situazione.
C'era chi si illudeva di diventare un Coppi o un Bartali pedalando sul triciclo del fornaio, e chi di trovare un principe azzurro in quelle festicciole a base di panini e paste, con aranciate e chinotti.

Sogni per tutti


Chi sognava motociclette o auto come quelle dei film, veniva considerato una testa calda. La bicicletta era garanzia di serietà. Un tranquillante per mamme, zie e nonne.
Ma anche per una bici si poteva delirare. Appunto, in occasione delle corse come il Giro che da noi passava di frequente, facendo sosta a Rimini, e salendo a San Marino, dove si sgranava la folla urlante. Erano gli anni della ricostruzione del Paese. Poi venne il Miracolo Economico. Finivano gli anni '50. Arrivò la Congiuntura, parola nuova per dirci che le cose stavano mettendosi male. Chi aveva sognato di motorizzarsi, per mettere in soffitta o in cantina la vecchia bicicletta, dovette amaramente cancellare i suoi progetti. Si doveva continuare a pedalare. Magari su quel vecchio catenaccio, che la parlata popolare definiva «scacchero», con una parola che indicava pure certe fragili virtù private (al femminile, ovviamente).
La generazione di chi è nato negli anni '40, è stata abituata a comportarsi secondo certe regole. Per esempio, non sciupare nulla, e riutilizzare tutto. La bici doveva durare una vita. Come l'orologio regalato per la Prima Comunione. Ma non sempre le vecchie regole piacciono. Il nuovo, come eresia sociale perché introduceva nelle comuni categorie di pensiero quello che si chiamava il «superfluo», poteva essere anche una bici sportiva, una specie di compromesso tra il sogno di una da corsa ed i soldi che non c'erano per comperarla. Ed allora vedevi ragazzi sui vent'anni che, in qualsiasi ora del giorno, si buttavano nel traffico pedalando con la testa rivolta ad un traguardo che non c'era, sognando magari nel caldo dell'estate, e non per colpa di esso, di trovarsi a correre una grande competizione. Dietro a loro, nella stessa identica illusione (o speranza, chissà), ansimavano quarantenni di cui il solleone proiettava l'ombra sull'asfalto ormai liquido, nelle ore della canicola, lungo la superstrada di San Marino, appena inaugurata, che era un'oasi di pace. Mica come oggi.

Bambini a reazione


Si era cominciato con una bici da bambini, dove l'apprendistato dell'equilibrio era stato punteggiato dal solito timore di cadere, ingigantito dalle preoccupazioni di chi ti incontrava. Oggi, i bambini nascono già con il triciclo in dotazione tra i regali di Battesimo, alla Cresima gli arriva una bici con quindici rapporti oltre al motorino elettrico che li illude di aver scalato già il gradino superiore a quello della bici. Le famiglie godono nell'esibizione della loro condizione che può permettersi questo ed altro. La bici diventa sempre più sofisticata. Non è il primo veicolo della giovinezza, per carità. Ci sono il motorino truccato, moto di non so quale cilindrata, e poi la macchina, mica l'utilitaria da famiglia Brambilla in vacanza, ma una via di mezzo tra un aereo a reazione ed un salotto buono da riceverci gli amici. Poi, perché anche il corpo ha le sue esigenze, una bella «montanbaic», di quelle che ci vuole uno stipendio, perché vorrai mica andare al grande magazzino, sai è stato tanto bravo, la domenica è sempre venuto a casa alle cinque del mattino e non alle sei, come l'anno scorso.

Le auto "parlano"

La borghesia rampante odia le biciclette, perché non possono dire «urbi et orbi» la storia di chi le cavalca. Invece, le auto «parlano» da sole. E, davvero, se qualche volta potessero raccontare le loro vicende, quante storielle amene narrerebbero al pubblico. I figli di quella borghesia rampante, assieme al latte, hanno bevuto il senso d'orgoglio di una classe che si ritiene padrona di tutto. Osserviamo come certi ragazzotti cafoni posteggiano davanti ai bar o sui marciapiedi, a testimoniare che si ritengono l'ombelico del mondo.
Nonostante questo sabotaggio da automobilisti (pre)potenti, le nostre strade pullulano di biciclette. Ignorate dalle Autorità, ostacolate dall'idiozia dei Signori a cilindri, esse si fanno largo, trasportando persone umili ed uomini del Potere. Per un motivo od un altro, costoro non fanno dipendere la loro fortuna professionale o la carriera sociale dal numero di «cavalli» espressi da un motore. Testimoniano, costoro, quella tradizione di certi Paesi dell'Europa del Nord, dove si dice che anche «i re vanno in bicicletta», per esprimere l'idea che tutti siamo eguali.
Cara vecchia bici, in quell'ipotetico «Libro delle cose» che si potrebbe scrivere, il tuo capitolo potrebbe aver più spazio di quello che gli dedichiamo qui. Il tuo fascino, la tua storia, sono parte delle vicende collettive. Per cui temiamo di aver scritto poco e male. Scusaci. Sarà per la prossima pedalata.

Antonio Montanari

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