GIANNI DARCONZA
DELL’AMORE E ALTRI INCUBI

Mezzanotte passata. Non riuscivo ancora a dimenticare quei profondi occhi tristi. Sdraiato sul mio letto senza neanche disfare le lenzuola, cercavo di penetrare la fitta oscurità della mia camera per arrivare a scorgerne la fine nei contorni rassicuranti di un soffitto. Le mani dietro la nuca, il mio corpo cercava di convincere la mente a staccare temporaneamente le terminazioni nervose per concedersi un meritato riposo dopo una giornata tanto intensa.
L’avevo vista per la prima volta quello stesso pomeriggio di una fredda giornata d’inverno. Una di quelle giornate che mi convincono del fatto che anche l’essere umano dovrebbe andare in letargo fino al risveglio della natura. Non so esattamente a che cosa stavo pensando quando i miei occhi incrociarono quelli suoi. Stavamo aspettando lo stesso autobus e io, nel vento gelido di un clima siberiano, speravo che l’autobus non arrivasse.
Aveva occhi intensi e scuri che parevano guardare il mondo con l’innocenza e la curiosità di un bambino nei suoi primi anni di vita. L’elegante forma degli occhi, le lunghissime ciglia nere e le graziose e sottili sopracciglia ricurve ad arco conferivano al viso l’eleganza di una fiera gazzella. Bianco purissimo il viso, come una statua marmorea scolpita da un artista mai esistito. Rimasi ipnotizzato da tanta bellezza. Impossibile staccare il mio sguardo da lei. La sua figura sinuosa e seducente aveva occupato ormai l’intero orizzonte. Il mondo era scomparso. Il tempo solo un lontano ricordo.
Non mi accorsi neppure quando l’autobus giunse e silenziosamente si fermò davanti a noi. Tutto ciò che feci fu di seguirla quando lei salì. Il bus era affollato, come sempre nelle ore di punta. Fui sospinto da un angelo verso il suo corpo sensuale e mi riempii completamente del suo profumo. Sapeva di grazia e determinazione. La mia mano sinistra sfiorò morbidamente la pelle vellutata della sua piccola mano. Sentivo chiaramente anche in mezzo alla folla ignota il ritmico respiro che proveniva dal suo naso incantevole. Cercai di sincronizzare il mio respiro con il suo affinché si fondessero in un suono solo, una sola melodia. Impossibile. Il mio ritmo era troppo veloce. Cercai un respiro lungo. Profondo… Mi fu spezzato da uno spintone della folla che mi fece perdere per un attimo l’equilibrio. L’autobus era ripartito.
Mi chiedevo a che cosa stesse pensando. I suoi occhi meravigliosi si erano persi nel vuoto e la sua mente sondava mondi lontani anni luce dal mio. Avrei voluto conoscere anch’io quei mondi. Anche per poco. Poi, improvvisamente, come richiamata dal mio sguardo insistente, ritornò nel mio mondo. La guardai. Volse via lo sguardo. Quanto avrei voluto sapere se lei mi trovava attraente almeno la metà di quanto la trovassi io. Il mio cuore cominciò a martellare velocemente, come impazzito. La gola si gonfiava e si sgonfiava seguendo il ritmo delle pulsazioni. Il respiro si fece silenzioso. Temeva evidentemente di rivelare i miei sentimenti agli altri. Quanto più mi immergevo nei suoi letali occhi color oblio, tanto più forte era per lei la tentazione di guardare nei miei e tanto più cresceva il disagio fra noi. E quanto più i nostri occhi si incrociavano, tanto più cresceva in me il desiderio di conoscerla, parlarle, trovare un pretesto, anche banale, per iniziare una conversazione. Ma la folla mi era ostile. Se solo avessi potuto farla sparire in un istante a un mio comando…. Sentivo, attraverso quel dolce sguardo, di avere qualche possibilità su quella splendida visione. Ma non ne ero sicuro. Un rifiuto sarebbe stato più doloroso del silenzio. Perciò esitai… Quel che seguì accadde così repentinamente da non lasciarmi neppure il tempo di rendermi conto di quel che stava capitando. L’autobus si arrestò. La sua fermata. Scese lentamente e una volta toccato il marciapiede si voltò lanciando un ultimo sguardo verso di me. Ebbi l’impressione che i suoi occhi tristi mi implorassero di fermarla per prolungare quell’intenso, magico momento. Un tacito invito che mi implorava di scendere ad una fermata che non era la mia. O forse lo era e non l’avevo riconosciuta. Non so se per paura o per orgoglio la lasciai andare via. Non riuscii a chiamarla né a trattenerla. Il destino ripartì inesorabile e pagai cara la mia esitazione. Dietro i vetri appannati la sua figura stette lì, immobile, per un momento che mi parve eterno. Un dolore mi trafisse, come un taglio dentro il cuore. Come sempre succedeva nel vedere una ragazza che mi piaceva ad un’altra fermata in questo mondo troppo grande. La splendida visione si allontanò lentamente, elegantemente, senza più voltarsi. Lasciò nella mia mente la dolce fragranza di un profumo che non avrei scordato più…
Sdraiato sul mio letto, me ne stavo con le mani dietro la nuca accerchiato dal silenzio più assoluto. Sentivo la sua mancanza e, con gli occhi aperti, sognavo un passato diverso in cui le mie mani andavano leggere ad accarezzare i suoi soffici capelli neri, il mio corpo si stringeva dolcemente alle sue curve sinuose e la mia bocca baciava teneramente le sue labbra immortali. Ero convinto che non sarei riuscito ad addormentarmi quella notte. Il ricordo dolce e malinconico dei suoi occhi che mi imploravano di fermarla tornava come un’ossessione a torturarmi. Quegli occhi intensi e pieni di amarezza erano gli unici miei compagni nella mia oasi di tristezza. Ma quello era stato un giorno molto duro per me. Il mio corpo, più stanco di quanto avessi immaginato, ebbe il sopravvento sulla mente. Un sonno profondo mi colse proprio quando ormai non l’aspettavo più.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in un posto bellissimo che non avevo mai veduto prima. Ero nel centro di un piccolo parco verdeggiante in una splendida città soleggiata. La prima cosa che notai di quel luogo era che in quella strana città tutto era incredibilmente silenzioso. Non si udivano voci, eppure una marea di gente affollava i marciapiedi correndo e affrettandosi in ogni direzione come formiche impazzite. Non rumori, eppure fiumi di macchine, camion e autobus scorrevano incessantemente avanti e indietro lungo le strade. Ero diventato sordo, oppure laddove mi trovavo le orecchie avevano una funzione puramente estetica?
Non tardai molto a capire la ragione di quel silenzio. In quella città la gente non parlava attraverso le onde sonore. Al posto delle parole le loro bocche producevano fumetti tridimensionali che si fermavano a galleggiare sopra le loro teste. Mi chiesi in quale luogo fossi mai capitato e nello stesso momento in cui lo pensai una nuvoletta uscì dalla mia testa e si fermò a mezz’aria poco sopra di me. Alzai lo sguardo e vidi scritto all’interno il mio pensiero. Sorrisi divertito da quella buffa apparizione. Volli tentare di parlare per chiedere ad uno dei passanti quale città fosse mai quella. Non un filo di voce uscì dalla mia bocca. Invece produssi un altro fumetto tridimensionale che leggero andò a sostituirsi a quello precedente e nel quale ancora una volta era impresso il mio desiderio.
Vidi una marea di fumetti sovrastare le teste di tutti i passanti, fumetti che riportavano frammenti di discorso, idee, pensieri e persino immagini. Alcuni di essi apparivano per periodi brevissimi, poiché venivano cancellati o inglobati immediatamente da altri. Non riuscii a trattenermi dal ridere e simultaneamente una nuvoletta apparve sopra di me recando la scritta: “Ah! Ah! Ah”. Non avrei mai immaginato di ridere così male.
Mi ci volle un po’ di tempo per abituarmi a quella nuova forma di comunicazione. Era un’esperienza divertente quella di leggere i pensieri altrui. Tutto ciò poteva avere i suoi lati positivi. In quella città doveva ben essere difficile avere un segreto, perché ci si sarebbe traditi immediatamente. Nella consapevolezza di non riuscire a tenere un pensiero magari incriminante, la gente sarebbe stata meno propensa nel tentare atti di violenza o altri generi di crimini.
Mi misi in marcia tra la folla e mi resi conto molto presto che era troppo difficile cercare di leggere i fumetti delle persone che stavano intorno a me. La via principale era così affollata che le nuvolette si compenetravano le une nelle altre, disperdendosi e spesso confondendosi tra di loro, fino a formare talvolta un megafumetto collettivo pieno di frammenti di notizie, sogni, idee che non si sapeva più bene a chi appartenessero, se alla mente di singoli individui oppure al prodotto della commistione generata dall’intensa vita di relazione di quella moltitudine di menti in lavorio frenetico. Ben presto cominciai a sentirmi la testa pesante e sentii il bisogno di isolarmi dalla gente. Non riuscivo neanche più ad isolare i miei pensieri in mezzo a quelli degli altri.
Voltai al primo incrocio e poi ancora ad un paio di altri, incamminandomi in una serie di vie secondarie, molto meno gremite della prima. Nell’ultima via in cui entrai era molto più facile distinguere i vari fumetti dagli altri poiché si mantenevano a distanza sufficiente per non essere inglobati dalla prepotenza altrui. Guardai sopra la mia testa e, confortato, rividi i fumetti generati dalla mia mente intatti. Mi fermai un momento per riprendere fiato e decidere che cosa avrei fatto in seguito. Parlare a quel modo non era certo facile per me che non vi ero abituato. Costava una fatica enorme. O forse erano state tutte quelle nuvolette nella via principale a creare quella sensazione di nausea in me. Però a poco a poco mi stava passando.
Sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla, da dietro, che mi fece sobbalzare allarmato. Non avevo sentito nessuno avvicinarsi. Poi ci ripensai. Come potevo sentire rumori in quella città senza suoni? Mi voltai e vidi un uomo di mezz’età che muoveva la bocca senza produrre parole. Alzai lo sguardo (cominciavo ad abituarmici ormai) e lessi nel fumetto che il signore mi offriva il suo aiuto poiché aveva letto in uno degli ultimi fumetti che avevo generato che non sapevo dove andare. Approfittai della sua gentilezza spiegandogli che ero uno straniero e chiedendogli in che città fossi capitato e per quale misterioso prodigio avessero sviluppato un sistema di comunicazione simile.
L’uomo, stupito dalle mie domande, cominciò a parlarmi con il tono (che indovinai dalle scritte nei suoi fumetti) di chi sta spiegando pazientemente le cose della vita ad un bambino ingenuo. Disse che ci trovavamo a Bubbleland e che in quella regione, a sua memoria e detta di tutti i libri di storia, si era sempre comunicato a quel modo. Vi erano altri tipi di codice, certo, però quello attraverso le bubbles, come le chiamava lui, si era rivelato di gran lunga il più pratico ed efficiente. Gli dissi che era certamente un modo molto comodo per esprimere, oltre alle parole vere e proprie, anche pensieri, idee, sogni. Quanto avrebbe dato Freud per essere lì..
In quell’istante il signore cambiò improvvisamente atteggiamento. Da persona estremamente cordiale divenne burbero e scorbutico, senza un motivo apparente. Mi disse che ero maleducato, che ero peggio di un bambino e totalmente incapace di controllare i miei pensieri. Gli chiesi che cosa avevo fatto e mi disse che avrei trovato la risposta proprio sopra la mia testa. Nel fumetto che costantemente ormai aleggiava sopra di me, vi era un naso dalle dimensioni abnormi in un viso che assomigliava a quello dell’uomo che avevo di fronte. Evidentemente il mio inconscio aveva lavorato, mentre il mio interlocutore mi stava parlando, nell’ingrandire il suo naso, che non era proprio piccolo, fino ad ingigantirlo in modo spropositato. L’uomo se ne andò insultandomi mentre io rimasi a bocca aperta cercando di pensare a qualcosa d’altro per cancellare quell’ultimo pensiero. Non era certo facile controllare i pensieri come lo era con le parole.
Ripresi il mio cammino tra le vie secondarie di Bubblelend, dimenticandomi ben presto della mia piccola disavventura. Ero curioso di scoprire i segreti altrui e dunque procedevo con la testa rivolta verso l’alto nel tentativo di leggere quanto più potevo. Solo a tratti, quando mi trovavo a percorrere delle zone isolate, abbassavo la testa e cercavo di memorizzare gli edifici per tornare eventualmente indietro da dove ero venuto se mi fossi perso.
Fu in quell’istante che incrociai una donna bellissima, il cui vestito rosso attillato metteva in notevole risalto le curve perfette. La fissai per un attimo, come sempre facevo quando una bella ragazza mi passava vicino. La sua reazione fu del tutto inaspettata. Tutto ad un tratto si fece rossa in viso e si mise a chiamare immediatamente aiuto (naturalmente con un fumetto). Due poliziotti giganteschi, due autentici colossi, accorsero in un baleno verso di me e mi afferrarono per le braccia prima ancora che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo.
Che cosa avevo fatto? Perché quelle guardie ce l’avevano con me? Mi venne un sospetto. Alzai lo sguardo sopra la mia testa e vidi il fumetto che la mia mente aveva generato. In esso vi era l’esatta riproduzione della donna che avevo appena incrociato, solo che era completamente nuda. Nel mio inconscio avevo spogliato quella bellezza dei suoi abiti provocanti. Non avevo mai provato tanta vergogna in vita mia.
I poliziotti intrappolarono il fumetto in una sfera di cristallo opaco, prima che io avessi il tempo di sopprimerlo o di sostituirlo con un altro. Una nuvoletta apparve dalla bocca di uno di loro e mi intimò di seguirli, perché ero in stato di arresto per pensieri osceni in luogo pubblico.
Preso dal panico, pensai di svignarmela, ma, ahimè, i miei pensieri mi tradirono un’altra volta, rivelando alle guardie le mie intenzioni ancor prima che decidessi di attuarle. I due gorilla in uniforme si arrabbiarono della mia idea di fuggire a tal punto, che mi stesero per terra con la forza e, sotto lo sguardo atterrito della donna in rosso, presero a colpirmi a bastonate e a calci con tanta di quella violenza, che mi misi a urlare per il dolore. Chiusi gli occhi istintivamente nella speranza che con la vista scomparisse anche il dolore delle percosse. Li implorai di smettere, che non avrei opposto resistenza. Non avrei più tentato la fuga. Ma non mi ascoltavano. Tra le mie lacrime e le urla di disperazione, continuarono a bastonarmi, e pensai che mi avrebbero ucciso…
Quando riaprii gli occhi mi guardai attorno e non vidi che buio. Mossi a tentoni la mia mano che guidata dalla memoria riuscì a trovare l’interruttore della luce. L’accesi. Riconobbi le familiari pareti della mia stanza. Respiravo affannosamente ed ero madido di sudore. Mi imposi di calmarmi. Ci riuscii.. lentamente. Il respiro si fece più lungo e regolare.
Quando mi fui calmato in maniera ragionevole mi alzai dal letto e scoprii di non essermi neppure tolto i vestiti che avevo indossato per l’ufficio. Avevo sete. Andai in cucina, aprii il frigorifero e mi versai del succo d’arancia in un bicchiere. Tornai con il bicchiere nella stanza e mi sedetti sul letto.
Sorrisi mentre sorseggiavo lentamente il contenuto acre del bicchiere. Sorrisi pensando che forse in quel preciso istante la ragazza che avevo incontrato sull’autobus stava cercando di immaginare che cosa avevo pensato di lei quando l’avevo guardata negli occhi quel pomeriggio. Sorrisi perché sapevo che non lo avrebbe mai saputo con certezza.