Riministoria
© Antonio Montanari / ArchivioLezioni di giornalismo
LA NOTIZIA.
Che cos'è, come nasce, come si valorizza. Le fonti dell'informazione
In principio vengono i fatti, poi seguono le notizie.
"Giornalismo è proprio questo: individuare, negli accadimenti, l'evento meritevole di diventare notizia".
La notizia non ci è data nei fatti. Non esiste in sé e per sé. Notizie e fatti sono due elementi diversi.
Solo i fatti esistono. Le notizie si creano. Anzi, si inventano, potremmo dire. Però (intendiamoci), invenzione è parola che va intesa nel suo senso più nobile e filosofico.
Nella retorica antica, l'invenzione è una delle cinque parti di questa dottrina. Con tale termine, s'indica la "ricerca degli argomenti" per un'orazione o per un'opera letteraria. Quindi, non intendiamo per invenzione il suo senso corrente odierno, che ci spiega la parole come "finzione" o "falsità", bensì questo significato antico che potremmo anche rendere con una parola più cristallina (o meno equivoca): "costruzione".
Dunque, come si costruisce una notizia?
Se le notizie nascono dopo i fatti, occorre saper decifrare questi ultimi, prima di cominciare a scrivere un resoconto.
Enzo Biagi, intervistato in occasione dei suoi 70 anni, ha detto: "Non si può fare il cronista se non si ha un punto di vista. Anche per raccontare una storia di questura ci vuole un punto di vista".
Il punto di vista citato da Biagi, è il momento intermedio del cammino che, partendo dai fatti, perviene alla notizia. Momento intermedio logico, che interviene nella valutazione del fatto e nella costruzione della notizia.
Questa citazione da Enzo Biagi, ci introduce cordialmente in uno dei passaggi più tormentati e mesti del discorso sul giornalismo: quello sulla obiettività del cronista che si vorrebbe proporre come dogma dell'infallibilità redazionale.
Si tratta di una grossissima illusione che bisogna subito definire come tale, in un orizzonte che è leggermente più ampio. Credo che possa esistere la completezza di certa informazione, nel suo assieme, non l'obiettività di una singola notizia. E questo non per colpa (volontaria o no) del cronista. Ma a causa della complessità del rapporto che collega noi con i fatti che dobbiamo valutare ed analizzare, per ricavarne poi la notizia.
Non vorrei apparire noioso o pedante. Ma, per capire la complessità (cioè, la difficoltà della valutazione dei dati reali), è necessaria una parentesi che soltanto apparentemente non ha nulla che vedere con questo discorso. Ma non è così.
Il mondo che noi abbiamo davanti agli occhi, è l'immagine che di esso si forma in noi attraverso un processo alquanto complesso. Non potremo mai dire che "questo è il mondo", ma soltanto che "questa è l'immagine che noi abbiamo del mondo".
Prima che fossero lanciati i razzi spaziali ed i satelliti artificiali, la rotondità della terra era dedotta da una serie di fatti. La "prova provata" di un'immagine ripresa dall'alto non esisteva, come invece esiste oggi. E nessuno oggi partirebbe più da quelle deduzioni, tralasciando questa immagine ripresa dal cielo.
Proiettiamo questa riflessione nel campo giornalistico. Quante sono le cose che vediamo, quante ne conosciamo? E soprattutto quali vogliamo vedere, tralasciare o piuttosto sottolineare?
Ecco dunque che il "punto di vista" diventa l'aspetto fondamentale nel processo di costruzione di una notizia.
I fatti esistono, abbiamo detto. Anzi, abbiamo precisato che "prima vengono i fatti". Ma i fatti esistono da soli, oppure esistono soltanto se ricevono il riconoscimento pubblico di una notizia? La nostra domanda non cela un paradosso.
Una notizia molto 'obiettiva' che potrebbe smentire tutto il nostro discorso, è quella della vincita miliardaria al Totocalcio o ad una lotteria.
Su un simile annuncio, a prima vista, non sembrano possibili interpretazioni soggettive. Ma riflettiamo un istante.
Il miliardario sconosciuto diventa ricercato dall'opinione pubblica, non perché (di nascosto) ha vinto, ma perché giornali, radio e televisioni pubblicamente lo indicano in questa o quella zona, ipotizzando caratteristiche del personaggio, ecc.
Ecco proprio un caso di "fatto" che di per sé non esisterebbe, se non fosse creato dalla notizia. Quindi, non tutti i fatti sono uguali tra loro.
Abbiamo così visto che:
a) esistono fatti che producono notizie (dalla crisi di governo alla guerra del Golfo, al delitto passionale); ma che
b) esistono pure eventi che, per essere pubblicamente ritenuti tali, debbono avere il riconoscimento della notizia.
Nel linguaggio comune, c'è un'espressione ricorrente: "Questo fa notizia". Ne sa qualcosa Sandra Milo. Nel mondo del rotocalco, storie inventate, cioè false, diventano fatti, e vengono spacciate come verità degne di essere credute tali.
Nella terminologia giornalistica, si parla di "bufale" per indicare notizie inventate, non nel senso positivo che abbiamo usato sopra, ma in quello negativo di notizie che non hanno riscontro nella realtà.
La manzoniana "caccia agli untori" è una mirabile cronaca giornalistica di fatti esistenti ma non veri. La gente credeva che esistessero gli untori, e pertanto a quei milanesi del 1600 la realtà appariva secondo la suggestione dell'ignoranza e del pregiudizio.
Per noi, a quattro secoli di distanza, il fatto è non negli untori, ma nell'ignoranza che portava a credere in quegli errori.
Anche quest'osservazione dovrebbe invitarci a procedere con cautela quando si parla "dei" fatti.
Ogni evento, poi, è soltanto una piccola parte che ci appare della realtà che noi chiamiamo "il fatto". Tant'è che la televisione, per controllare o contestare gli arbitri ha inventato la ben nota moviola di Carlo Sassi.
Questo preambolo culturale sulla "decifrabilità degli avvenimenti reali", accenna ad una questione metodologica che in campo giornalistico ha le seguenti implicazioni:
a) quanti più elementi si possono raccogliere attorno ad un "fatto", tanto più attenta è la nostra conoscenza relativa ad esso;
b) questi elementi debbono nascere da osservazione, analisi, studio e documentazione;
c) ciò deve garantire che la notizia nasca soltanto quando "il fatto" è messo a fuoco nella sua complessità.
Sostenere che un cronista, in fase di approccio, debba agire tenendo presenti tutti questi elementi, potrebbe apparire anche strano. Per chiarire il discorso, ricorro ad un'immagine classica: il colpo d'occhio, o l'occhio clinico che dir si voglia, oppure il cosiddetto "fiuto".
Il fatto, se non viene decifrato con esperienza e preparazione, di per sé non dice nulla. Quindi, non è importante il fatto in sé, ma il rapporto che con esso il cronista realizza, nel momento in cui cerca di trasformare il fatto in notizia.
In un discorso politico, ad esempio, il fatto può esser dato non dalle cose dette (il dato esistente), ma da quelle taciute rispetto ad un certo argomento che preme all'opinione pubblica. Il dato negativo (cioè non esistente), diventa esistente, cioè 'positivo' (in senso filosofico, non come giudizio).
Ecco che il cronista deve valutare il fatto, per classificarlo ed analizzarlo. E ciò è reso possibile soltanto da un bagaglio di preparazione tecnica e di cultura. Da quel "punto di vista", che non è l'interesse particolare del cronista, ma il suo metodo di conoscere la vita e di scrivere su di un giornale.
Dopo questa lunga premessa metodologica che è però anche un'analisi strutturale (non esauriente, ma soltanto accennata) del problema-notizia, passiamo ad un esempio pratico.
Lo ricavo da una rubrica del nostro giornale, "La Settimana", che ho tenuto a battesimo sulle colonne del "Ponte" del 15 dicembre 1985, e che ho curato sino all'estate del '90, per oltre duecento numeri. La rubrica è nata, su mia proposta, per fornire ai lettori un agile strumento informativo che allora mancava.
"La Settimana" ha avuto un enorme successo editoriale. Infatti, da semplice riquadro è diventata lentamente, in mezzo a non poche difficoltà, un blocco di due colonne prima e di tre colonne poi, fino a riempire un'intera pagina del vecchio formato. Pagina che inizialmente ho curato da solo, poi con l'aiuto di un promettente redattore del "Ponte", Marco Forcellini, a cui l'ho lasciata in eredità, con pubblico testamento; eredità accresciutasi nel nuovo formato, fino ad occupare due pagine che però non raggiungono (per esigenze grafiche), il numero di "battute" (lunghezza del testo, cioè) che caratterizzava la pagina del vecchio formato.
La mia "Settimana" era divisa sostanzialmente in tre parti. Un "Primo piano", la "Cronaca" e "Fatti & Figure", oltre ad una rubrica (saltuaria, per mancanza di spazio), molto attesa, dedicata alla rassegna stampa sulle nostre città.
"La Settimana" nel suo assieme veniva cucita con gli avanzi di quanto era utilizzato dagli altri redattori. Spesso la ricerca degli argomenti diventata alquanto difficoltosa, perché doveva rivolgersi non ai temi 'concessi' alle firme illustri da prima pagina, ma a quelle notizie che erano lasciate al fondo di magazzino, al cestino dei rifiuti, come chiamavo scherzosamente la rubrica.
All'esterno del giornale, questo non appariva. Anzi, i lettori attraverso "La Settimana" ricevevano un'immagine della vita di ogni giorno, che mi sforzavo di raccontare con semplicità ed umiltà, seguendo una regola che ha conseguito consenso e successo.
La regola è questa: "Ogni parola, un fatto". Cioè, riportare il massimo numero di informazioni con il minimo numero di parole. L'amico Manlio Masini mi disse: "Gli storici futuri di Rimini ti saranno grati per il lavoro di raccolta di notizie che tu fai sulla "Settimana"". Il prof. Pier Giorgio Grassi, dell'Università di Urbino, si è più volte complimentato per il "lavoro prezioso" della "Settimana" .
Quando la rubrica è cresciuta in spazio ed importanza, attraverso il "Primo piano" ho cercato di costruire servizi che trattassero, di volta in volta, un determinato aspetto della nostra realtà.
Dal "Ponte" del 24 gennaio 1988, riprendo l'esempio a cui accennavo, e che ha due significati, come poi aggiungerò. Si tratta di questo. In quei giorni, sul "Carlino", erano apparsi articoli a grandi titoli su due giovani che non avevano nulla in comune tra loro. Lei, Nina Soldano, riccionese, compariva in una trasmissione di Renzo Arbore. Lui, Ettore Santinello, riminese, veniva considerato da un quotidiano londinese come il fidanzato segreto della cantante Madonna Ciccone.
Il mio articoletto di "Primo piano" terminava citando un redattore del "Carlino", Silvano Cardellini che "con ironico distacco concludeva il suo pezzo, dicendo che in queste storie la provincia ci sguazza". Ma io aggiungevo una domanda all'amico Cardellini, che ho fatto debuttare alla fine degli anni '60, in un periodico locale, "Il Corso", di cui ero redattore capo, e che per quel suo 'distacco' (che non so se frutto di timidezza o di senso di superiorità per la carriera brillante che ha percorso), non mi ha mai risposto. La mia domanda era questa: "Ma, caro Silvano, chi informa questa provincia?".
Il mio servizio conteneva anche altre notizie, per cui nel suo assieme esso "costruiva" un complesso circuito di informazioni che non venivano presentate slegate tra loro, bensì collocate organicamente in un discorso sul giornalismo locale e sulla società reale che esso non rappresenta (o presenta), privilegiando aspetti più romanzeschi (le favole erotico-spettacolari, e così via).
Ma la cosa migliore della "Settimana" di quel 24.1.1988, era la vignetta dell'amico Daniele Fabbri, oggi in arte Daniele Luttazzi, personaggio ben noto, assurto ad una meritata celebrità, e citato anche in un recente volume umoristico, per ben sei volte su 540 esempi complessivi.
La vignetta aveva questo testo: "Il guaio di certi giornali: non sanno cosa scrivere, ma non vedono l'ora di scriverlo".
Alla luce della mia premessa metodologica, invito a "leggere" la battuta di Fabbri in filigrana, per scoprirvi non tanto l'effetto umoristico (che è indubbio, tutto calibrato sul pirandelliano "sentimento del contrario"), quanto per rilevarvi una molto seria lezione di giornalismo, facilmente rintracciabile con una riflessione attenta.
Ecco quindi i due significati a cui accennavo, in questo esempio tratto da "La Settimana" : il primo, sottolinea la cronaca come riflessione sui fatti. Il secondo, spazia più in là, e si offre come riflessione sul giornalismo stesso.
L'argomento che mi è stato assegnato è molto enciclopedico. Se fosse dipeso da me, lo avrei limitato ad un solo punto: "La sensibilità del cronista". Mi spiego. Non credo che esistano le cronache, ma soltanto i cronisti.
Leggevo recentemente, nel periodico dell'Ordine lombardo dei giornalisti, una severa critica rivolta ai quei giovani redattori 'sedentari' che credono di poter raccontare il mondo servendosi soltanto di un terminale d'agenzia, e che amando soltanto i servizi firmati, odiano quell'indispensabile lavoro di "cucina" che deve esser realizzato in ogni redazione.
Le "fonti" a cui accenna il titolo del mio argomento, sono due, seguendo il filo del discorso avviato, con la distinzione tra cronache e cronisti. Sono gli occhi e la testa dei cronisti stessi. E qui, ritorniamo a quel "punto di vista" a cui accenna Enzo Biagi nell'intervista citata. Gli occhi servono per vedere, per valutare, capire cose, uomini, contesti.
E' celebre la storiella americana dell'aspirante cronista che si presenta al grande giornalista del famoso quotidiano. Non fa in tempo a bussare alla porta del 'mostro sacro', che questi gli chiede di andare a comprargli un pacchetto di sigarette. Al suo ritorno, egli riceve l'ordine di scrivere un 'pezzo' che racconti tutto quello che ha visto.
Se vogliamo avere conferma di quanto siano importanti gli occhi, andiamo a sfogliare le grandi cronache del passato, dalle "Cose viste" di Ugo Ojetti, alle pagine di guerra di Indro Montanelli, Egisto Corradi, Igor Man.
Di questa mia opinione, trovo un'autorevole conferma in un articolo di Lietta Tornabuoni, da cui cito: "Vedere la guerra nelle piccole cose e direttamente controllabili pare una maniera per capire qualcosa e per non lasciarsi prendere in giro " dalla "montagna di notizie irrilevanti o sceme o folcloristiche" diffuse da certi comandi militari.
Sentiamo Igor Man: "Una volta le notizie le andavamo a cercare. Come? Rompendo le scatole a questo e a quello, scarpinando. Scarpinando notte e giorno".
E la testa? Essa non è soltanto il controllo della notizia, ma anche la valutazione critica, il giudizio morale, il freno alle idiozie.
Il "Corriere della Sera" raccontò, due anni fa, la storia di una bimba di pochi mesi "violentata dal padre" sotto gli occhi della madre. Un medico erroneamente aveva diagnosticato una violenza carnale, mentre si trattava di un tumore che avrebbe poi ucciso quella creatura. Il cronista per fare uno 'scoop', parola oscena che dovrebbe essere bandita dal vocabolario di ogni giornalista serio, riprese il "fatto" che divenne così notizia. Fatto inesistente che venne trasformato in notizia "vera", cioè esistente. Siamo così ritornati al discorso iniziale: ci sono notizie basate su fatti non veri. Questo non è giornalismo. Che nell'errore sia caduto il "Corrierone", la dice lunga sulla crisi di professionalità giornalistica contemporanea.
Non vorrei apparire pessimista. Ma consapevole dei limiti e degli errori umani, desidero concludere con l'invito a riflettere sulle responsabilità del cronista per l'effetto che una notizia non vera può provocare nella 'vittima'. Anche una riabilitazione giudiziaria non può cancellare il danno morale subìto.
Noi, qui al "Ponte", siamo in un ambito che desidera sottolineare l'aspetto morale della professione giornalistica. Quando scriverete, se scriverete un giorno qualcosa, non fatevi prendere dall'ebbrezza del comporre, ma mettetevi sempre nei panni dei "soggetti" dei vostri articoli. Non abbiate ipocrite pietà, non compassioni inutili, ma rispettate l'uomo che c'è ovunque, anche nell'essere che appare il più degradato.
E se avete del coraggio da vendere, picchiate ai fianchi dei potenti. Purtroppo, il giornalismo di provincia è spesso fatto di collusioni tra cronisti e potenti. Cito un episodio, per concludere.
L'on. Capacci, domenica 28 ottobre 1990, è intervistato in esclusiva dalla "Gazzetta di Rimini". Lui, però, per non inimicarsi le testate concorrenti, rilascia altre dichiarazioni in contemporanea anche a "Messaggero" e "Carlino". La "Gazzetta" commenta il giorno dopo: Capacci ha raccontato "tre storie differenti" a tre giornali diversi. Capacci replica: la "sostanza politica" è "identica". Ma noi sappiamo che Capacci ha dichiarato questo per non urtarsi con degli "amici" (i cronisti della seconda e terza intervista).
Il nostro Tama, sul "Ponte" (
cfr. "Il Ponte" del 18.11.1990), a commento dell'episodio, scriveva: "Sinceramente, non vediamo perché l'on. Capacci abbia sciupata tanta fatica per esprimere con parole diverse lo stesso concetto".Tama costruiva una notizia, in questo caso, ma Capacci non l'ha capito e, tutto innervosito, ha risposto chiedendo: "Se, come afferma Tama e ha sostenuto la "Gazzetta", avessi espresso opinioni diverse, come mai il "Carlino" e il "Messaggero" non mi hanno accusato di incoerenza?".
Credo che non sia andata così, soltanto per gratitudine verso l'on. Capacci. Soltanto "La Gazzetta", cioè la vittima di uno 'scippo' giornalistico, e Tama perché estraneo ai fatti, potevano "uscire" con la notizia del "dici uno, e prendi tre".
Questo Capacci, uno e trino, era una notizia, e Tama l'ha data nella finestra della satira, che è anch'essa un modo di fare giornalismo, per fortuna non compreso nel compito assegnatomi. Anche perché, spesso e volentieri, non sono d'accordo con Tama.
(1991)
***
Antonio Montanari
, anni 48, pubblicista, ha la malattia del giornalismo da più di trent'anni.E' stato corrispondente da Rimini di quotidiani nazionali, ed ha collaborato, oltre che a periodici locali, anche alla nota rivista bolognese "Il Mulino" e alla "Fiera letteraria" di Roma. Ha debuttato sul "Resto del Carlino" nel 1960.
Alla fine dei "favolosi" anni '60, è stato redattore capo di un decadale riminese, "IL CORSO", diretto da Gianni Bezzi (attualmente inviato speciale al "Corriere dello Sport" di Roma). Ne "IL CORSO" ha curato, tra le altre cose, una pagina culturale intitolata "Libri Uomini Idee".
Per il settimanale "IL PONTE", al quale collabora da nove anni, dopo una lunga gavetta ha svolto la funzione di capocronaca, ed attualmente è responsabile del settore storico-culturale.
Due anni fa, per i tipi del "PONTE", ha pubblicato il volume "Rimini ieri 1943-1946", al quale hanno fatto seguito 19 pagine speciali apparse nell'ultimo anno e mezzo sullo stesso "PONTE", dedicate ai "Giorni dell'ira", un'accurata ricostruzione storica della vita a Rimini e San Marino tra settembre 1943 e settembre 1944, con documenti inediti.
Per "IL PONTE" ha "inventato" la rubrica LA SETTIMANA, che ha curato per 200 e passa edizioni (equivalenti a cinque anni di lavoro).
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