Il novecento se l'è portato via, non ce l'ha fatta a vedere l'alba del duemila:  Lorenzo Garaventa è scomparso il 3O dicembre a 86 anni,  in punta di piedi lasciandoci in trepida attesa per la seconda statua, quella del doge Giò Andrea Doria che andrà a far coppia con l'altra di Andrea Doria, appena inaugurata  in piazza S. Matteo.

Garaventa era intervenuto nella coppia di sculture con opera di completamento, mancavano le teste e frammenti di gambe e braccia, e questa risulta l'ultima fatica che ha impegnato lo scultore fino alla fine. Se n'è andato senza fare rumore, com'era il suo stile , lasciando a tutti una lezione di vita, una vita che aveva dedicato completamente all'arte.

Nato a Genova nel '13 era stato allievo del noto scultore  Eugenio Baroni, aveva frequentato l'accademia di Genova e quella di Firenze.

Persona colta e letterariamente preparata vantava amicizie di rilievo come quelle del pittore Rosai, dello scrittore Papini e di Primo Conti.

 Aveva avuto grandi riconoscimenti con gli inviti alle biennali di Venezia del '48, '50, '54 e alle quadriennali di Roma del '48 e '52.

Apprezzato come uno tra i più grandi scultori italiani di questo secolo, l'artista aveva insegnato a una marea di giovani, sia come insegnante del liceo artistico Barabino che dell'accademia Ligustica.

Il suo retroterra culturale affondava le radici soprattutto nella classicità romana (in questo senso era vicino all'amico Alfieri, anch'egli scomparso qualche anno fa) e gotica, nell'espressionismo e nel cubismo.

Tuttavia queste "scuole" si trasformavano nella sua espressività in capisaldi teorici e tecnici. Infatti egli utilizzava con estrema libertà - interiore ed esteriore -  questi presupposti per costruire un suo linguaggio che cambiava a seconda di ciò che nel momento in cui fondeva o scolpiva aveva urgenza di esprimere.

Nella spasmodica ricerca di una "realtà assoluta" l'artista si serviva di piani cubisti che nella loro forma sintetica esaltavano volumi a scapito di rese naturalistiche.

Da qui nasceva un gioco di fughe prospettiche (studiate attraverso la scultura gotica) che idealmente tracciavano un'intersezione di piani entro cui si spalancavano vuoti  alternati a pieni con evidenti in alcuni esiti i richiami a Moore.

Le forme si collegavano tra loro con molta naturalezza raggiungendo a volte risultati organici, altre più spiritualistici, in cui ogni parte risultava coerente col tutto.

Il suo linguaggio personalissimo era teso a scavare a fatica la materia informe del marmo bianco  per far emergere figure che nella loro complessità raggiungevano un equilibrio di classica perfezione.

Un'opera a cui era molto affezionato era la "Niobe" degli anni '8O resa con una particolare geometrizzazione che faceva uso della sezione aurea.

Era estremamente valido nella ritrattistica: l'ultimo suo busto scolpito è stato quello somigliantissimo e solenne del cardinale Siri, nell'atrio dell'ospedale Galliera , commissionato dall'amministrazione dell' Ente e dall'ordine dei Cavalieri del S. Sepolcro.

Oggi Genova lo rimpiange.