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Giampaolo Dossena: Tutto il Tempio ha qualcosa di empio

Il canonico Domenico Garattoni, nel suo "Tempio Malatestiano" (Cappelli, 1951), aveva giocato con le parole, e nella Parte prima ("Tempio diffamato quanto famoso"), aveva inserito tre capitoli sul "Tempio eroico, erotico ed eretico".

Un altro gioco di parole, è quello che avviene ora per mano (anzi, per penna) di Giampaolo Dossena: "Tutto il Tempio ha qualcosa di empio".

L'empietà (presunta) del sacro edificio, come si vede, non è un'invenzione di Dossena. Non prendiamocela per questa sua definizione della celebre opera di Leon Battista Alberti.

Dossena si presenta come "esperto di giochi" con sei libri sull'argomento. Sulla faccenda del gioco, lui ci gioca, perché essa gli serve a mascherare una solida cultura che traspare dai suoi scritti, gorgogliando lentamente tra ondate di divertimenti e diversioni.

Dossena non vuole apparire professorale ed accademico. Egli si vanta d'aver creato una rubrica di giochi (prima su "Tuttolibri" della "Stampa", ora sul "Venerdì di Repubblica"). Questa specializzazione e questo snobismo di Dossena vanno ricordati per capire come mai abbia scritto, nel suo fresco terzo volume della "Storia confidenziale della letteratura italiana - Il Quattrocento", (Rizzoli, 30 mila lire), che "tutto il Tempio ha qualcosa di empio".

Come dicevamo, è soltanto un giochetto di parole. Con la caduta della lettera iniziale, il "Tempio", resta "empio"!

Ma le parole non sono soltanto segni, al loro interno contengono le trame di qualche vicenda. Ed il Tempio-empio ha la sua spiegazione (logica e storica), che si può leggere nel volume di Dossena (pag. 149): c'entrano una donna (Isotta) ed un papa (Pio II).

Un intero paragrafo di questa "Storia confidenziale della letteratura italiana - Il Quattrocento", è dedicato a Rimini. Siamo nel 1450, con Leon Battista Alberti, il Tempio e Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini.

Compaiono sulla scena anche le tombe di "alcuni letterati messi qui per bellezza, come fiori recisi o coppe sportive", tra cui quel Giusto de' Conti, poeta morto a Rimini nel 1449, autore di un canzoniere petrarchesco, "La bella mano" che ebbe "per decenni, per secoli, una fortuna strepitosa".

Giusto de' Conti lo si ritrova tuttora in qualche buon testo scolastico: "O bella e bianca mano, o man suave,/ che , armata, contra me sei volta a torto…".

"Il Tempio Malatestiano è ancora qui che parla", spiega Dossena. Ma noi riminesi sappiamo ascoltarlo?

Antonio Montanari

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