Riministoria© Antonio Montanari

Corrado Ricci e il Tempio Malatestiano

Nel 1924 appariva "Il Tempio Malatestiano" di Corrado Ricci. E' un'opera ben nota, che ha un grande merito: "Al Ricci il monumento riminese e la cultura che esso rispecchia debbono il loro definitivo inserimento nella storia, dopo decenni, anzi secoli, di assurdi fraintendimenti" di chi aveva trasformato il Tempio in una serie di simboli romantici di fosche passioni amorose. Lo scrive Pier Giorgio Pasini che, nella ristampa anastatica (già apparsa nel 1974, presso l'editore concittadino Bruno Ghigi, ed ora riproposta in libreria), ha curato un'appendice di aggiornamento critico sull'illustre monumento cittadino.

Le oltre 600 pagine di Ricci sono esse stesse un monumento, per la ricchezza della documentazione e per lo scavo storico in quel mondo dell'Umanesimo italiano che si proietta nell'opera dell'Alberti.

Questo volume è anche il primo di una serie di testi che costituiscono la moderna bibliografia sul Tempio. Quindi, come ha ben posto in risalto nel 1951 il prof. A. Campana, esso appare come "una pietra miliare nel corso degli studi che si son fatti e si faranno sempre sul monumento… e sull'ambiente artistico e cortigiano che lo vide sorgere".

Pasini, con quell'acutezza di studioso serio che ben conosciamo, aggiunge un'osservazione che ci sembra interessante riportare. Secondo Pasini, dunque, esistono come due vicende parallele: quella del Tempio, e quella "dei secoli che, specchiandosi impudicamente nel Tempio, indifferenti ai suoi veri valori, raccontano e rivelano essenzialmente le loro debolezze e le loro inclinazioni".

Questo sovrapporsi ai significati dell'edificio sacro, delle ripercussioni che nascono da vicende sentimentali o violente, è forse l'inevitabile prezzo della storia culturale umana, in cui il giudizio di chi legge o guarda può far dimenticare le intenzioni degli artisti o del committente. Un'opera, ci hanno insegnato, non è soltanto il dato in sé, quello che in essa ha voluto esprimere l'autore, ma è pure ciò che le attruibuisce il fruitore. (Non per nulla, un recente libro di Ezio Raimondi, intitolato "Il volto nelle parole", inizia con una frase emblematica: "Ogni lettore, si dice, è un occhio puntato sul testo", dopo aver riportato una citazione di Italo Calvino che suona così: "Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d'esperienze, d'informazioni, di letture, d'immaginazioni?" Queste esperienze ed immaginazioni è inevitabile che poi si proiettino nel dialogo, come lo chiama Bachtin, citato poco dopo, tra il lettore ed un'opera, quel dialogo che "si insedia in ogni comunicazione verbale": ed anche un monumento è una comunicazione, in cui al posto di sillabe e parole, ci sono immagini e segni.)

Osservando il sepolcro di Isotta, ad esempio, si pone davanti alla nostra fantasia l'immagine di questa giovane che nel 1445 a dodici anni fece innamorare Sigismondo (che di anni ne aveva 28), e che a tredici gli si concesse, quando il signore di Rimini era ancora sposo di quella Polissena Sforza che muore nel 1449, "soffocata d'ordine di Sigismondo, nel monastero di Scolca", secondo Ricci, ma forse soltanto di peste, secondo altri studiosi.

Sotto la lastra di bronzo del sepolcro (che con la data 1450 reca la dedica ad Isotta definita "divina", secondo una formula rinascimentale, che però potrebbe avere la sua origine addirittura nella poesia latina), Ricci scoprì nel 1912 una prima iscrizione tombale del 1446, nella quale Isotta era esaltata "per aspetto e per valore decoro d'Italia". Il 1446 è l'anno del "raggiunto sogno d'amore" con Isotta tredicenne, è l'anno del compimento del Castello e delle vittorie di Sigismondo nella guerra italica.

Secondo Ricci, quell'eccessiva esaltazione di Isotta "fatta dentro la chiesa, quando Polissena Sforza era ancora viva, oltre che sollevare l'ira papale e avvalorare le accuse dei nemici di Sigismondo, dovett'esser capace di turbamento ai miti francescani, i quali (è grato almeno pensarlo!) dovettero intervenire perché sopra la prima iscrizione… calasse un velo di bronzo con le più modeste parole" della seconda, e con una diversa data (1450) che non solo indicava l'anno giubilare, ma pure che Polissena era già defunta.

Anche noi siamo caduti in quel peccato giornalistico che Pasini rimprovera a tanti che si sono occupati del Tempio, e che consiste nel richiamarsi alla tradizione delle "spesse concrezioni sentimentali", che neppure lo stesso Ricci ebbe la forza di negare, quando "accettò di vedere, pur dichiarandone l'ambiguità, nell'S e I intrecciate delle iniziali di Sigismondo il simbolo dell'amore di Sigismondo per Isotta". Ma quell'amore, è lo stesso che commosse Dante quando, davanti ai peccatori infernali del quinto canto, e alla storia di Paolo e Francesca, "di pietade" venne meno così come morisse. E' inevitabile, quindi, che colpisca anche tra le austere arcate del nostro Tempio.

Antonio Montanari

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