ARUSPICE MI CHIAMANO
Aruspice mi chiamano e sono colui che decifra.
Sono per me strade le vene e il sangue è la lingua,
la materia sintassi che pulsa
e i nervi predicati oscuri che illuminano la notte.

Qui io sono cresciuto, tra le zolle del confine,
i miei giorni sono il solco dell’aratro e le mie
mani un vomere che scortica le sillabe.
Qui, dunque, ho piantato le mie radici, qui vivo.

E’ un terreno il cielo che indago su cui
la mia mente alligna in forme di fiori
stellati che sono la bocca attraverso cui
parla e ammonisce dentro la notte di fuori.

Padroni di buoi portano al macello spinti avanti
su campi bianchi, uomini che un bianco aratro
trassero e neri semi seminarono: ecco le piante divelte.

Le viscere sono parole, mutevoli calligrafie
gli uccelli, le folgori vertigini di rampicanti.
E’ dalla notte che a fiotti prorompe il giorno.

Mi chiamarono per affondare la mano perché dicessi,
ad allargare il palmo perché toccassi il mormorio
melmoso delle parole che nelle profondità si nascondono.

Ecco lo squarcio, dunque, ecco
lo straripamento del buio.

Si dia inizio alla decifrazione, allora, si proceda.
Si scenda nella notte della sintassi, dove i globuli
sono sillabe e verbo il fluire del sangue:
siano il corpo un’entrata e le viscere i gradini.