Riministoria
© Antonio MontanariGian Ludovico Masetti Zannini
"Metteva cenere, o fosse polvere nelle vivande, perché riuscissero disgustose al palato". Il futuro cardinal Giuseppe Garampi cos" scriveva, nel 1755, di suor Chiara Teresa Bassetti detta Silvestri, del convento di Santa Chiara di Rimini, morta nel 1733 a 52 anni, per un'etisia (secondo Carlo Tonini), "procacciata in gran parte dai grandi patimenti sostenuti". Nel '42, suor Bassetti è gia' descritta come "serva di Dio": Garampi attesta di aver veduti nelle sue mani i segni delle sacre Stimmate.
Probabilmente quella polvere era di assenzio, una foglia dal sapore amaro che suor Chiara masticava il venerdi'", in segno della stessa penitenza che la portava anche ad umiliarsi "alla mensa davanti a chi non aveva troppo buon sangue con essa lei".
"Nel bevere era parchissima, e soferiva per" molestissima a lei la sete, non solo in tempo della più calda estate, ma nei bollori di sue febbri ardentissime, non ammettendo alcun refrigerio": Garampi scriveva queste cose trattando dei "digiuni della Beata Chiara da Rimini", fondatrice del monastero a cui appartenne pure suor Bassetti.
Che la pratica dei digiuni, nel corso del XVIII secolo, fosse giunta a punte di rigore eccessivo, vuoi per fame di santita' vuoi per mancanza di cibo, lo denuncia un medico ravennate, Rogiero Calbi, che nel 1746 "incaric con agravio di coscienza se non esseguiva il suo ordine di far mangiare carne a tutte le monacheÉ la reverendissima Madre abbadessa" del monastero di Sant'Andrea.
Nel 1771, l'abbadessa delle Cappuccine di Perugia raccomanda alle consorelle di Ravenna di moderare la severita' dei digiuni: "Proibisca le troppo spropositate penitenze alle giovani che hanno per prima tentazione di farne molte, e poi si rendono inabili alle asprezze della Religione. Prima si abilitino a queste, e poi a quelle moderatamente".
Nello stesso 1771, l'arcivescovo Antonio Maria Cantoni decreta che si moderi il digiuno delle converse, secondo il peso delle loro fatiche. Il rigore controriformistico si sta attenuando. Nei monasteri entrano, oltre ai confessori, anche i medici come il citato dottor Calbi che attribuiva le febbri delle monache non a sofferenze spirituali, ma alla "cattiva influenza dell'aiere umide".
Nel 1685, il gesuita riminese Annibale Leonardelli, nell'illustrare la figura di San Luigi Gonzaga, aveva predicato il digiuno come cibo con cui imbandire le mense: "Tre giorni la settimana per lo più di pane ed acqua". Sul finire del secolo XVIII, invece, il cappuccino Agostino da Fusignano suggerisce, nei suoi "Esercizi spirituali soliti a darsi alle monache", che ogni religiosa compia un esame di coscienza: "Vedete con che intenzione siate solite a cibarvi, se per contentare la golosita', o per soddisfare al bisogno".
Nello stesso secolo, un padre servita invita le monache di San Matteo a Rimini ad interrogarsi cos", sedendo a mensa: "Vi ricordate di tanti poveri che vivono digiuni, vi private talvolta di qualche porzione di cibo per sovvenirli?". Nei monasteri sta diffondendosi l'usanza di distribuire il "boccone del povero".
Ma talora le stesse monache sono povere e bisognose di assistenza. Benedetto XIV, provando compassione per l'estrema indigenza delle Cappuccine di Forl", aumenta "la limosina del sale dovuto al medesimo convento". (Il sale, nei secoli passati, era merce preziosa. Dai conventi romagnoli, lo si prelevava a Cervia. All'Archivio di Stato di Rimini, si conserva un lasciapassare del Tesoriere Generale di Romagna a favore delle monache di Santa Chiara di Verucchio. Nel "Libro di memorie" del monastero riminese di San Sebastiano, relativo agli anni 1786-87, si legge che "per settembre è solito che si manda a Cervia a prendere il sale" da incaricati forniti di cibo per il viaggio, e che al ritorno ricevono "un bel piatto di lasagne con due polli a stufato e il pane da cena").
"In Romagna non erano rari i casi di monasteri, specie di recente fondazione, costretti a ricorrere alla carita' di consorelle meglio provvedute o dei semplici fedeli cristiani lungo le vie, spesso anche lontane dalla loro sede": Gian Ludovico Masetti Zannini riassume questo aspetto della vita religiosa e sociale dei monasteri femminili romagnoli nei secoli XVI-XVIII, nel saggio "Quel che passava il convento" che occupa tutto il numero 32 di "romagna arte e storia", la nota rivista riminese diretta da Pier Giorgio Pasini.
Attorno a "tavola e cucina" di quei monasteri, l'autore dipana un discorso ricco di citazioni inedite, alle quali abbiamo finora attinto in questa nostra nota. Dal materiale presentato, si ricava l'immagine di una realta' composita, indagata con curiosita' e rispetto, che ci restituisce il senso di un'esperienza la quale coinvolge, oltre il monastero, anche il secolo, cioè il mondo esterno che circondava le monache.
La questua dei monasteri poveri, è un'attestazione di questo legame tra la vita entro le mura e quella che si svolge al di fuori. Nel 1636, l'abbadessa di Santa Chiara di Ravenna scrive ad un cardinale: "Non abbiamo danari per il vitto fino al raccolto prossimo a venire; ci manca il vino, assai la tiriamo alla più sottile che sij possibile", e chiede di poter accettare due zitelle che avrebbero portato in dote 500 scudi.
A passarsela male, non sono soltanto i conventi, in quegli anni. La crisi è generale, in Europa, per una recessione economica aggravata dalla guerra dei Trent'anni (1618-48), e dalla pestilenza del 1629-30 (quella narrata da Manzoni nei "Promessi sposi").
Quando una zitella professa prendeva la veste, si faceva festa. Una "Nota" del monastero dei Santi Bernardino e Chiara, a Mondaino, ci informa delle spese necessarie, tutte a carico dei parenti, per il pranzo delle monache, e per i regali "al Padre confessore, Sindici, fattore e fattora, sotto fattore con il chierico". Se le zitelle sono povere, provvedono il vescovo o la priora, come succede a Ravenna nel 1772.
Quando nei conventi è festa, si fanno dolci con cioccolatte, caffè e acqua rinfrescativa. Il vescovo di Ravenna, monsignor Ferdinando Romualdo Guiccioli, il 17 luglio 1741, viene servito a Sant'Andrea da 36 secolari. Suo fratello Alessandro, vescovo di Rimini dal 1745 al '52, nel gennaio del '48 conclude la visita alle monache di Santa Maria degli Angeli "portando seco la gloria di non aver permesso che il monastero in tale occasione somministrasse, né per sé, né per altri, né tampoco un bicchiere d'acqua". L'arcivescovo di Ravenna Antonio Maria Cantoni, nel 1762, seguira' l'esempio riminese: "Non si fece rinfresco di nessuna sorte per aver fatto il divieto monsignore".
Il citato "Libro di memorie" del monastero riminese di San Sebastiano del 1786-87, ricorda menu, usanze, doni e rinfreschi: è un testo che pu essere indagato sotto varie angolature. Quella semplicemente gastronomica, suggerisce nomi di piatti, dal "manzo alesso", al "presciutto" all'insalata, ai formaggi, ai vari tipi di minestre.
C'è poi l'aspetto sociale: per la festa di San Sebastiano, l'elenco delle persone a cui distribuire dolci, parte dalla sagrestana per arrivare, attraverso le madri abbadessa, fattora e vicaria, al vescovo ("tre bacili"), ai padri confessori, ai medici, al caffettiere, alla "famiglia di Monsignore" e "alli musici".
Infine, la struttura economica del monastero è attestata dagli elenchi dei lavoranti e dei relativi compensi. Ad esempio, si legge che "quando la sagrestanina da' il telaranio nella chiesa si da' all'uomo che polisse la chiesa mezza tiera di pane tagliato" (mezzo chilogrammo). Per le visite dei superiori, si dispensano fiori finti, come pure per l'elezione della nuova abbadessa e per la visita del nuovo vescovo. Nel gennaio del '97, si decide di "abolire affatto li dolci" e di "formare nuovi fornelli per maggior risparmio della comunita'".
Molte monache, come scrive Masetti Zannini, provengono da palazzi e ville. Nei monasteri trovano un ambiente diverso, spesso con questa poverta' a cui soccorrono sovente i parenti. Solo di tanto in tanto, dei lussi di un tempo, c'è come una malinconica rievocazione, entro le sacre mura, con quelle "cioccolatte" calde o quelle "acque gellate" che, ad esempio, furono offerte a monsignor vescovo, il 2 febbraio 1740, nel convento riminese di Santa Maria degli Angeli.
Antonio Montanari
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