Riministoria © Antonio Montanari



Da Riminilibri, pagine d’autore scelte da Antonio Montanari



Questa pagina sarà riservata, in ogni numero, alla riproposta di uno scritto di particolare significato, già apparso in volume o in raccolte di studi, in anni recenti o lontani. Cominciamo col ritratto di «Un illuminato bibliofilo, Zeffirino Gambetti», che il noto studioso di cose riminesi Giulio Cesare Mengozzi, collaboratore sin dalla sua giovinezza dei periodici cattolici cittadini, ha pubblicato in «Studi Romagnoli» del 1986. Ne presentiamo una piccola sintesi, per motivi di spazio.

Zeffirino Gambetti

«Raccoglitore di edizioni rare, di autografi, di stampe, di iscrizioni, di autori riminesi; la città, gli studiosi e la cultura gli debbono davvero moltissimo; al contrario si è sfruttato il suo fondo, specialmente il prezioso carteggio del medico naturalista riminese -dal Gambetti acquistato, ordinato, catalogato- Giovanni Bianchi […].
Bibliofilo, storico, epigrafista, Gambetti è figura di uomo pieno di dottrina e dignità, e di prete che sente e vive la sua missione sacerdotale».
Lodovico Zefferino nacque nel 1803 a Savignano, secondo di cinque figli di Filippo e di Rosa di Virgilio dei conti Manzoni di Lugo. Ordinato sacerdote a 23 anni, a 25 ricevette «dal suo concittadino, storico e letterato insigne, Luigi Nardi, bibliotecario della Gambalunghiana,… l'incarico di redigere il catalogo dei libri del XV secolo; era il primo approccio con la Civica Biblioteca. Il 3 settembre 1827 dal Consiglio Civico gli veniva affidato il compito di trascrivere l'indice dei libri della Biblioteca in voluminosi cataloghi a libro, tuttora validi per le sale antiche. Poco più che ventenne aveva cominciato a raccogliere notizie bio-bibliografiche sugli scrittori riminesi e ad acquistare quante più opere dei medesimi potessero occorrergli. Così come non mancava di passare quotidianamente dalle quattro tipografie, allora attive a Rimini, per collezionare tutto quello che pubblicavano, dai manifesti alle carte intestate, dai volantini ai sonetti e alle epigrafi, fino alle prove di stampa. […] Raccoglieva nello steso tempo in tre volumetti manoscritti, le notizie degli scrittori riminesi. […] Nel 1831 fu testimone e protagonista dei fatti rivoluzionari lasciandoci un commeno latino di quegli avvenimenti. […] Nel 1833 aveva istituita la confranternita di Maria SS.ma Ausiliatrice… dettandone le regole. Nel 1834 fu Rettore del Seminario vescovile, lasciandoci un Registro degli allievi, dei maestri e dei convittori. […] Sempre in questi anni i contatti e i carteggi con lo storico Luigi Tonini si fanno più frequenti per notizie, informazioni, consulti, offerte di pubblicazioni rare per la biblioteca». [Nel '40, alla morte del bibliotecario della Gambalunghiana Antonio Bianchi, gli succede Luigi Tonini.]
Gambetti acquista «dagli eredi i manoscritti rimasti e l'intero carteggio di Iano Planco, e ne predisponeva un indice alfabetico dei corrispondenti». [L'epistolario è contento in 80 cartoni]. Nel 1845 «assistendo direttamente al moto del settembre, capeggiato da Pietro Renzi, lo descrisse in un commentario latino prezioso e fedele».
Nel 1850, quando avvenne «il prodigio della B. V. Madre della Misericordia in S. Chiara, in un quadro dipinto da Giuseppe Soleri», Gambetti quale «testimone nel processo istruito in Curia e bibliofilo» raccolse tutto il materiale pubblicato sull'evento miracoloso». Per la visita di Pio IX nei suoi Stati (1857), Gambetti «scrisse una serie di epigrafi latine».
«Pur malandato in salute, oberato da mille incombenze, negli anni 1857 e 1858 compì il quinto volume del catalogo a libro della Biblioteca Civica, comprendente le vite dei Santi, dei letterati, degli scienziati e degli artisti, con un catalogo repertorio dei Concilii, opera che meritò tutta l'attenzione e il rispetto per essere stata eseguita con sicura dottrina bibliografica».
«Il 20 ottobre 1870 il canonico offriva al Comune l'acquisto della sua collezione, perché sentiva che le forze lo abbandonavano […] il fondo consisteva in 2.100 volumi a stampa, 315 volumi manoscritti, 19 buste di pergamene, 106 buste di manoscritti, 35 grosse buste di fogli volanti, 170 stampe figurate e 2.726 incisioni». Il Consiglio comunale acquistò il fondo Gambetti per 5.000 lire. «Il 15 maggio 1871 a 68 anni, colpito da paralisi totale, il canonico Gambetti chiude in grande umiltà la vita esemplare, saggia e pia. […] Fu il primo a venir tumulato nell'Arca dei Canonici, sotto il porticato realizzato dall'ing. Gaetano Urbani nell'ampliamento del Civico Cimitero, allora effettuato. Il canonico appartiere a tutta la cultura riminese, perché la sua personalità, pur col suo portamento esteriore modesto e riservato, ha irradiato luce di fede e di bontà su tutta la comunità riminese». «Questo umile e grande apostolo della cultura» ha lasciato alla città 73 cartoni di manoscritti e 104 blocchi del suo schedario, ancor oggi molto prezioso.


[Ridotto dal testo originale di]
Giulio Cesare Mengozzi


Luigi Nardi

Romolo Comandini (Roncofreddo 1915 - Bologna 1971) è uno dei più importanti studiosi italiani di Storia della Chiesa e della religiosità popolare. Autore di numerosi saggi, ha rivolto l'attenzione soprattutto ad una storia della cultura del clero nelle diocesi romagnole tra fine '800 ed inizio '900, per la quale ha raccolto materiale in parte rimasto inedito. Da alcuni suoi lavori, ricaviamo questo ritratto dell'abate Luigi Nardi (1777-1837), direttore della Biblioteca Gambalunghiana dal 1818 sino alla morte.

«Nella vita, il Nardi fu sacerdote esemplare e di grande umiltà e modestia, nonostante la fama che gli avevano procurato le sue opere di archeologia e di erudizione ecclesiastica. Dedicando a Cristo, universale pastore, al papa e ai vescovi la sua opera sui parroci [Dei Parrochi, due volumi, Pesaro, 1829-30], si firmò l'ultimo dei preti e sulla sua tomba volle che fosse incisa questa semplice iscrizione, anonima: Spes † Unica / ad un povero prete / qui sepolto / requiem æternam».
Nardi fu teologo, filosofo, archeologo, illustratore di patrie antichità, ed uno dei dodici istitutori della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano. Molte sue opere, edite ed inedite, hanno attinenza con la problematica giansenistica. I volumi «Dei Parrochi», furono giudicati come un «potentissimo trattato, col quale imprese a repugnare gli sforzi di coloro che» apparivano «congiurati ad abbattere la supremità delle Sede Apostolica» (Francesco Rocchi).
«Nell'archivio della parrocchia di S. Giovanni Evangelista in Rimini esiste, manoscritta, l'opera: Opinione sul maggior numero dei cattolici salvandi che il Nardi non riuscì a condurre a termine; e ancora: Giansenismo in Italia ora mascherato sotto la forma del rigorismo».
Nardi «all'attività pastorale alterna i buoni studi, tanto che gli è stata affidata anche la direzione della civica biblioteca. […] Per il fatto d'esser vissuto in un periodo oltremodo difficile […], il Nardi aveva imparato a barcamenarsi fra i due estremi della rivoluzione e della reazione, riuscendo a tenersi au dessus de la mêlée e ad avere amici tra chierici e laici, tra conservatori e progressisti. Alieno dall'atteggiamento manicheistico di chi vede tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra, si era reso conto che il bene come il male sono, sia pure in diversa misura, compresenti negli individui e negli istituti. Aveva subito incontrato la simpatia del Rosmini […]».
E Rosmini del primo volume «Dei Parrochi» dice: «Parmi opera utile […]; né altro mi dispiace nel libro che la maniera un poco petulante».
L'abate Nardi, originario di quella «raffinata cittadina romagnola» che è Savignano, si dichiarava «probabilista» e non rigorista. Era «propenso a riconoscere in temporalibus una preponderante funzione alle autorità civili e incline ad assecondare le aspirazioni degli Stati della Chiesa a forme di più ragionevole libertà». Accanto a lui, «c'era un altro savignanese, il can. Francesco Moroni […] deciso assertore della necessità che il papa rinunciasse spontaneamente al potere temporale».
Nella «minuscola Rimini del primo trentennio del secolo» XIX, convivono «preti dalla diversa formazione mentale», che «vengono a trovarsi nella situazione di due galli nello stesso pollaio. […] Così poteva accadere che il Nardi accusasse» don Carlo Joli (1745-1826) «di simpatie per il il rigorismo giansenizzante», e che Nardi venisse considerato simpatizzante per le posizioni di chi voleva sottomettere la Chiesa allo Stato. Ma, «secondo don Joli […], il larvato liberalismo di don Nardi […] era di netta derivazione giansenistica, per la ragione che, ai tempi della grande rivoluzione, giacobini e giansenisti spesso erano andati a braccetto». Don Nardi non temette «di intrattenere relazioni di amicizia anche con chi militava nell'opposto campo».
Nardi «sostiene la tesi che la responsabilità dello scoppio della Rivoluzione Francese è da attribuire al rigorismo», scrivendo: «Donde credete voi che principalmente abbia avuto origine la Rivoluzione Francese se non da ciò? […] gli onesti divertimenti, le conversazioni tutte, tutti gli spettacoli, ancorché non indecenti, i giuochi, erano cose in fascio proclamate come assolutamente vietate». La gente «con un disperato sarà quel che sarà, cominciò ad abbandonare la pietà, a mettersi sotto la bandiera dell'irreligione, che nuda lo allettava […]. Dopo tutto ciò, vi fa specie che in un trambusto politico si trucidassero i sacerdoti, si demolissero gli altari, non si pensasse più ad una vita avvenire?».

[Ridotto dai testi originali di]
Romolo Comandini

Antonio Bianchi

Antonio Bianchi (1784-1840), bibliotecario della Gambalunghiana dal 1837 alla morte, è personaggio poco conosciuto. Non stampò nulla in vita, ma lasciò numerosi manoscritti. Mario Zuffa (1917-79, direttore della stessa Gambalunghiana dal 1954 al '70), ha pubblicato nel volume decimo (1959) della Società di Studi Romagnoli la sua «Cronaca Riminese (1830-32)», con un saggio da cui è tolto il brano che presentiamo. Lo scorso anno, Piero Meldini ha presentato la breve «Guida pe' Forastieri» di Bianchi, in «Rimini prima dei bagni» (ed. Carim).

Nato a Savignano da Tommaso e da Cecilia Beltramelli, e trasferitosi a sette anni a Rimini, Bianchi fu descritto da Luigi Tonini (1807-74), in una biografia scritta nel 1841 ed edita da Antonio Hercolani di Forlì, come uomo dotato di una rara modestia che nascose «quelle virtù, che tanto lo abbellirono». «La religione e la pietà inalterabilmente fino a morte lo accompagnarono», scrive Tonini che definisce Bianchi «nello studio, e nello operare, indefesso, fermo nelle amicizie, nemico dello adulare». La sua fama, secondo Zuffa, «è esclusivamente affidata alla biografia» di Tonini. Il quale conosceva la «Cronaca Riminese (1830-32)» di Bianchi, ma non ne fece cenno né all'epoca dello Stato pontificio, né in seguito, «probabilmente perché non ebbe particolare interesse a farlo, lui che alla realtà del suo tempo aderì molto scarsamente».
Secondo Zuffa, la «Cronaca» di Bianchi è una «originale e personalissima rielaborazione di dati raccolti via via che accadevano i fatti».
«Lo spirito che informa la narrazione è dichiarato dall'apophtegma preposto ai fatti del 1831: la licenza rivoluzionaria è cosa certamente riprovevole, ma non meno riprovevole è il malgoverno che la provoca. Infatti il Bianchi, che ha sempre parole di disprezzo per gli insorti, vivacemente qualificati per "canaglia" […] e che non risparmia neppure il generale Zucchi definito "traditore" o "imbecille" […], non ha miglior concetto dei pontificî, funzionari o militari che siano, ed esprime la convinzione che se i primi avessero agito con prudenza, le cose sarebbero andate meglio sotto il loro governo, che non quello della Santa Sede e la maggioranza della popolazione ne sarebbe stata contenta». Per cui, alla fine, «l'ordine portato dalle truppe austriache di occupazione rappresentava il male minore».
Bianchi fa un quadro «veramente desolante» della situazione nelle Legazioni, lui che «non è un partitante o un fazioso, ma un uomo d'ordine, dedito alla religione, alla famiglia e ai buoni studî; non un giacobino, né un filo-francese che abbia da rimpiangere un felice passato ricco di onori e di pubbliche cariche e nemmeno un generico laudator temporis acti».
Nella «Nota» che segue la «Cronaca», Bianchi appare «come un solitario che registra obiettivamente i fatti, li studia e li giudica con occhio sereno, disapprovando le intemperanze popolari, ma indagando anche sulle cause profonde che le hanno provocate e in parte le giustificano».
Secondo Bianchi, l'Amministrazione dello Stato doveva passare nelle mani di tecnici esperti nei singoli rami. E doveva cessare lo sfruttamento delle province da parte del governo centrale. «In breve», scrive Zuffa, la voce di Bianchi è quella di «un galantuomo che vorrebbe fosse instaurata una sana amministrazione della cosa pubblica, e pur non manifestando idee particolarmente avveniristiche, ci può illuminare assai bene su di uno stato d'animo che stava maturando nella coscienza di certa borghesia colta del territorio legatizio, aliena sì dalle intemperanze "patriottiche", ma nauseata dagli abusi e dal disordine del potere costituito e pronta, quindi, ad accogliere anche le più radicali riforme di struttura, fermo restando il principio della sovranità».
«La circostanziata e documentata denuncia» di Bianchi, «quasi un preludio agli azegliani Fatti di Romagna», è «una diagnosi precoce» che non fu esaminata da nessun altro dopo Tonini, «mentre avrebbe potuto servire, non tanto ad illustrare meglio la figura del suo autore -che pur lo meriterebbe- quanto come fonte storica per la conoscenza dell'opinione pubblica romagnola prima e dopo la rivoluzione del '31».
Sul malgoverno di quei giorni, Bianchi racconta questo episodio: quando nel luglio 1826 a Ravenna si sparò contro il Cardinal Rivarola, Legato di Romagna, con il ferimento di un Canonico, a Rimini alcune persone di pessima fama calunniarono (allettate dal premio promesso) «varj individui, che furono carcerati»: «poco mancò che» essi «non fossero giustiziati, tanto bene avevano ordite le accuse que' scellerati». Dopo nove mesi di «rigorosa prigionia», vennero liberati perché dichiarati innocenti: «ma ciò non poté ritornare in vita due di quegli infelici morti dai stenti e dalla passione». Commenta Bianchi: «Per dare una qualche soddisfazione al pubblico per tanta ingiustizia commessa fu condannato a qualche anno di detenzione il meno colpevole de' calunniatori».
Né meglio andava «la morale», essendovi un «accrescimento di dissolutezza sotto il governo ecclesiastico», tanto che i fanciulli «esposti in questo Spedale» nel 1832 furono 530, contro i 262 del 1816. «Bisognerà pregare l'infinita Misericordia Divina che non ci faccia soffrir di peggio», concludeva Bianchi.

[Ridotto dal testo originale di]
Mario Zuffa

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