Riministoria
© Antonio MontanariI Malatesti
Ammettiamolo, senza timori di smentite. Per molti, troppi, quasi tutti, i Malatesti voglion dire soltanto la fosca historia di un cavalier perduto dietro ad una donna, e di un conseguente amore tragicamente finito. Paolo e Francesca. Punto e basta. Di lì si parte, lì si arriva.
Invece. Invece che cosa? Padre Dante parla ancora dei Malatesti: questo volevamo aggiungere? Ne riparleremo. Per ora, accantoniamo il discorso sulla "Divina Commedia".
Dunque: che cosa si sa dei Malatesti? Ah, sì: il Castello. Oh, perbacco, il Tempio. E poi?
Una frase del prof. Piergiorgio Pasini, è finita recentemente in una pagina speciale del "Corriere della Sera" su Rimini: se furoreggia il ferragosto al mare, "il luogo più tranquillo" resta proprio il Tempio malatestiano. La gente lo ignora. (E se il Tempio fosse in qualche altro Paese d'Europa, scuole, circoli, associazioni e tribù vacanziere, organizzerebbero gite istruttive, con colazioni al sacco).
Allora, per concludere la premessa: che cosa significano per noi i Malatesti?
Un aiuto, fresco e quindi aggiornato, per nulla polveroso, lo offre alla città (e non solo ad essa, ma anche alla cultura nazionale ed oltre), l'iniziativa del Centro Studi Malatestiani, presieduto da Bruno Ghigi che edita sotto la sua ormai nota sigla, una collana di libri.
Sono gli atti delle giornate di studio che s'intitolano alle "Signore dei Malatesti", e che unificano uno sforzo di ricerca di grande significato.
Siamo a livello colto, di specializzazione. Cose non impossibili, ma talora difficili. L'augurio (e la necessità), è che presto questa scienza si traduca in una sintesi agile per divulgare notizie e nozioni in modo facile ed organico.
Gli ultimi tre volumi, freschi di stampa, sono dedicati a Santa Maria di Scolca in Rimini, Cesena e Civitanova Marche. Dedicati, nel senso che in questi luoghi si sono svolte le giornate di studio, e che a quei luoghi sono riservati quasi tutti gli argomenti trattati.
A Cesena, ad esempio, si è anche parlato del commercio di pietre di Giorgio da Sebenico con i Malatesti, e dei rapporti tra i Malatesti e la Bosnia.
A Civitanova, si è detto di Spalato e delle sue relazioni con Romagna e Marche in epoca malatestiana; di slavi ed albanesi a Macerata nel sec. XV, di presenza slava a Loreto, di tracce slave a Recanati, e di Arbe nel Quattrocento.
Il volume su Santa Maria di Scolca in Rimini contiene anche l'albero genealogico malatestiano delle origini, che rimanda inevitabilmente a Dante.
E qui facciamo una prima divagazione. Nell'ultimo quaderno di "Studi sammarinesi" (1989), è pubblicato il discorso che Giuseppe Pochettino tenne il primo aprile 19O7 in occasione dell'insediamento dei Capitani Reggenti, su "La Repubblica di San Marino durante l'esilio dell'Alighieri": vi si ricorda che Dante non fu mai a San Marino e che mai ne parlò nella sua "Divina Commedia".
Quel discorso del 1907 ricostruisce però climi ed eventi di Romagna che ritroviamo in Dante stesso: siamo tra 1283 e 1285.
Seconda divagazione. Gianciotto Malatesta, intorno al 1275, ha sposato Francesca da Polenta, figlia del Signore di Ravenna. Nasce Concordia, la figlia che nel suo nome ripete quello della nonna, ma soprattutto rappresenta la pacificazione tra due famiglie, avvenuta col matrimonio dei suoi genitori.
Francesca muore verso il 1283/1285. Gianciotto si risposerà con la faentina Zambrasina, figlia di quel Tebaldello che Dante sprofonda all'Inferno (XXXII, 122-123), tra i traditori, per aver aperto le porte della sua città, lui ghibellino, ai guelfi bolognesi che l' assediavano, di notte, mentre "si dormìa".
Ah, questi romagnoli. Se Malaparte avesse scritto a quei tempi i suoi "Maledetti toscani", Dante avrebbe rovesciata l'"accusa" in "Maledetti romagnoli". Le prove? Sùbito, e sufficientemente note, da Inferno, XXVII: "Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni".
E poi , in questo canto, il richiamo riminese: "E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo...": sono versi che sintetizzano non solo la condizione del dominio riminese dei Malatesta, ma anche la loro crudeltà dei due tiranni, definiti appunto "mastini". I quali sono Malatesta il Vecchio e suo figlio Malatestino, che uccise Montagna de' Parcitadi, ghibellino della nostra città.
Come scrive Currado Curradi nel vol. 6 (Santa Maria di Scolca), Malatesta da Verucchio "viene giustamente considerato il principale artefice della fortuna dei Malatesti, realizzata per merito delle sue eccezionali capacità politiche e di governo, ma anche attraverso una serie molto accorta di matrimoni suoi e dei suoi figli" (pag. 77). Due o tre mogli, comunque una (Concordia) ricchissima, con denari e proprietà recati in dote. Hanno quattro figli: Ramberto si fa prete; per gli altri tre (Gianciotto, Paolo e Malatestino 'mastino'), il padre organizza ricchi matrimoni. Curradi racconta la lunga preparazione di quello tra Paolo e la contessa di Ghiaggiolo. Insomma, gente che ai soldi ci teneva, e sapeva anche come farli. Cose che Dante conosceva, lui che non sopportava il "maladetto fiorino" della "gente nova" di Firenze!
Giriamo pagina. Nello stesso volume sesto, G.F.Fiori tratta di "Carlo Malatesta e gli Olivetani" di Scolca (1421-1430), illustrando anni tormentati per la storia della Chiesa: 1406, è eletto papa Gregorio XII, è lo scontro con lo scisma avignonese (1378-1417), ma è anche agitazione interna alla Curia romana ed alla terra italiana: "Papa Gregorio XII, non potendo tornare a Roma occupata da Ladislao re i Napoli, decise di trasferirsi in Romagna, ma venne avvisato da Carlo Malatesta, signore di Rimini, che il card. Cossa tentava di impadronirsi della sua persona " (pag. 9).
Prima di venire a Rimini, nella villa-castello di Scolca, il papa a Siena nomina nove nuovi cardinali, tra cui Bandello, vescovo della nostra città.
Nel frattempo, a Pisa (1409) è eletto il terzo papa contemporaneamente: quello di Roma è Gregorio XII, quello di Avignone è Benedetto XIII, e questo nuovo è Alessandro V, che muore poco dopo.
Carlo Malatesta si adopra per far conoscere ai cardinali ribelli residenti a Bologna, le "nuove proposte di Gregorio XII per togliere lo scisma" (pag. 10), ma non viene ascoltato: anzi, i cardinali eleggono ed incoronano l'antipapa Giovanni XXIII. Poi, dal Concilio di Costanza, voluto dall'imperatore tedesco Sigismondo, esce pontefice Martino V (1417): Carlo Malatesta è presente, quale portavoce di Gregorio XII che aveva deciso di ritirarsi (1415) dalla competizione, prima di morire (1417). Benedetto XIII è deposto (26 luglio 1417). Lo scisma è finito.
Nel suo saggio, Fiori parla anche del monastero di San Lorenzo in Monte a Rimini, e dell'abbazia di San Gregorio in Conca a Morciano, legata al nome di San Pier Damiani e del riminese Bennone: quest'ultimo è un personaggio importante della nostra storia cittadina, vittima di lotte precomunali di cui parlammo sui queste colonne, ma di cui non c'è traccia né in questo né in altri volumi successivi alla nostra nota. (Nessuno ci ha letto!).
Giriamo ancora pagina. Antonio G. Luciani tratta delle "Iscrizioni greche gemelle del Tempio malatestiano", proponendo la sua versione dell'epigrafe: "A Dio immortale/ Sigismondo Pandolfo Malatesta/ di Pandolfo, scampato a moltissimi e grandissimi/ pericoli durante la guerra d'Italia,/ vincitore per le imprese da lui/ compiute con valore e con fortuna, a Dio/ immortale e alla città innalzò questo Tempio, come in/ quel frangente aveva fatto voto,/ splendidamente sostenendone le spese, e / lasciò un monumento glorioso e sacro".
Oreste Delucca offre i "primi appunti" sui "Rapporti fra Rimini e la Dalmazia in età malatestiana". Sono storie di emigrazione: "Le genti slave (ed anche albanesi) per vari secoli -e particolarmente nel XV- sono emigrate numerose sulla costa italiana, premute dall'espansionismo turco che tendeva a comprimerle verso il mare, sollecitate dalla precarietà delle loro condizioni economico-sociali su cui influiva non poco la natura sfavorevole di tanto suolo dalmata, incentivate... da alcune scelte politiche malatestiane. (...) Anche a Rimini la loro presenza era piuttosto numerosa. La comunità slava e albanese, nel XV secolo, contava qualche centinaio di persone: un numero significativo, in rapporto alla ridotta popolazione di quel tempo" (pagg. 90-91).
Ivan Pederini, nel volume ottavo su Cesena, trattando del "Commercio delle pietre di Giorgio da Sebenico con i Malatesti", racconta di questo celebre architetto che "si era obbligato a fornire pietre da costruzione per il Tempio malatestiano a Rimini, ma non mantenne la promessa fatta a Sigismondo Malatesti per cui questi se le procurò, nel 1554, a Verona" (pag. 38).
Nello stesso volume ottavo, Stefania De Biase discute dell'"Epitaffio di Galeotto Malatesti": morto a Cesena nel 1385, "il suo corpo venne trasportato con gran pompa a Rimini", per essere sepolto nella chiesa di San Francesco, che diventa così (secondo quanto scrisse nel 1951 Augusto Campana), Tempio malatestiano ancora prima dei lavori voluti (nel 1447) da Sigismondo. Corpo di Galeotto che, per quei lavori, fu forse spostato nell'arca degli antenati, anche se andò perduta l'epigrafe della vecchia sepoltura. Epigrafe che, passata tra varie carte, viene qui ricostruita e riproposta . E che celebra il personaggio, guerriero famoso, il più grande di tutti.
Perché l'epigrafe andò perduta? Non si sa. E se Sigismondo, invidioso di così alti elogi per un suo antenato, fosse stato proprio lui a farla sparire?
Antonio Montanari
SCHEDA. Centro Studi Malatestiani
Finora il Centro Studi Malatestiani ha pubblicato quattro volumi che raccolgono gli atti delle giornate di studio. Prima dei tre che citiamo nel nostro servizio, era apparso quello (n.2) su Brescia, dove è contenuto un saggio di Oreste Delucca su Antonia Da Barignano, madre di Sigismondo Pandolfo di Rimini e di Malatesta Novello di Cesena.
Altra donna ricca, questa Antonia: "...le proprietà più cospicue sono attestate sull'asse Santarcangelo, San Mauro, Giovedìa, Bellaria...". (A proposito di Giovedìa e di Sigismondo, notizie interessanti si trovano nel recente "San Mauro Giovedìa La Torre" di Susanna Calandrini, Pazzini, 1989).
Il Centro ha in programma 20 volumi di storia delle Signorie malatestiane, oltre a quelli delle giornate di studio: tre saranno dedicati a Sigismondo, due a suo padre Pandolfo III, ed uno a Carlo Malatesta. Sono ipotesi di lavoro, attorno a cui stanno adoprandosi storici di tutt'Italia.
Il Centro intende anche aprire a Rimini un archivio dei documenti che stanno venendo alla luce, con una sezione iconografica delle opere realizzate dai Malatesti. Ciò per permettere a tutti gli studiosi di avere un punto fermo nella loro attività, e per fare della nostra città un luogo d'incontro culturale.
Nel prossimo anno, un seminario di storia itinerante su tutte le Signorie malatestiane, dovrebbe accogliere anche studenti italiani e stranieri, con visita ed alloggio lungo la costa emiliano-romagnola, da Comacchio a Cattolica.
(1990)
Altri sei volumi della "Storia delle Signorie dei Malatesti" sono stati appena presentati dal Centro Studi Malatestiani, presieduto dall'editore Bruno Ghigi di Rimini: raccolgono gli atti delle Giornate di studio svoltesi, in questi ultimi anni, a Sestino, Sansepolcro, Camerino, Mantova, Montemarciano e Recanati.
Dei primi quattro volumi (Brescia, S. Maria di Scolca di Rimini, Cesena e Civitanova Marche), abbiamo dato notizia in una pagina speciale del 6 maggio 1990.
Questa volta, parliamo di un saggio contenuto nel volume n. 4 della collana (Sansepolcro), di Guido Ugolini su "Piero della Francesca alla corte di Sigismondo Malatesti". Sullo stesso pittore, il volume presenta anche un testo di P. Scapecchi, che analizza la presenza di Piero a Rimini e ad Urbino. Gli altri lavori sono di W. Tomassoli, F. Polcri ed E. Agnoletti.
***
"Il Sigismondo che costruisce il Tempio , è l'uomo ormai consapevole della propria 'rinascita', che si fa lui stesso forza trainante delle idee del suo secolo e pretende, a sua gloria futura, non una chiesa che lo consegni alla posterità uomo pio e devoto, ma un mausoleo ispirato ai parametri della grande architettura romana, quell'architettura che ha prodotto "Terme e Pantheon", un mausoleo che lo tramandi victor, imperator semper invictus. È allora all'interno di questo processo di recupero dell'antico che va collocato l'affresco di Piero, che vanno collocate le immagini di Sigismondo coronato d'alloro, e che va collocata anche l'iscrizione posta sul fronte del Tempio ". Iscrizione che Ugolini riporta e spiega così: "Sigismundus Pandulfus Malatesta Pandulfi F[ilius] V[ivus] fecit anno Gratiæ mcccL".
Quella "V" da molti viene interpretata come abbreviazione di "VOTO". Ugolini non è d'accordo, e porta a giustificazione la sigla che gli antichi nobili romani, nei loro monumenti sepolcrali e nei loro cippi, facevano incidere: "V.S.P.", cioè, "Vivus Sibi Posuit". Vivo, cioè "vincitore soprattutto sul tempo e sulla morte" si vuol presentare questo Sigismondo, aggiunge Ugolini.
Chi garantisce che la lettura della "V" come abbreviazione di "Vivus" sia più giusta che nel caso di "Voto"? Ugolini ricorda che Gino Ravaioli scoprì nella parte posteriore dell'arca degli Antenati, un ritratto di Sigismondo, definito (in latino) "vera immagine del vincitore ("victoris")".
Da ciò si comprende perché abbia tanta importanza questa piccola "V" che appare anche nelle medaglie malatestiane: Ugolini fa ruotare attorno a quella parola "vivus" tutto il significato del dipinto di Piero della Francesca, e tutta l'interpretazione della personalità di Sigismondo, che appunto si proclama umanisticamente "vincitore soprattutto sul tempo e sulla morte".
L'affresco di Piero è, scrive Ugolini, la "celebrazione di un principe", di un politico che si presenta inginocchiato davanti al giovane San Sigismondo che ha sì le fattezze del vecchio Sigismondo di Lussemburgo, imperatore romano (che nel 1433 aveva nominato cavaliere il nostro Sigismondo Pandolfo), ma che non rappresenta altro se non lo stesso signore di Rimini. Sigismondo sembrerebbe qui quasi un precursore del machiavellismo, se non fosse che il machiavellismo è una costante eterna dello spirito umano, ed è molto anteriore agli scritti del Segretario fiorentino.
Sostiene Ugolini: "Sigismondo, in ultima analisi, si inginocchia solo davanti a se stesso". E dietro ciò s'intravede come una "beffa" che Sigismondo giocò alla Chiesa romana quando nel 1452, anno della consacrazione della "capella de Sam Sismondo in Sam Francescho", ottenne da papa Nicola una particolare indulgenza da lucrarsi "la prima domenica del mese".
Ugolini arriva a questa conclusione, analizzando la scritta dell'affresco, tanto chiara ed enigmatica assieme: "Sanctus Sigismundus. Sigismundus Pandulfus Malatesta Pandulfi Filius", dove quel punto che divide i due nominativi vien interpretato come "un alias, o un aut, o un sive", ovvero un modernissimo cioè.
"Se Rimini, alla metà del Quattrocento, può vivere questa stagione di totale rinnovamento in termini di classica perfezione, di romanità riscoperta, di celebrazione eroica, cosmica e paganamente divina del suo signore, lo deve sì a Sigismondo , ma soprattutto a questa accoppiata vincente del Rinascimento, lo deve a Piero della Francesca e a Leon Battista Alberti", scrive Ugolini che si occupa (ovviamente) soltanto di Piero.
Ma quest'affermazione a proposito dell'Alberti, è un gustoso invito a ricercare, per conto nostro, qualche aggancio al discorso sul Tempio.
Osserva Ugolini, a proposito di un'altra questione pittorica, che nella concezione umanistico-rinascimentale si parla della complessa essenza dell'uomo, "quella di entità cosmica, eroica, divina (il cerchio), e quella di entità razionale, terrena, storica (il quadrato)". Quale esempio più illuminante, nel nostro Tempio, della stessa figura di Sigismondo, eroe storico, immagine che in sé unisce il cerchio ed il quadrato, come nel celebre (e posteriore) disegno di Leonardo? Un Sigismondo che sembra incarnare quella "virtù" di cui tesse l'elogio Leon Battista Alberti che fu scrittore formidabile, anche se ignorato oggi dai più: virtù che egli intende come azione costruttiva dell'uomo, "nato, certo, non per marcire giacendo, ma per stare facendo". Virtù che verrà poi elogiata dal Machiavelli che sembra avere legami nascosti (ignoti e dimenticati forse), proprio con alcuni passi dell'Alberti.
Scrive l'Alberti, a proposito dell'antitesi virtù-fortuna, che "tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette". Dirà Machiavelli che la "fortuna dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle".
E tutti e due spiegano le loro idee con l'immagine del fiume: "Mi accorsi che la sorte è dura per noi che ci siamo tuffati nel fiume perché dobbiamo superare le onde nuotando" spiega l'Alberti nel suo bel latino: "Fortunam esse duram sensi nobis qui in fluvium corruissemus quo perpetuo in nisu undas nando superare opus sit". Mentre Machiavelli paragona la fortuna ad un fiume rovinoso, i cui danni possono essere ridotti appunto dall'"ordinata virtù" ("Il Principe", cap. xxv).
Come commentò il Saitta, l'Alberti nelle sue opere letterarie "fonde e rifonde lo spirito di due civiltà, l'antica e la moderna, per affermare e sviluppare al cospetto di tutti il grande principio dell'attività creatrice dell'uomo". Bisognerebbe ricordarsene per capire sempre più attentamente il significato del nostro Tempio, come punto d'incontro di culture, civiltà e personalità che esprimono il passaggio dal Medioevo al Rinascimento.
L'Alberti riassume in sé questo passaggio, soprattutto quando considera la natura come realizzazione dell'essenza di Dio, ed inveramento di Dio stesso, e parla della religione in un senso tutto umanistico, come fede dell'uomo nella propria virtù per dominare la fortuna. Fede e sicurezza che sembra proiettarsi anche nel dipinto di Piero, dove Sigismondo Pandolfo viene raffigurato (secondo Ugolini), con "quel gesto di mani giunte in posizione forzata", per far cogliere "la dote più tipica dell'uomo politico", quella di "essere sempre unico arbitro delle proprie decisioni".
Antonio Montanari
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