MITO depressione

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Primo impatto

 

Il primo impatto con la malattia (diagnosi), si accompagna generalmente nel paziente uno stato di angoscia, paura, rabbia, tristezza e senso di isolamento, queste reazioni possono essere spesso differenti da una persona all’altra. Atteggiamenti di rifiuto, di incredulità o di anticipare reazioni emozionali legati ai futuri disagi della malattia.

Il modo di reagire di ogni paziente dipende molto dal suo carattere ( pessimista, realista, ottimista), ma anche dalle informazioni che ha ricevuto sulla malattia.

Spesso le persone ammalate e i familiari si fanno domande: "Perché questa malattia proprio a me?" .

"una malattia incurabile dove non si sa cosa fare, che medicine prendere". "Che cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?”  Reazioni comprensibili, ma non aiutano a stare meglio.

E' importante trasformare queste domande in altre domante più costruttive: "che cosa posso fare adesso?"

È dunque possibile, arrivare a convivere con la malattia, adattandosi ad essa e, in alcuni casi, addirittura accettandola con serenità. Serenità non significa assenza di sofferenza, di rabbia, tristezza, sconforto e paura, reazioni comunque presenti e inevitabili; significa invece conservare la propria voglia di vivere, riscoprire il proprio valore in ciò che si fa e in ciò che si è, nella propria forza affettiva, nelle proprie capacità decisionali e organizzative, nell’essere punto di riferimento per  gli altri, nella propria dolcezza e comprensione, nella propria tenacia e intraprendenza, nella propria vivacità intellettiva, nella personale creatività e nella propria spiritualità. Raggiungere una serena accettazione della malattia rappresenta una conquista molto impegnativa da parte di coloro che, superate le frasi iniziali di incredulità prima e di grande tristezza e/o rabbia dopo, iniziano un nuovo cammino, proiettati sul presente; significa vivere giorno per giorno, attimo per attimo, limitare i progetti a brevissimi periodi e affrontare di volta in volta le difficoltà insieme alle persone che si amano. Pur confrontandosi con reazioni di ansia, paura, tristezza, rabbia, è possibile comprendere il significato e l’inevitabilità delle stesse, limitarle e confinarle a momenti particolari, permettendo lo spostamento dell’attenzione su ciò che si sente e si desidera in un dato momento, rispetto alle capacità in atto.

 

Non tutte le persone vogliono conoscere l'evoluzione della propria malattia, la consapevolezza è a volte più difficile del non sapere.

Certamente una buona conoscenza della malattia da parte dei familiari che assistono il proprio caro è di molto aiuto per affrontare meglio l'evoluzione della malattia.

Sapere in anticipo, inoltre, può risultare utile per poter chiedere e ottenere tutti gli aiuti possibili, al momento opportuno, per affrontare e superare gli inevitabili problemi.

 

No esiste una regola per tutti a riguardo dell'informazione.

l'unica regola che deve valere per tutti è dire sempre la verità sulla malattia, magari ridotta e semplificata. Rispettare sempre il diritto del malato di non voler sapere.

 

Molte volte i primi ad essere informati sono i familiari, i quali devono gestire quotidianamente le richieste dell'ammalato in rapporto alle difficoltà presenti e future.

Nell’intento di “proteggerlo”, nei familiari ricorre sovente la tendenza a nascondere la verità, fornendo informazioni frammentarie o persino opposte alla realtà e illusorie. Certamente è molto difficile disilludere aspettative di guarigione, tuttavia, se inizialmente questo atteggiamento sembra far bene emotivamente al malato, di fatto gli impedisce di conoscere il problema, di affrontarlo utilizzando le personali strategie di attacco alle difficoltà, di accettare aiuti e proposte terapeutiche. Che, in assenza di un obiettivo riconoscimento del problema, corrono il rischio di essere invece rifiutati. Contrariamente a quanto si creda, inoltre, per molte persone, soprattutto quelle con uno stile rivolto al controllo, essere informati e in qualche modo poter prevedere ciò che sta accadendo riduce l’ansia di sentirsi in balia degli eventi senza poter fare nulla per dominarli o comunque senza poter provare a gestirli. Parlare della malattia dunque si può e, anzi, molto spesso si deve.

 

È inoltre importante il confronto, rispetto a ciò che ognuno vive, sente, pensa, spera e teme.

Un’altra possibile difficoltà nella comunicazione tra il malato e i familiari è, infatti, la convinzione di dovergli nascondere le proprie preoccupazioni relative alla malattia, al futuro.

Tale atteggiamento, oltre comportare un enorme sforzo emotivo da parte del familiare, può inibire il bisogno di espressione del proprio disagio anche da parte del malato che, sfogandosi, teme di sentirsi ulteriormente diverso e di peso. Il malato può allora sentirsi incompreso e isolato rispetto agli altri, che sembrano non capire ciò che gli sta accadendo. Senza arrivare a riversare sul paziente il proprio disagio, si suggerisce quindi un atteggiamento spontaneo e empatico, in modo che quando espressioni di preoccupazioni e reazioni di pianto, di tristezza o di rabbia prendono il sopravvento - come è naturale che accada- queste siano condivise da tutta la famiglia; esprimere le diverse emozioni e comprendere le reciproche reazioni favorisce infatti la coesione e la convivenza. Certamente non sempre e non in tutti i casi sono possibili una reciproca apertura e condivisione : se queste vanno senz’altro favorite all’interno di famiglie in cui una chiara e franca comunicazione ha sempre caratterizzato i rapporti, anche in situazioni meno aperte possono essere di volta in volta considerate. In questi casi, inoltre, un eventuale sfogo o la perdita di controllo non va vista come un grave errore, ma una reazione naturale in chiunque, a maggior ragione nel paziente che vive in prima persona tale disagio.

 

Capire se il paziente è pronto a sapere: chi spesso chiede informazioni, pone domande chiare, mirate e insistenti lo fa perché è pronto a sapere, ha bisogno di sapere per poter controllare, anticipare e gestire gli eventi, per quanto possibile. Coloro che hanno bisogno di sapere, di fronte a informazioni scarse e frammentarie, tendono a sviluppare reazioni di ansia, che si attenuo invece nel momento in cui vengono adeguatamente informati ottenendo precise risposte alle loro domande.

 Chi invece non è pronto ad accettare la realtà della malattia, non ricerca informazioni per lui in quel momento troppo dolorose e troppo scoraggianti. In questi casi si attivano meccanismi di difesa inconsapevoli che portano la persona (malato o familiare) a negare o ridimensionare la realtà. Tali forme di difesa non vanno mai combattute, per non ottenere l’effetto esattamente contrario, ma vanno rispettate dando modo alla persona di comprendere, rafforzarsi e adattarsi nel tempo. È comunque importante, non assecondare talune convinzioni, non dare false informazioni e non sostenere false aspettative. Bisogna cioè aiutare gradualmente la persona a riconoscere i limiti e le difficoltà presenti, spiegando correttamente che sono conseguenza della malattia.

Quindi:  1) non evitare a priori di parlare della malattia, della sua progressione alle fasi più avanzate;

2) prepararsi ad affrontare tali temi;  3) imparare a gestire il silenzio e, se necessario, a dire “non so” (non sempre possiamo avere la risposta giusta al momento giusto);  4) prendere tempo piuttosto che dare risposte false, scorrette, banalizzando o sviando l’argomento.

L’invito quindi è anche quello di rispondere alle domande senza anticipare informazioni non richieste e di ricondurre sempre la realtà della malattia alla diversità esistente tra una persona e l’altra: è fondamentale in proposito lasciare sempre aperta la porta della speranza, in particolare nella ricerca o, in fase iniziale, nell’eventualità di un errore diagnostico o nella specificità e unicità della forma in questione (“un caso speciale”). Nella speranza che qualcosa possa accadere bisogna comunque imparare a convivere con la malattia e con le limitazioni che susseguono, nella ricerca costante di un equilibrio tra ciò che “sono, sento, so” e ciò che “posso ancora fare, come lo posso fare”.

 

 

Sofferenza psicologica

Oltre ai vari dolori fisici, si accompagna una sofferenza psicologica, dovuta alla inevitabile progressione della malattia.

Le risposte emozionali e comportamenti possono passano attraverso un percorso caratterizzato di cinque stadi:

1) negazione e isolamento;

2) rabbia;

3) contrattazione;

4) depressione;

5) accettazione;

Non sempre queste fasi si manifestarsi con la stessa sequenza, dipende dalla persona.

Vi sono poi periodi in cui prevale una specifica risposta emozionale con tempi che variano da settimane e mesi. Tali reazioni, anche se in forma, intensità e durata variabili, si possono riscontrare nelle diverse fasi evolutive della malattia, in quanto normali conseguenze della perdita.

Accanto a questo generale atteggiamento reattivo alla progressione dei sintomi, quotidianamente ci si confronta con momentanee reazioni emozionali indipendenti dal vissuto di malattia. Il quotidiano conforto con limitazioni, difficoltà e quindi cambiamenti nei metodi e nei tempi, nelle aspettative e nei risultati rispetto all’abituale modo di fare, all’interazione che la persona ha con il suo ambiente (fisico e sociale) porta all’insorgere di rabbia, paura, ansia, tristezza e sconforto, reazioni inevitabili, ma spesso utili e funzionali all’adattamento(se non troppo elevate e prolungate nel tempo): per questo è bene vengano riconosciute e accettate come tali, che vengano esternate attraverso l’espressione emozionale (pianto, lamenti, parole, movimenti bruschi, espressioni del viso, momentanea chiusura comunicativa).

La forza delle emozioni (che per loro natura esistono per essere espresse, in quanto servono a mettersi in relazione con il mondo circostante), il valore comunicativo e interattivo delle stesse salgono in primo piano con questa malattia. Infatti anche volendo, risulta estremamente difficile se non impossibile, in certi casi, nasconderle e contenerle. Diversa è la condizione in cui le reazioni momentaneamente reattive a specifiche limitazioni e difficoltà sono sopraffatte da un profondo disagio emozionale caratterizzato da prolungate, intense e amplificate reazioni di rabbia, tristezza, angoscia, da chiusura su se stessi ed evitare  di tutto ciò che riguarda l’ambiente circostante. Si tratta di reazioni sostenute, per lo più, da un profondo rifiuto della malattia, da una condizione di totale arresa e di distacco dalla realtà, vissuta solo nei suoi aspetti di perdita, limitazioni e quindi inaccettabile. A volte tale profondo disagio è reattivo all’impatto con la malattia e conseguente alla caduta dei propri progetti, desideri  e delle proprie aspettative; possono poi attenuarsi nel tempo se la capacità di adattamento (spesso sorprendenti nell’essere umano) riescono ad emergere.  A volte, invece, un disagio così profondo risulta amplificato dalla malattia ma trova radici più profonde in condizioni di fragilità psichica precedente l’insorgenza della malattia stessa. Sì tratta di personalità che già in passato hanno avuto problemi di depressione o di disturbi psico-comportamentali in presenza di eventi stressanti. Rifiutare passivamente la malattia significa in ultima analisi darle più spazio, più forza e potere rispetto a quello che già possiede, significa cioè permetterle di riprendere il sopravvento anche dove sono presenti potenzialità(abilità cognitive, relazionali ed emotive) portando a una sofferenza crescente e insopportabile e influenzando negativamente l’andamento stesso della malattia.

 

Accettare la malattia

Vivere con la malattia significa adattarsi ad essa;  accettare gli ausili e le terapie per migliorare la vita di relazione. L'accettazione può essere passiva, quando cioè si è costretti ad accettare la malattia ma prende il sopravvento un atteggiamento di totale rifiuto della propria condizione.

In alcune persone può prevalere invece l’accettazione attiva di coloro che, pur riconoscendo la presenza della malattia, rifiutano di sentirsi malati e si impegnano cercando di mantenere il più possibile il proprio stile di vita(chi punta sull’attività lavorativa, chi sul coinvolgimento interpersonale, chi sulla conservazione della propria autonomia). L’accettazione attiva permette così un buon adattamento alle proposte di aiuto(terapia farmacologica, chinesiterapia, psicoterapia, ausili e strumenti specifici), volte a migliorare la qualità della vita quotidiana, e rinforza al massimo le capacità disponibili di ognuno. L’accettazione della malattia in questo contesto viene quindi intesa non come una necessità, bensì come una conquista, il primo passo per iniziare un percorso riabilitativo che aiuti a vivere con minor difficoltà, che migliori autonomia e la qualità della vita.

Accettare il mito significa anche dare spazio alla vita cognitiva, affettiva ed emotiva.

 

Rapporti sociali

Un altro punto chiave che rafforza la convivenza con la malattia e migliora la qualità della vita riguarda le relazioni sociali. Il mantenimento di rapporti sociali è legato a due aspetti fondamentali di rapporti sociali pregressi la malattia, innanzi tutto, quindi alla forza di superare il disagio e la vergogna iniziali, spesso provati nel rapportarsi con le altre persone. La malattia ,è stato ribadito, comporta enormi cambiamenti e anche una naturale selezione delle amicizie. Di solito si riducono di molto, ma non si perdono completamente; se questo avviene è per lo più dovuto a un atteggiamento di chiusura, comprensibile ma nocivo, da parte del malato e magari anche dei suoi familiari. Certamente è assai difficile presentarsi agli altri in difficoltà, limitati, cambiati nei movimenti, nel parlare e nell’agire. La situazione migliora sensibilmente se però si continua ad incontrarsi con persone amiche, che con il tempo supereranno il loro iniziale imbarazzo, spesso forte e associato ad un senso di ineguatezza(che allontana alcune persone, ma non tutti). Può sembrare strano, dunque, ma inizialmente è proprio il paziente che deve aiutare gli amici e i conoscenti a superare il disagio, le paure e il senso di inadeguatezza. Mantenere e rinforzare i contatti con amici, parenti, colleghi, conoscenti ecc. È estremamente importante perché migliora la qualità della vita. L’essere umano è per sua intrinseca natura un essere sociale e necessita quindi di stimoli e legami diversificati, non solo di quelli affettivi.

Chiaramente, se i rapporti sociali non sono stati creati e mantenuti nel tempo, già prima dell’insorgenza della malattia, allora diventa molto più difficile crearli dopo. È sorprendente comunque osservare come esistano davvero tante persone che hanno bisogno di dare e ricevere amicizia! Basta essere ben disposti per accorgersi che accanto a coloro che fuggono, non dalla persona, ma dalla malattia(per la paura del confronto con essa crea), esistono tante persone pronte a dare. Si può scoprire che, al posto di iniziali sentimenti di “pena” e disagio, tanti possono provare un sentimento speciale, la “compassione”, che nel suo significato originale significa “soffre con”, dividere la sofferenza, quindi avvicinarsi al malato e comprendere molto di più ciò che prova. La vera compassione è sicuramente per pochi, per coloro cioè, familiari e/o amici, che sono fisicamente, emotivamente e affettivamente vicini al paziente. Nella vicinanza e condivisione è possibile vivere autentiche relazioni e un maggior interesse per l’ambiente circostante. Diversi studi infatti sottolineano che le persone affette da malattia cromica che hanno una buona vita sociale sono più adatte ed evidenziano una migliore qualità di vita.

 

 Le condizioni che favoriscono una serena accettazione sono:

 

1) un’adeguata conoscenza della malattia;

2) disponibilità alla collaborazione;

3) un ruolo decisionale e organizzativo;

4) interessi diversificati (in particolare interessi intellettuali);

5) la fede religiosa;

6) la fiducia nella ricerca medica;

7) buone relazioni affettive e sociale;

8) una discreta situazione economica;

9) la speranza che qualcosa di positivo possa comunque accadere(guarire, essere curati nel rispetto     

     della propria dignità, ecc.).

 

Coloro che raggiungono una serena accettazione, o comunque vivono periodi di serenità, oltre ad esprimere un coinvolgimento emozionale positivo verso eventi quotidiani piacevoli e interessanti evidenziano un elevato coinvolgimento verso l’ambiente circostante. Si tratta di persone attive e curiose mentalmente, che amano leggere, informarsi ed hanno interessi culturali diversificati, che desiderano essere sempre aggiornati sugli eventi quotidiani di casa e sulla vita di coloro che li circondano e li seguono, per poter dare consigli e suggerimenti, esprimere il proprio punto di vista e, se necessario, ricercare soluzioni nonché prendere decisioni sia su piccole cose sia su questioni  importanti, non solo per ciò che riguarda la propria malattia, ma anche per tutto ciò che li riguarda nel contesto familiare, lavorativo e sociale. Vivere una serena accettazione significa anche dare spazio all’organizzazione delle attività quotidiane (aiutare per esempio chi è accanto a programmare la giornata, a ricordare con ordine e criterio le numerose cose da fare). Ricercare soluzioni per quotidiani problemi o difficoltà: è consigliabile non escludere il paziente dai problemi quotidiani, in modo che anch’esso si senta coinvolto e dia se possibile il proprio contributo. La persona con il  mito che accetta la propria condizione sa che può e talvolta deve supporto a coloro che lo assistono,  incoraggiarli riconoscere e apprezzare ciò che fanno, se necessario insistere perché trovino qualche piccolo spazio personale di riposo e di svago. Vivere con serenità significa infine riuscire a coinvolgere emotivamente rispetto agli eventi quotidiani, gioire, arrabbiarsi, sognare, piangere, preoccuparsi, intuire, ironizzare, temere, impegnarsi, discutere, attendere, creare, sperare: VIVERE!.

 

 

Accettare la dipendenza da un’altra persona è il passo più impegnativo e in assoluto più difficile. “Ho accettato di non poter più camminare, di non poter più correre e sciare, di non poter più lavorare, ma accettare di dipendere da un’altra persona per i bisogni più intimi e personali è ciò che più mi pesa. Mi sembra di costringere chi mi ama e mi sta accanto a seguirmi, non posso fare nulla senza la presenza e disponibilità di chi mi circonda”. Dipendenza e senso di colpa. Un paziente un giorno disse: “La dipendenza mi pesa, mi pesa molto e mi fa sentire in colpa, il fatto di avere imposto la mia malattia a mia moglie.” Risposta:” Lei non ha imposto nulla a nessuno, è la malattia che si impone tanto al malato quanto ai familiari”.

Per molte persone malate risulta dovunque difficile accettare l’aiuto degli altri nelle attività quotidiane. Molti arrivano ad accettare l’aiuto di ausili, a rinunciare a numerose attività precedentemente svolte con passione e interesse, ma non la dipendenza degli altri. In particolare, spesso risulta molto difficile per il paziente, e a volte ancora di più per il familiare, accettare l’aiuto di persone esterne all’ambito familiare. L’imbarazzo, il disagio e la vergogna possono prendere il sopravvento, ma il bisogno di aiuto con il progredire della malattia diventa inevitabile. L’accettazione di altre figure assistenziali oltre al familiare deve quindi essere vista come momento inevitabile, comunque più agevole se pianificata per tempo e con gradualità: il paziente deve avere il tempo di adattarsi, accettando cure personali da estranei, superando o comunque attenuando sentimenti di umiliazione, vergogna, inadeguatezza, fonti di reazione di rabbia, tristezza e sconforto.

 

 

Il familiare che si prende cura del malato (caregiver) potrà sentirsi totalmente impreparato dall’impatto della malattia e dal conseguente ruolo di assistenza che lo coinvolge. Si scontrerà quotidianamente con forti emozioni, drastici cambiamenti nelle sue reazioni sociali e familiari, con richieste di impegno fisico notevole. Queste richieste aumenteranno, così come il suo amore per la persona che vive con il mito. Sarà impegnato 24 ore al giorno e, se spesso sentirà di non farcela più, dovrà ricordarsi che si tratta di una sensazione assolutamente normale in queste situazioni. Ma poiché il rischio di andare incontro a disturbi psicofisici e depressione e inoltre di ridurre la qualità dell’assistenza diventa decisamente alto è indispensabile avvalersi di un supporto e di aiuti.

 

Chiedere per sapere

Per prima cosa è importante, con l’aiuto di medici e di esperti sanitari, ricercare chiare informazioni riguardanti la malattia e la sua evoluzione, i trattamenti sintomatici, gli ausili, consigli generali utili nell’approccio al malato ed in particolare all’assistenza. Esistono ausili, supporti e interventi che possono semplificare o comunque ridurre il carico fisico. Non bisogna temere di essere esigenti o lamentosi: meglio una domanda in più (anche se banale o se già formulata) che una in meno.

 

 

Per il familiare è fondamentale costringersi a rispettare la propria salute ed ad avere qualche momento per sé di distacco, per scaricarsi e distrarsi. Una persona, chiunque essa sia, che viva una condizione in cui i cambiamenti consistenti e il carico assistenziale prendono spesso il sopravvento, non può non stancarsi! È quindi necessario, anzi indispensabile, avere un minimo di cura per se stessi onde evitare il rischio di crollare fisicamente e/o psicologicamente e, di conseguenza, di non poter più assicurare al paziente quelle cure e quelle attenzioni che solo il familiare può dare. Per quanto bravo, attento e disponibile, ogni caregiver deve ricordarsi, inoltre, che esistono altre persone capaci di assistere e di svolgere alcune delle attività quotidiane necessarie; anche se non sono veloci e attenti come si vorrebbe, possono sempre imparare e migliorare l’assistenza. In effetti, raramente un assistente, per quanto bravo, esperto, attento e persino simpatico potrà raggiungere la qualità di cura carica di affetto che è proprio del familiare. Ma poiché questa speciale cura, assistenza e vicinanza propria del familiare può risultare fortemente compromessa dal tempo dalla stanchezza psicofisica sempre in agguato, da reazioni emozionali esagerate e scarsamente controllate e da possibili disturbi psicofisici legati allo stress prolungato, bisogna richiedere aiuto, al fine di mantenere nel tempo la propria energia psicofisica.

 

Chiedere aiuto

Molto presto il familiare si accorge che spesso le persone non comprendono il peso che porta; per questo non deve aspettarsi che gli altri  si propongono, ma deve saper chiedere aiuto in modo chiaro, diretto e specifico! Non chiedere aiuto significa alla fine fare del male e se stessi e a colui che si sta curando. Ricercare aiuto ed imparare a delegare non sono atteggiamenti disdicevoli, ma necessari, il cui scopo è trovare spazio e tempo, anche minimo per sé! Chiedere, inoltre non è pretendere, ma è un diritto. Quando si chiede per avere, però, bisogna anche essere pronti ad un rifiuto, più o meno elegante, sincero e chiaro(anche rispondere: ”no, non me la sento, non mi è possibile” è un diritto e non bisogna dimenticarlo”). Più le richieste sono dettagliate e specifiche, e magari valutate con chi ci sta accanto, più è facile identificare il tipo di aiuto che ognuno è in grado di dare, rendendosi comunque utile. Anche la rotazione dei familiari nel ruolo di caregiver, quando possibile, è un’importante strategia di aiuto e può evitare che le relazioni di dipendenza tra il malato e il familiare diventi simbiotica a tal punto da rendere difficile l’inserimento di un’altra persona che assiste il malato. Poiché accettare l’aiuto di altre figure risulta spesso difficile per il paziente, e talvolta anche per il familiare, e bene non attendere troppo nel ricercare una figura assistenziale adeguata. Più si aspetta e più risulterà difficile per chiunque inserirsi nella relazione simbiotica creatasi e superare i vissuti di disagio e imbarazzo relative alle cure personali necessarie. Infatti diventerà difficile accettare una persona che non sappia esattamente come muoversi e che non conosca la persona malata e le sue esigenze attuali. Se si aspetta troppo tempo a ricercare una persona adatta le esigenze saranno talmente tante e la stanchezza così pregnante che un inserimento lento e graduale, così come dovrebbe essere, diventerà estremamente difficile e le cose si complicheranno ulteriormente. Vanno poi considerate le obiettive difficoltà nel trovare persone adatte, nonché il fatto che spesso tali figure assistenziali comportano un costo economico non banale(l’assistenza domiciliare disponibile sul territorio costituisce uno dei tasti più penosi della sanità a livello nazionale, escluse poche locali eccezioni). È necessario quindi iniziare per tempo a chiedere, informarsi, considerare le possibili strade per arrivare ad avere, quando davvero necessario, un aiuto concreto e continuativo.

 

 

La giornata di lavoro di un caregives è carica di impegni e richieste, oltre che di eventuali imprevisti. Per riuscire ad avere un discreto controllo su tutto ciò è indispensabile un’attenta organizzazione e programmazione, meglio se scritta, con l’indicazione precisa di impegni e priorità, nonché delle ore in cui si sa di poter contare sulla presenza di qualcuno. Con tale persona si concorderà la sua disponibilità e il tipo di aiuto. Saranno questi i momenti che il caregives potrà dedicare a se stesso: dovrà evitare di restare in casa e di essere quindi costantemente “chiamato”, o, ancora potrà decidere di riposare e, senza alcun scrupolo, in tal caso dovrà comunicare le sue intenzioni.

 

Poiché le capacità mentali della persona con mito possono venire compromesse il caregives deve cercare il momento più adatto per discutere e ricercare soluzioni insieme a lei, trattandola con normalità.

Il paziente perde le abilità mentali e fisiche motorie, ma ciò non gli impedisce  di mantenere, un suo ruolo decisionale  in ambito familiare.  In tal modo la persona ammalata può portare il suo contributo e un supporto all’interno della famiglia riducendo il senso di “peso” che molto spesso avverte. Nelle migliori delle situazioni la persona con mito può, con gli ausili adatti, nelle diverse fasi della malattia, essere un’importante fonte di sostegno emozionale per il familiare. Non è affatto raro incontrare coppie nelle quali la forza psicologica associata alla carica di vitalità, coraggio, supera di molto quella del ceregives che lo assiste. Riassumendo, è necessario favorire e rafforzare nel paziente:

1) il suo coinvolgimento delle attività quotidiane.

2) le sue abilità residue.

3) le sue capacità decisionali.

 

 

La progressione della malattia, le difficoltà quotidiane, le reazioni emotive, l’aumento della responsabilità,  comportano prima o poi lo sviluppo di sensazioni di impotenza.

Il familiare, ha spesso difficoltà di riconoscere l’efficacia del suo intervento. Può prevalere in lui la sensazione che qualsiasi cosa venga fatta non porti ad alcun risultato. In realtà i risultati ci sono, ma non vanno ricercati nel miglioramento della malattia, ma nel miglioramento della qualità della vita, nonostante le limitazioni in atto e la loro progressione. È indispensabile entrare nell’ottica per la quale tutto ciò che viene fatto con impegno, competenza e amore da sempre frutti: l’assenza di queste cure e premure porterebbe il malato a veder peggiorare drasticamente le proprie condizioni. Prevenire, contenere, ridurre il disagio e le difficoltà vuol dire alleggerire il carico che la malattia comporta e quindi migliorare la qualità della vita. Questo è un obiettivo possibile e raggiungibile; i risultati si vedono, se solo si entra nell’ottica di curare apprezzando un miglioramento momentaneo e il contenimento delle difficoltà. L’acquisizione di maggiori responsabilità, magari associate alla tendenza ad assumerne troppe, nonché alla pretesa di dover essere sempre e comunque in grado di affrontare tale carico, anche quando non sussistono le condizioni oggettive (assumersi responsabilità non significa possedere automaticamente tutte le abilità richieste, improvvisarsi in ambiti mai praticati e di controllare la situazione), porta a confrontarsi con reazioni di rabbia, sconforto, senso di colpa e di inadeguatezza. Prendere coscienza delle reali possibilità personali e dei propri limiti, rendersi conto che “provare” non comporta necessariamente “riuscire”, può aiutare il familiare a ridurre e controllare il senso di colpa, spesso in agguato, e contenere così il proprio disagio emozionale salvaguardando, nonostante la stanchezza psicofisica, il proprio valore e la propria autostima.

 

l’impatto che il mito comporta e la sofferenza emozionale che ne deriva, evidenziano l’importanza di un approccio psicologico, di un intervento multidisciplinare mirato fondamentalmente a migliorare la qualità della vita in rapporto ai diversi stadi evolutivi della malattia. Gli obiettivi di un intervento psicologico sono in prima battuta quelli di contenere il disagio emozionale dovuto alle limitazioni comportamentali. L’intervento psicologico richiede una presa a carico globale del paziente e della sua famiglia, in quanto la malattia coinvolge e sconvolge tutti i membri del nucleo familiare. Inoltre come spesso evidenziato dalla letteratura del caso da diverse malattie croniche, l’adattamento emozionale del paziente risulta fortemente influenzato dalle risposte emozionali e comportamentali di chi si prende cura di lui. In particolari situazioni un supporto psicologico diventa indispensabile per il paziente e/o per il familiare. Si tratta di condizioni in cui sono presenti simultaneamente cambiamenti rilevanti nella vita familiare, lavorativa o affettiva. Quando sono presenti eccessive reazioni da stress e stanchezza; quando si manifestano reazioni emotive esagerate o incontrollabili o, ancora, quando devono essere proposti interventi che richiedono scelte importanti e coinvolgenti. In questi casi il supporto psicologico permette di:

 

1) Comprendere e gestire le reazioni psicologiche proprie;.

2) Il superamento del senso di impotenza, di colpa;

3) Rinforzare  le abilità residue del malato;

4) Nuove strategie per ridurre il disagio;

5) Promuovere l’accettazione della malattia e la richiesta di aiuto.

6) Evitare l’isolamento sociale.

 

Conclusioni

Il percorso sopra descritto, è un sentiero in salita e sdrucciolevole, caratterizzato da cambiamenti continui,  e necessari adattamenti, tiene conto di un’esperienza vissuta con numerosi pazienti, che nel vivere questa loro condizione insegnano ad accettare l’aiuto degli altri, a fronteggiare la sofferenza, a vivere con dignità, ad esprimere emozioni, provare coraggio  e determinazione, ad amare la vita. Tutti coloro, parenti, amici, conoscenti, vicini, assistenti, che inizialmente si avvicinano alla persona affetta da  mito a alla sua famiglia, devono farlo avendo sempre presente che non ci si avvicina alla malattia, ma ad un individuo, del tutto integro mentalmente. Confrontarsi con i disturbi dovuti alla malattia significa relazionarsi innanzitutto con una persona, i suoi interessi, le sue abilità e le sue abitudini. Iniziali sentimenti di angoscia e paura devono lasciare spazio ad atteggiamenti di comprensione e rispetto, basati innanzi tutto su un’adeguata conoscenza della malattia, su modalità comunicative chiare e rispettose; è necessario manifestare sentimenti di stima e ammirazione per la capacità di vivere con la malattia mantenendo attaccamento alla vita, pronunciare parole di incoraggiamento comprendendo e accettando (anche il silenzio può essere un’adeguata forma di rispetto e comunicazione) momenti negativi in cui rabbia e sconforto prendono il sopravvento. La condivisione di momenti di vita quotidiana porta facilmente coloro che si sono avvicinati al malato a riflettere sul senso della vita e spesso a revisioni sui valori personali. Vivendo esperienze di questo tipo ci si trova a considerare sotto una nuova luce la famiglia, gli affetti, la salute e in generale le potenzialità adattive, a volte incredibili, della persona umana. Si può entrare in una dimensione dove, accanto a dolore e sofferenza, stanchezza, sfinimento e rabbia, si può scoprire la forza della vita e degli affetti. Proprio i rapporti affettivi, infatti, giocano un ruolo essenziale nella qualità della vita di tutti i familiari. In particolare, l’esperienza clinica evidenzia che se il clima affettivo precedente l’insorgenza della malattia era forte e solido, con la malattia lo diventa ancora di più. Mai la malattia distrugge o logora saldi rapporti affettivi. Nonostante le relazioni affettive familiari vengano messe a dura prova, solo rapporti fragili, instabili o già in crisi prima della malattia rischiano fortemente di “saltare” e tendono a peggiorare col progredire della stessa. Accanto a numerosi esempi di disponibilità, vicinanza, grande affetto e coraggio in ambito familiare, a volte si incontrano tuttavia storie familiari in cui solitudine, abbandono, trascuratezza, arresa e sconfitta prevalgono e in cui sofferenza, vuoto affettivo, profonda rabbia e sconforto, lasciano disarmati e rendono assai difficile qualsiasi intervento di aiuto. Comunque possono  differenziarsi le esperienze di vita, la malattia è una condizione che porta inevitabilmente a mettere in discussione coloro che la vivono e il mondo che li circonda. In una società in cui prevalgono temi quali eterna giovinezza, bellezza, potenza ed efficacia e si tende ad allontanarsi da tutto ciò che rappresenta dolore, sofferenza, perdita e morte, le realtà della vita, e in particolare la realta-malattia, costringe a confrontarsi con questi temi e porta a riscoprire valori quali il rispetto della vita in tutte le forme, l’unione familiare, l’amicizia, la solidarietà e la spiritualità. In condizioni di difficoltà la presenza di valori saldi aiuta a vivere con pienezza; tra questi valori di riferimento riteniamo che la spiritualità costituisca un valore importante meritevole di essere riscoperto. La fede religiosa si pone infatti come punto di sostegno per le persona malate; è proprio grazie alla fede che esse trovano risposte alle loro domande dando un senso alla loro sofferenza e vivendo con serenità la condizione di perdita e di avvicinamento alla morte. Queste così delicate fasi finali dell’esistenza umana, pur se temute e sofferte, vengono tuttavia vissute, grazie appunto alla fede e alla religiosità, non come la “fine”, ma come un momento di passaggio. Vorremmo concludere questa prima parte sottolineando che, pur nella piena consapevolezza che non è possibile comprendere fino in fondo i vissuti e la sofferenza dei malati e dei loro familiari, una misurata empatia e l’esperienza professionale permettono di poter “vedere” con obiettività e lucidità, consentendo a noi operatori di fornire indicazioni, suggerimenti e percorsi interpretativi utili per fronteggiare le difficoltà imposte dalla cronicità e dalla progressione della malattia.

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 18-02-06