Giancarlo Gelsomino (Varazze '58) è un artista genovese che, per ragioni familiari, ha sovente contatti con la terra australiana dalla quale ha assorbito una visione immaginifica del mondo, concretizzata in un linguaggio evocante in alcuni aspetti  la cultura aborigena di quei luoghi.

Il lavoro dell'artista si basa sull'elemento percettivo che sa veicolare l'emozione dal piano della fisicità a quello trascendente del pensiero.

In questo senso le sue opere pitto-incise e pitto/scultoree-incise, si appercepiscono come "messaggi" necessari per la comprensione dell'universo contemporaneo, sofferente nelle crisi di trasformazioni societarie, dilaniato da conflitti etnici e carente di comunicazione umana. Messaggi in grado di sollecitare un risveglio della coscienza attraverso l'uso di "immagini-simbolo".

Nel "pozzo" del centro culturale SATURA (piazza Stella 3, fino al 31 marzo - tutti i giorni  dalle 16 alle 19 escluso sabato e festivi) Gelsomino ha installato le sue opere con una precisa interazione tra la vastità degli ambienti psico-dinamici in cui sono state concepite e le caratteristiche spazio-fisiche, anguste ed ombrose, del luogo espositivo.

Si raggiungono così i tempi di una statica sacralità in virtù di un processo mediato tra pulsioni vitali e pulsioni di morte, proprio come l'intreccio tra il vuoto e il pieno dove l'ottimismo e il pessimismo convivono nella rappresentazione dialettica della vita umana.

Il materiale che l'artista usa sovente allo stato primario è il legno.

Tronchi d' albero o frammenti lignei si offrono come mezzi evolutivi della costruzione: l'incidere la forma nella materia naturale, operando in sottrazione, rappresenta una progressiva crescita dell'immagine, paradossalmente ottenuta con l'azione opposta dello scavo attraverso il "togliere", percorrendo un progressivo passaggio dal pieno al vuoto.

Si attua un'icona "in negativo", scolpita col vuoto, annidata nella fisicità di uno spazio circostante pieno. Questo stratificarsi dell'assenza ai margini della presenza, simbolicamente sembra richiamare in vita ciò che è perduto, passato, diventato memoria, mediante un semplice atto evocativo  espresso dall'opera.

Mani aperte scavate nel legno, organizzate a cerchio, incrociate o elevate verso l'alto rappresentano l'icona-metafora onnipresente nei lavori dell'artista: se la mano "è il massimo utensile"  per Aristotele e "quasi parla", secondo Quintiliano, nel caso di Gelsomino si fa "parola".

"Uomini posano nell'universo dei numeri, qui vi trascorrono un tempo del loro percorso. Senza capire il perché, senza capire il chi è. Sospesi, cadenti, legati devoti, colpiti, impauriti, non si stringono mai la mano... le mani sono pugni di rabbia o isolate incitazioni staccate dal resto del corpo..." scrive in poesia l'autore, sottolineando l'enorme capacità espressiva di tale parte del corpo umano.

Ma le sue mani, accanto alla pittura di edulcorati paesaggi  e di scoordinati alfabeti , s' imprimono come tatuaggi di fuoco in arditi  tronchi-totem, senza mai toccarsi, quasi a sottolineare l'urgenza di una comunicazione invocata ma dolorosamente negata.