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Ermanno Silvestroni, Tradizioni e memorie di Romagna

Un tempo in Romagna i bambini nati morti venivano sepolti nel terreno sottostante la gronda. La gronda o sgronda è quella parte del tetto che sporge in fuori dal muro di un fabbricato. Una "zona liminare, di confine, sia materialmente che nell'universo simbolico della cultura popolare", come dimostra quella sepoltura per esseri "liminari, nati ma mai stati vivi".

Leggiamo questa spiegazione in "Tradizioni e memorie di Romagna", nel commento ad un proverbio che dice: "Agost ala gronda, i dè i s'armonda": cioè, d'agosto i giorni s'accorciano. Ma in questa traduzione mancano due parole, "ala gronda". Che cosa indicano? Leggiamo ancora: "L'espressione d'sgronda (ormai non più in uso, e ignorata dai vocabolari romagnoli) significa "sul margine", "al limitare" (ad esempio: d'sgronda ala val per "sulla riva della valle")". Quindi, dice il proverbio, quando agosto è alla fine, s'accorciano le giornate.

Adesso, togliamoci la curiosità su chi scrive tali preziose annotazioni. E' uno specialista, Eraldo Baldini, un ravennate che, per l'Editore Longo (suo concittadino), ha curato queste "Tradizioni e memorie di Romagna", trascrivendo un lavoro di Ermanno Silvestroni, che firma pure lui (giustamente) l'opera. Anzi, senza Silvestroni il libro non ci sarebbe. Ecco perché.

Silvestroni negli anni Venti e Trenta (è nato nel 1912 a San Pancrazio di Russi), ha un'insolita passione: "Si dedica ad un metodico ed incredibilmente attento lavoro di ricerca e raccolta 'sul campo'. Armato di lapis e quaderno, non perde occasione per registrare tutte quelle espressioni della cultura e della tradizione della sua gente che istintivamente lo interessano, lo affascinano".

Nasce così una raccolta preziosa per documentare un mondo che ormai non c'è più, ma che storicamente va conservato, studiato e capìto, perché le parole e la lingua sono un concentrato di esperienza, in cui si raccontano vicende della vita, caratteri degli uomini, sentimenti popolari, il che non significa sempre e soltanto popolani. Basterebbe ricordare come il dialetto sia stato (e sia ancora, in alcune zone) un elemento di amalgama sociale, a cui oggi si contrappone un livellamento linguistico che produce il parlare piatto che tutti conosciamo, senza invenzioni e senza invettive, secondo modelli privi di sentimento, perché imposti dalle mode televisive, le uniche che hanno fatto l'unità linguistica d'Italia, ma nello stesso tempo hanno anche distrutto l'identità lessicale delle singole popolazioni.

Silvestroni (citiamo ancora dall'introduzione di Baldini), "dai vecchi del paese si fa ripetere più volte, per non perderne neppure una parola, i canti, le filastrocche, e trascrive i proverbi, i modi di dire, gli indovinelli che sono di uso quotidiano".

Quegli antichi quaderni diventano in questo importante libro di Longo (lire 25 mila), un ritratto della società da cui essi stessi sono nati, e lo spunto per una ricerca che Baldini conduce con tutti gli strumenti dello studioso raffinato: ne deriva un discorso storico e linguistico di grande importanza, capace di farsi leggere senza mai annoiare, e senza far perdere il gusto del divertimento che il dialetto può richiamare facilmente. Il che, per le cose dotte come questa, è un gran merito.

Una delle sezioni più interessanti, a nostro parere, del volume, è quella gastronomica, perché il cibo è qui presentato con una sacralità che va al di là dell'elemento culinario e della tradizione dei mangiari. E qualcosa di più del semplice alimento, è un'immagine di civiltà che condensa da quelle espressioni un insegnamento sempre valido. In tempi come quelli odierni, da dieta mediterranea e da malattie provocate dal cibo, leggiamo con attenzione: "Mâgna par la fâm e bév per la sed, e sân t'staré", "Magnê e bé tui l'amsura, se t'vu che la salut la t'dura", "Qui ch'i mâgna piò de' bsogn, i s'mâgna la salut int e' pogn".

Un accenno meritano anche pane e piada. "Rispeta e' pân, frut de' sudor, côrp de' Signor", "E' pân no tirê vi, se t'an t'vu tirê ados la carastì": c'era, scrive Baldini, un "rispetto quasi sacro del pane… non andava "ferito" col coltello, ma spezzato con le mani": perché appunto il pane "frutto del sudore è il corpo del Signore". "Non si potevano sprecare o gettare neppure le briciole, se non si voleva poi doverle raccogliere, nell'aldilà, col beffardo supporto di un cestello privo di fondo".

La brava reggitrice a fare la piada si onora ("La breva azdora a fê la piê s'unòra"), e la buona piada "u n'la pêga quatren", non ha prezzo. Oggi, la piada va a listino, perché le donne non hanno voglia più di sporcarsi le mani con acqua e farina, ed affollano quelle botteggucce gastronomiche ove la si prepara quasi industrialmente.

L'azdora, si sa, era "colei che nella vecchia famiglia contadina romagnola presiedeva al governo della casa". (E che il marito, nei momenti di rabbia, chiamava polemicamente "la Francia". Chissà poi perché).

Presso l'editore Longo è apparso un altro interessante volume, "Cesena tra Quattrocento e Cinquecento" di Pier Giovanni Fabbri (lire 25 mila), del quale parleremo prossimamente.

Antonio Montanari

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