La Storia di Massimo: Capitoli 86 – 90

 

 

Capitolo 86 - L’altare

Massimo, la fronte appoggiata sui palmi delle mani, era seduto davanti all’altare, nella sua camera, unico punto accogliente della stanza, per il resto cupa. Una dozzina di candele gli gettava sui capelli una tremula luce gialla che non gli raggiungeva il volto, profondamente in ombra. Le sue labbra si muovevano senza emettere alcun suono, mentre pregava ogni dio, dea ed antenato di sua conoscenza affinché suo figlio fosse risparmiato.

La luce splendeva anche sulle mani leggere posate sulle sue spalle e si rifletteva nei begli occhi scuri della donna in piedi dietro di lui… unica luce in occhi altrimenti offuscati dalla stanchezza e dalla preoccupazione. Anche Olivia pregava per il figlio, ma recitava altresì silenziose preghiere per il marito, che sembrava distrutto dalla paura per il loro bambino. La stanza s’illuminò all’improvviso quando la porta s’aprì, ed Olivia baciò con dolcezza la sommità del capo del marito, quindi si spostò per salutare Quinto che si era fermato sul vano della porta riluttante a turbare la quiete di quella scena intima. Dal giorno della battaglia, l’uomo non aveva ancora avuto la possibilità d’incontrarsi con il suo generale, dal momento che Massimo restava accanto al figlio ogniqualvolta il bambino era sveglio, e pregava all’altare quando non lo era. Il generale rifiutava il cibo ed il suo stesso stato di salute rischiava di peggiorare, proprio mentre suo figlio riguadagnava lentamente le forze. Raramente lasciava la sedia, addormentandovisi persino, e veniva trasferito dall’atrio alla camera su di una piattaforma con rotelle che Giovino aveva costruito in fretta per dover spostare la sedia il meno possibile. Anche Cicero aveva l’aspetto tirato per la stanchezza, visto che si rifiutava di lasciare il fianco del suo generale, e in quel momento sedeva accanto a lui, osservando con sollecitudine ed apprensione l’uomo in preghiera. I piatti di cibo non toccato si trovavano sprecati sul tavolo dietro di lui.

- Non l’ho mai visto in questo stato, - bisbigliò Quinto ad Olivia.

- Neanch’io, - gli rispose Olivia, - e la cosa mi spaventa. L’unica persona con cui vuole comunicare è Marco. Per il resto sembra soltanto vo... vo... volersi richiudere su se stesso. Marciano pensa che sia più che altro una reazione alla droga che gli è stata somministrata. Dice che l’oppio può causare una terribile malinconia in alcuni pazienti, a posteriori. Gli effetti collaterali della droga e la malattia di Marco sembrano averlo precipitato nella disperazione. E’ così inconsueto da parte sua.

Quinto era d’accordo.
- Anche nella più brutale delle battaglie si è sempre sforzato di mantenere alto il suo spirito e di chiamare a raccolta gli uomini con la sua forza. Non l’ho mai visto così sconfitto.

- E’ sempre stato anche la mia forza. - Olivia guardò la testa china del marito e le sue spalle ingobbite. - Forse noi tutti facciamo troppo affidamento su di lui. Forse… la perdita di molti soldati, la sua stessa ferita e la malattia del figlio… è dover sopportare troppo, per lui, in questo momento. Probabilmente ha solo bisogno di un po’ di tempo.

- E’ facile dimenticare a volte che è solo un uomo. - Olivia e Quinto si girarono verso Giovino, che in silenzio si era unito a loro. - Scusami, mia signora, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare. - Ti dispiacerebbe se cercassi di parlargli?

- Prova pure, Giovino, - rispose Olivia, - ma dubito che avrai maggior successo del resto di noi. Abbiamo tutti tentato di parlare con lui e lui semplicemente non ha voluto rispondere.

Invece di entrare nella stanza da letto, tuttavia, Giovino si voltò e lasciò la casa, ritornando poco dopo con un piatto colmo di fragrante pane fresco, formaggio e frutta d’inizio estate. Andò difilato da Massimo, che nel frattempo non si era spostato di un dito. Con un’occhiata a Cicero, Giovino avvicinò una sedia a pochi centimetri dal suo generale. Le labbra di Massimo per un momento cessarono di muoversi, ma egli tornò alle sue preghiere non appena Giovino si fu seduto. Se avesse sentito l’odore del pane, non ne diede segno.

Giovino pose con leggerezza la mano sulla spalla dell’uomo in preghiera.
- Massimo. Massimo. Gli dei ti hanno udito, amico mio. E’ tempo di occuparsi delle cose terrene. Ecco... Ho qui del cibo per te. Non mangi da molte, troppe ore. Tutti sono preoccupati per te.

Massimo lo ignorò.

Giovino provò ancora.
- Massimo, tu sai che io capisco come ti senti. Eppure, non farai alcun bene a tuo figlio se fai del male a te stesso. Devi essere forte per lui. Il tuo corpo ha bisogno di cibo. - Giovino gli porse un pezzo di formaggio. - Ecco, per favore, prendi questo e mangialo.

Massimo continuò le sue preghiere come se fosse solo con i suoi dei.

La mano di Giovino ricadde in grembo, stringendo ancora il formaggio, e l’uomo sospirò gravemente.
- Massimo, - provò ancora una volta, - non c’è nient’altro che tu possa fare. Gli dei ti hanno udito. Che cos’altro puoi chiedere loro che già non hai chiesto?

Le rauche parole di Massimo furono così inattese che tutti nella stanza sobbalzarono per la sorpresa.
- Chiedo loro di prendere me anziché lui.

- Che cosa? - chiese Giovino sbalordito.

Il rantolo d’Olivia fu quasi un grido. Cicero vacillò e tese una mano verso Massimo, prima di lasciarla ricadere inutile lungo il fianco. La sua bocca si aprì e richiuse come quella di un pesce appena catturato, l’angoscia evidente nell’espressione e nell’atteggiamento.

Massimo si leccò le labbra e parlò di nuovo, il capo ancora chino.
- Non potrei sopportare di perdere un altro figlio. Preferirei morire piuttosto che perdere un altro figlio. Prego gli dei di prendere me, invece.

Giovino osservò Massimo in silenzio, la bocca che gradualmente andava formando una linea dura e sottile e gli occhi che si restringevano. All’improvviso si levò in piedi e con tutta la sua considerevole forza scagliò contro il muro il piatto di metallo col cibo. Esso cadde fragorosamente sul pavimento ruotando furiosamente sul bordo, spargendo cibo in tutte le direzioni. Massimo trasalì e istintivamente sollevò il braccio sopra la testa all’inatteso clamore. Ondeggiò lateralmente fuori della sedia e si ritrovò sui piedi, accovacciandosi come per balzare su qualche sconosciuto avversario. Giovino afferrò la parte posteriore della sedia appena abbandonata da Massimo e la lanciò attraverso la stanza, dove scivolò contro il letto, poi tirò un calcio selvaggio alla piattaforma su rotelle e la mandò a girare a vuoto nella stessa direzione. Mentre Massimo dolorosamente si srotolava, Giovino si avvicinò, obbligando i loro corpi quasi a toccarsi. Cicero si spostò accanto al suo generale e restò in piedi, teso, incerto su che cosa stesse per succedere.

Olivia si mosse in avanti come per proteggere il marito ferito, ma Quinto la tirò indietro.
- Giovino non gli farà del male, mia signora. Aspetta e guarda cosa accade.

Giovino e Massimo si tennero testa naso contro naso, l’uomo più alto leggermente piegato per proteggere la gamba pulsante. Il suo respiro era affaticato, ma la sua mascella aveva una linea risoluta.
- Che cosa significa questo? - Massimo ringhiò al suo ingegnere.

- Come osi augurarti di morire! - eruppe Giovino.

- Non interferire nella mia vita, - fu la micidiale risposta.

 - La tua vita! La tua vita? Vuoi dire la vita per salvare la quale il mio unico figlio è morto? E’ quella la vita alla quale ti riferisci?

Massimo sbatté più volte le palpebre, allentando la mascella.

- Tieni in così poco conto il mio ragazzo da distruggere la tua vita dopo che lui ha dato la sua per salvarla? - Lacrime di dolore e rabbia luccicarono negli occhi di Giovino.

Massimo scosse la testa.
- No… no, Giovino, naturalmente non…

- Allora provami il contrario. Tu me lo devi, di vivere, Massimo, qualunque cosa accada a tuo figlio. Io sono la prova vivente che un uomo può vivere dopo che suo figlio è morto. Io pure, volevo morire, ma ho buoni motivi per vivere e tu sei uno di essi. Non essere così… egoista.

Massimo barcollò all’indietro come se fosse stato colpito, il viso una maschera di confusione.
- Egoista?

Giovino non disse niente. Gettò semplicemente indietro la testa e guardò con sdegno il suo generale.

Massimo lo oltrepassò con lo sguardo per guardare la moglie, che aveva le mani premute contro la bocca, gli occhi spalancati. Quinto rimaneva fermo come una statua accanto a lei, il volto composto e grave. Gli occhi del generale tornarono lentamente sull’ingegnere che lo stava tuttora fissando con aria di sfida. Massimo scosse la testa come cercando di schiarirsi le idee e lanciò un’occhiata all’altare e poi a Cicero, prima di posare di nuovo lo sguardo su Giovino. Ruotò su se stesso, zoppicando vistosamente, e si diresse verso il letto.

Giovino andò dietro l’altare e raggiunse le imposte delle finestre, spalancandole per far entrare il sole del tardo pomeriggio. I raggi dorati colpirono obliqui il murale fatto da Olivia, del suo fiero marito in groppa allo stallone nero che s’impennava… Il più grande generale di Roma, fulgido tra le pellicce e risplendente nella sua corazza d’ottone.

Massimo smise bruscamente di fissare la propria immagine illuminata.

- Riconosci quell’uomo, Massimo? - gli bisbigliò furioso Giovino nell’orecchio. - Quello è l’uomo per salvare il quale mio figlio è morto. Quello è l’uomo per il quale qualunque soldato di Roma offrirebbe la vita. Tu non sei un uomo comune, amico mio. Tu sei stato scelto dagli dei perché sei veramente speciale. Tu appartieni alla tua famiglia, Massimo, ma sei anche al servizio di Roma. Non ti è consentito offrire la tua vita per l’una senza riguardo per l’altra. Gli dei non ascolteranno una tale richiesta e tu non hai il diritto di farla.

Massimo fissò il proprio ritratto in silenzio fino a che i raggi obliqui gradualmente si affievolirono. Così facendo, lo spirito dell’uomo dipinto sembrò trasfondersi nella sua controparte mortale. La schiena di Massimo si raddrizzò lentamente e la sua testa si tirò su.
- Mi... mi dispiace, Giovino. Hai ragione. Lo devo a tuo figlio… ai figli di molti uomini… di vivere, qualunque cosa possa accadere al mio. Io... pensavo che nessuno al mondo stesse soffrendo come me. - Massimo si voltò lentamente. Guardò la moglie in lacrime, poi al di sopra della testa di lei, nell’atrio. - Persino in quest’accampamento ci sono altri bambini che soffrono tanto quanto mio figlio; altri padri che provano quello che provo io; altre madri che... - Massimo chiuse gli occhi. - Mi dispiace. Non sono stato l’uomo che bisognava che fossi... che ci si aspettava che fossi.

- Non è da te arrenderti, Massimo, - disse Giovino gentilmente. - Sei un combattente. E’ strano… il modo in cui ti sei comportato.

Massimo annuì, poi aprì gli occhi.
- Non sono stato molto in me, ultimamente. - Afferrò l’avambraccio dell’ingegnere.

Cicero aveva le spalle così inarcate da sfiorargli quasi le orecchie e si costrinse a rilassarle. Avvertendo l’esigenza di un ritorno alla normalità, si aggirò nella stanza accendendo le lanterne, mentre Olivia abbracciava il marito.

- La gamba ti fa male? - chiese, notando che lui spostava quasi tutto il peso sulla gamba sinistra, usando il piede destro soltanto per mantenere l’equilibrio.

- Sì, - ammise, - ma niente più droghe.

- Ti prendo la sedia. - Massimo la fermò mentre lei cercava di allontanarsi e la avvolse nuovamente tra le sue braccia.
- No, amore mio. Non ne avrò più bisogno. Camminerò. Potrei avere bisogno dell’aiuto di un bastone, ma camminerò. Desidero che mio figlio, ed i miei uomini, mi vedano in piedi, sui miei piedi.

Giovino fece un gran sorriso a Massimo.
- Dovrò trovarti un bastone, generale. E se non riesco a trovarne uno adatto... allora ne farò uno degno d’un generale! - Uscendo dalla stanza, superò sfiorandoli Quinto e Marciano, quest’ultimo giunto in tempo per assistere alla trasformazione di Massimo.

Il chirurgo si lisciò all’indietro i lunghi capelli grigi ed un lento sorriso incrinò i suoi lineamenti affaticati.
- Ti sei rimesso in piedi appena in tempo, Massimo. Marco è sveglio e chiede di te…

Olivia tirò il braccio del marito sopra la propria spalla sottile, pronta a sostenerlo in modo che potesse arrivare fino all’atrio, zoppicando.

Marciano incrociò le braccia e sorrise alla coppia.
- …e la febbre di vostro figlio è passata.

Con un grido di gioia, Olivia si chinò, scivolando da sotto la spalla del marito e volò nell’atrio, facendo ruotare Massimo su se stesso, completamente privo d’equilibrio, e Quinto e Cicero si precipitarono ad aiutarlo. Con un uomo ad ogni braccio Massimo fu subito di nuovo stabile e tutti e tre sospirarono di sollievo.

- Be’, Massimo, sembra che tua moglie abbia ben chiare le sue priorità, - osservò Quinto.

Massimo li costrinse a fermarsi tutti e chiese con aria grave.
- Sono stato così insensibile? L’ho trascurata talmente tanto?

Cicero annuì con sincerità.
- Sicuro che l’hai fatto. E’ stata molto dura per lei. Farai meglio a pensare a molti modi per riappacificarti con lei.

I tre ripresero il loro cammino verso l’atrio.
- E che cosa suggerisci, Cicero? - chiese Massimo.

- Mmm... una vacanza a Roma.

- Roma? - fece eco Massimo con aria scettica.

- Che ne dici di gioielli? - intervenne Quinto. - Si trovano oro e gemme nei mercati di Vindobona in questo periodo dell’anno.

- Questa è un’idea, - disse Massimo meditabondo, continuando a zoppicare. - Ma, sai che cosa probabilmente le piacerebbe più di qualunque altra cosa?

- Che cosa? - chiesero Quinto e Cicero contemporaneamente.

- Tornare a casa in Ispania.

- Soltanto se passerai del tempo là con lei, signore, - soggiunse Cicero.

- Be’, si può fare, - disse Massimo. - Sono sicuro che si può fare.

Capitolo 87 - Ispania

Il sole d’autunno e le colline verdeggianti d’Ispania accolsero Massimo e la sua famiglia come un caldo abbraccio. Finalmente… finalmente a casa. Sentì la sua anima librarsi in volo, quando avvistò la sua casa in lontananza, appollaiata in cima ad un’alta collina, circondata da campi di messi mature e da alberi carichi di frutta; con un colpetto spronò Argento ad un trotto vivace, allontanandosi dal carro che trasportava la moglie ed il figlio addormentato.

Il viaggio in Ispania era stato rinviato per mesi, nel frattempo Massimo guariva completamente e Marco riguadagnava le forze. Tanto per cambiare, i mesi estivi in Germania erano stati relativamente pacifici dopo la terribile battaglia a Vindobona, offrendo a Massimo il tempo e la sicurezza di accompagnare la sua famiglia in escursioni presso il villaggio ed intorno alla campagna, protetta sempre da pattuglie di soldati armati. Marco aveva fatto amicizia con alcuni bambini del villaggio e giocavano insieme ogni giorno, o nel villaggio o nell’accampamento. Massimo aveva tenuto in esercizio la sua gamba ferita fino a che era tornata alla piena forza e Olivia ogni notte aveva strofinato creme lenitive sulla cicatrice che sbiadiva, provocando lunghi assalti di amplessi appassionati.

Ma ora erano a casa. Dall’interno del carro Olivia non vide il gesto del marito e non si rese conto che egli non era più con loro fino a che il carro non si arrestò davanti casa. I servi si riversarono dalla porta ed i lavoranti accorsero dai campi per accogliere la famiglia, ed Olivia fu trascinata in un abbraccio piangente dopo l’altro. Marco fu lanciato in aria con commenti su quanto fosse cresciuto.

Gli occhi d’Olivia cercavano il marito mentre lei salutava calorosamente gli amici, la gioia per essere a casa temperata dalla sensazione che qualcosa non andava. Dov’era Massimo? Tutti stavano chiedendo di lui e lei rispondeva scrollando le spalle finché Cicero indicò indietro giù per la strada, fino al cancello e all’alto pioppo, la figura solitaria che vi s’inginocchiava alla base.

Era quasi buio quando Massimo apparve sui gradini della casa. Un’Olivia che si era appena fatta il bagno lo accolse sul sentiero.

- Dovevo parlarle, - bisbigliò lui.

- Capisco, amore mio, - disse Olivia e si tennero a braccetto mentre salivano i gradini della loro casa.




- Ohhh... Mi sento stanco, - disse Massimo allungando le braccia sopra la testa e sbadigliando. - E’ buona cosa che non viva qui a tempo pieno, Cicero, o sarei grasso e pigro come un maiale.

- Ne dubito, signore, - rispose Cicero con un sorriso. In verità, Massimo aveva un aspetto magnificamente sano e disteso, i capelli e la barba più lunghi, come sempre quando era a casa. Il suo viso era abbronzato; il corpo temprato dal lavoro nei campi tutto il giorno. Indossando una semplice tunica ed i sandali, avrebbe potuto passare per un qualunque agricoltore del luogo, ma chiunque era al corrente del contrario. Semmai, era Cicero che si stava abituando alla bella vita, perché Massimo lo aveva sollevato dai suoi doveri e lo trattava come un membro della famiglia.

Quando non lavorava ai miglioramenti della sua proprietà o non giocava con il figlio, Massimo visitava i mercati locali, vendendo le sue merci e comprando provviste. I cittadini di Emerita Augusta gradualmente si abituarono ad avere quell’uomo famoso in mezzo a loro e si fermavano a guardarlo apertamente come se fosse una sorta di dio in sembianze terrene.

Mentre i giorni si accorciavano e le notti divenivano più fredde, la famiglia passava tranquille serate davanti al fuoco parlando delle attività della giornata. Spesso visitavano i parenti di Olivia, trascorrendo rumorose serate in conversazioni e giochi. Marco giocava con i suoi numerosi cugini e Persio raccontava coloriti resoconti delle sue avventure in Germania, meritandosi una volta o due un sopracciglio alzato di Massimo. I fratelli ed il padre di Olivia l’avevano infine perdonata per aver intrapreso il suo pericoloso viaggio per vedere il marito, ma avevano fatto capire molto chiaramente che non si aspettavano che accadesse di nuovo. Massimo assicurò loro che non sarebbe successo, perché sua moglie aveva visto abbastanza sofferenze in Germania da bastarle per il resto della vita.




L’inverno s’avvicinava e l’aria diveniva piuttosto fredda. Le notti ora erano lunghe e Massimo ed Olivia trascorrevano molte ore avvolti sotto le coperte, parlando, ridendo e facendo l’amore. Nessuno di loro toccava l’argomento che entrambi temevano: la partenza imminente di Massimo per la Germania e la sua lunga separazione dalle persone che amava più di chiunque altro al mondo. Marco Aurelio gli aveva concesso il permesso di rimanere con la sua famiglia fino all’inizio di gennaio ed era quasi la fine di dicembre.

Massimo si svegliò una mattina trovando la moglie seduta accanto al fuoco, che fissava le fiamme. Si stropicciò gli occhi assonnati.
- Olivia?

Lei si voltò per guardarlo in viso.
- Massimo... chi è Giulia?

Lo sguardo di lui cadde sulla lettera spiegazzata e strappata nella mano di lei poi tornò su quello di Olivia. Si sollevò nel letto, e la coperta gli cadde alla vita rivelando petto e braccia nudi.
- Dove l’hai presa? - chiese con calma.

- Un soldato in Germania l’ha trovata in una tenda quando l’ha stesa per asciugare i teli di canapa. Me l’ha portata per dartela. Così... te la sto dando.

Massimo cercò di alleggerire l’umore di lei.
- Perché ci hai messo tanto? - sorrise. Non funzionò. Olivia con aria grave si girò di nuovo verso il fuoco. Egli sospirò. - E’ la giovane schiava che mi aiutò ad uccidere Cassio anni fa. Ti dissi di lei… ricordi? - Lo sguardo di Massimo era fermo.

- Ti scrive spesso delle lettere?

- No, quella è l’unica. Non avevo idea di che cosa le fosse accaduto fino a quando non mi è arrivata. - Massimo ripiegò le braccia. - L’hai letta?

- No.

- Forse dovresti. Leggila. Non mi dispiace. In verità, ti tranquillizzerà, perché non vi è nulla da nascondere. - Olivia non si mosse. - Leggila, - la sollecitò.

Dopo alcuni lunghi momenti, lei srotolò il papiro e lo inclinò alla luce del fuoco e lesse. Quando finì, l’abbassò in grembo e si voltò verso il marito.
- E’ una lettera d’amore.

La mascella di Massimo cedette.
- Una lettera d’amore? No che non lo è, - protestò. - E’ soltanto una lettera di ringraziamento, niente di più. Desiderava semplicemente farmi sapere che si è sistemata e ha una vita felice… una felice vita matrimoniale.

- E’ una lettera d’amore, - insisté Olivia. - I suoi sentimenti sono chiari se leggi tra le righe.

Massimo sollevò le mani esasperato.

- Era bella?

- Sì, ma non più di te.

- Hai fatto l’amore con lei? - La voce di Olivia era tremula.

- No! Olivia, io ho fatto giuramento di fedeltà a te finché entrambi saremo in vita, e lo onoro. Ti prego, non accusarmi di essere infedele, perché non lo sono… non ho mai dormito con un’altra donna da quando ti ho sposata. - Massimo si alzò nudo dal letto e la prese tra le braccia. - Perché fai così? Mhhh?

Olivia tirò su dal naso e si strinse a lui mentre le carezzava i capelli.
- Non lo so. Io... ho solo tanta paura di perderti e mi rendo conto che potrei... in molti sensi. Restiamo separati talmente a lungo.

- E’ difficile per entrambi. Lo so. Ma almeno tu sai che la Germania non è certo un suggestivo avamposto in cui passare i miei giorni e le mie notti tra le braccia di belle donne. Adesso sai com’è realmente la mia vita.

- Mi preoccuperò che tu possa morire di febbre.

Massimo ridacchiò.
- Non… non pensare a queste cose. Pensami, invece, mentre dirigo manovre incessanti e soprintendo alla costruzione di strade, comunicando con esploratori e spie e corrieri, progettando  strategie di battaglia per guerre che non accadono mai. La mia vita è tutto tranne che eccitante, la maggior parte del tempo. Tu l’hai visto. In effetti, la maggior parte del mio tempo libero lo passo a scrivere lettere a te e rapporti a Marco Aurelio. Non so che cosa abbia spinto Giulia a scrivere quella lettera.

- Le risponderai? - La voce di Olivia era soffocata mentre seppelliva il volto nel collo del marito.

- No. - Gliela prese dalla mano e la gettò nel fuoco, dove si arricciò e bruciò emettendo fumo, riducendosi in cenere. Poi Massimo sollevò la moglie tra le braccia e la riportò a letto, nel quale passarono il resto della mattinata in indisturbata beatitudine.





Tre giorni dopo, il 3 gennaio 177, Massimo sedeva in groppa ad Argento e contemplava in silenzio la sua proprietà, cercando di mandare a mente ogni arbusto, fiore e roccia, creando dei ricordi che lo avrebbero sostenuto nei mesi… o anni… a venire.

Olivia e Marco erano in piedi sul vano della porta, i loro addii erano stati lunghi e dolorosi. Olivia si teneva il figlio stretto contro il fianco e premeva l’altra mano sul ventre sotto il mantello, serrando la mascella per impedire al mento di tremare. Il bambino stava cercando di essere coraggioso, ma lacrime silenziose gli rotolavano lungo il viso. Alzò il suo piccolo pugno e lo tenne contro il petto. Gli occhi di Massimo s’offuscarono ed egli restituì il saluto, poi fece voltare Argento e discese la via al galoppo, prima di commuoversi tanto da smontare e rimanere per sempre.


Capitolo 88 - Alternative

- E’ un onore rivederti, Cesare, - disse Massimo stando sull’attenti sulla soglia dell’entrata della sontuosa tenda dell’imperatore che al momento era situata a Bonna(*), Germania Inferiore.

- Oh, Massimo... entra, entra, - rispose Marco attirando il suo generale prediletto in un caldo abbraccio e dandogli con affetto delle pacche sulla schiena. Il viso rugoso dell’imperatore si addolcì mentre afferrava le spalle del giovane e si spostava un po’ indietro per osservarlo meglio. - Hai un bell’aspetto, Massimo. La tua gamba è guarita completamente?

- Sì, Cesare. Sono di nuovo nel pieno delle forze. Il tempo che ho trascorso in Ispania mi ha aiutato molto. Grazie, ancora una volta, per avermi concesso licenza.

- Ecco, potrebbe essere l’ultima, per un po’ di tempo, temo. - Marco si voltò e Massimo notò che le sue spalle erano incurvate e che appariva fragile… o era solo la stanchezza che lo faceva sembrare così vulnerabile? - Siediti, Massimo, - Marco indicò una comoda sedia, - e togliti l’armatura. Non ne avrai bisogno, qui. Hai mangiato?

- Non da un bel pezzo, Cesare, - disse Massimo con franchezza ed il suo stomaco brontolò mentre si slacciava mantello, pellicce e corazza e li posava sul pavimento accanto alla sedia. Resisté all’impulso di stiracchiarsi e grattarsi il petto.

Comparve un servo dalle ombre portando un vassoio con due alti calici colmi d’un liquido ambrato schiumoso.
- Ti piace la birra, Massimo? Devo ammettere che ho passato così tanto tempo in Germania che ho cominciato ad apprezzarla.

Massimo sorrise.
- Anch’io. E’ parecchio diversa dal vino, ma ha certamente un gusto a cui ci si abitua… leggermente amaro. Non vi è nulla di simile in Ispania. - Prese il calice dal vassoio e lo alzò in un gesto di onore al suo imperatore. - Alla pace nell’impero, Cesare.

Marco sollevò il suo calice in risposta poi ne bevve rumorosamente il contenuto tutto d’un fiato. Quando ebbe finito era quasi senza respiro. Massimo cercò di non reagire, ma non riuscì a reprimere un leggero incurvarsi delle labbra. Non si rese conto che la sua espressione divertita si era allargata al resto del viso, però, fino a che Marco non alzò un sopracciglio e disse con un largo sorriso:
- Ahhh, mi piace stare con te, Massimo. Posso rilassarmi e non devo stare attento a tutto quello che dico e faccio.

- Sono molto onorato che la pensi così, Cesare. Anche a me piace la tua compagnia. Ci vediamo troppo poco.

- Hai ragione. Altra birra?

- Certamente, Cesare. - I loro calici furono immediatamente riempiti di nuovo, ma entrambi gli uomini questa volta preferirono assaporare la birra, invece di tracannarla. - Sei stato a Roma, Cesare?

- Sì. Avevo molto da fare là. Non cose piacevoli, purtroppo. Ho dovuto, ancora una volta, aumentare le tasse per contribuire a coprire i costi delle guerre che stiamo combattendo su tutti i fronti. - Fece una pausa, poi aggiunse con attenzione. - I Mauri
(**) hanno invaso il sud dell’Ispania, Massimo. Lo sapevi?

- Che cosa! No, Cesare, - disse Massimo raddrizzandosi, molto allarmato. - Quante legioni ci sono in Ispania, Cesare? Non molte, vero?

- Rilassati, Massimo. L’invasione verrà contenuta. C’è soltanto una legione permanente in Ispania, ma ne ho spostate altre tre dall’Italia e dalla Gallia. Il gruppo d’invasione non era grande e sarà sconfitto rapidamente. Non sono per niente vicini a casa tua.

Massimo si passò una mano sulla nuca poi sollevò il calice alla bocca e lo vuotò. Immediatamente fu riempito di nuovo.

Quando il suo generale fu di nuovo rilassato, Marco riprese:
- Ho fatto di più che aumentare le tasse per trovare i soldi… ho venduto all’asta molti dei miei beni. Immmagino che fosse il minimo, dal momento che sto chiedendo a tutti di dare più. Gioielli. Ho fatto tenere alle mie figlie soltanto i loro favoriti ed ho venduto il resto. Nel palazzo ora ci sono stanze prive di mobilia.

- Mi dispiace, Cesare.

- Ah... noi tutti dobbiamo fare dei sacrifici per l’impero, Massimo. Siamo obbligati a farlo, come cittadini di Roma. Devo continuamente arruolare sempre più uomini nelle legioni ed essi vanno  equipaggiati, attrezzati e nutriti. Sai che sono preoccupato di rimanere a corto di uomini? Ho persino arruolato alcuni gladiatori nei ranghi. Molte di quelle povere anime erano soldati essi stessi non molto tempo fa, ma ora combattono per gli antichi avversari.

- Posso fare una domanda, Cesare?

- Certamente.

- Alla luce di quanto mi hai appena detto, speri ancora di annettere le terre dall’altro lato del Danubio?

- E’ una buona domanda, ed io non ho una risposta pronta. La verità è che ci sono ricchezze a fiumi in quelle terre, che contribuirebbero a riempire i forzieri di Roma, ma i costi per conquistarle sarebbero elevati.

- In termini di vite umane come pure di equipaggiamento, Cesare.

Marco annuì.
- Sì, me ne rendo conto. Trovo anch’io, come te, difficile vedere morire dei romani. Tuttavia, vite umane devono essere sacrificate per mantenere forte l’impero. - Guardò Massimo dritto negli occhi. - Come ho detto, noi tutti dobbiamo fare sacrifici. - L’imperatore finì la sua birra e accettò un altro calice, ma Massimo fece cenno che ne aveva avuto abbastanza. - La mia visita a Roma è stata la prima in sette anni, se riesci a crederci. Mi sento quasi un forestiero a Roma, Massimo. Sono cambiate tante cose negli anni, da quando sono imperatore, e non sono stato là per vederle direttamente, così sono stato colto di sorpresa. Sai quali sono le mode più recenti a Roma?

 Era una domanda retorica, ma Massimo rispose comunque scuotendo la testa.

- Astrologia. Oroscopi.

- Oroscopi?

- Sì... la lettura delle stelle e la credenza che esse influenzino gli affari umani. La gente di tutta l’Urbe si fa leggere gli oroscopi e cambia di fatto la propria vita a seconda di che cosa vien detto. - Marco considerò Massimo da sotto le folte sopracciglia bianche. - Se tu vivessi a Roma lo faresti?

- Farmi leggere il mio oroscopo? No, Cesare, non credo proprio. Sono incline a credere che siano le proprie azioni a determinare il destino di un uomo, non le stelle. Naturalmente ci sono sempre degli eventi inattesi che accadono nella vita di chiunque, ma penso che sia la nostra reazione ad essi a determinare il nostro futuro. - Massimo si mosse nella sedia. - Devo ammettere, tuttavia, che a volte vedo dei presagi, specialmente prima delle battaglie, ma credo che potrebbero essere un possibile segno delle cose a venire, non una finestra sul destino. - Fece un largo sorriso. - I presagi sono probabilmente un’invenzione della mia immaginazione, dovuta ai nervi, Cesare, anziché segni dagli dei.

Marco rise.
- Bene… La penso come te. E’ l’uomo a determinare il proprio destino. Sai che altro si sta facendo a Roma?

Massimo educatamente scosse ancora il capo.

- Moltitudini che intraprendono un viaggio faticoso e lento fino in Grecia per consultare la sacerdotessa, la Sibilla. - Marco fece fluttuare la mano in un gesto sprezzante. - Oh, questo accade da generazioni, lo so, ma ora è di moda farlo. Anche i senatori ci vanno, perché credono che ella possa dire loro i segreti degli dei, quando cade nel sonno ipnotico. Chiedono perfino consiglio su affari di stato… come chi sarà il futuro imperatore… e viene tutto annotato in libri. Figuriamoci! Non sono le stelle o gli dei che decideranno il prossimo imperatore, ma io!

- Senz’alcun dubbio, Cesare. - Massimo annuì per sottolineare le sue parole.

- Ah, ecco il nostro cibo. Si sta bene qui. Perché non restiamo dove siamo? - Marco sorrise di nuovo a Massimo poi diede ordine ai servi di posare il cibo su dei tavolini a portata di braccio dei due uomini. - Così, - continuò Marco spezzando in due una pagnotta di pane, - sei d’accordo che sono io colui che nominerà il prossimo imperatore?

- E’ tuo diritto e dovere, Cesare.

- Esattamente. Ed è qualcosa a cui sto pensando davvero molto, ultimamente. - Marco bevve un sorso di vino. - Sono vecchio, Massimo.

Marco effettivamente appariva molto vecchio in quel momento. Il generale abbassò gli occhi ed improvvisamente trovò difficile inghiottire. Quasi si strozzò con il pane, e tracannò del vino per mandarlo giù. Marco lo guardò molto attentamente, poi si accomodò all’indietro sul divano.

- Come ti dicevo, Massimo, sono tornato a Roma alcuni mesi fa, dopo anni d’assenza. Uno dei motivi è che ho dovuto sbrigare affari di famiglia che avevo trascurato per un certo tempo e non potevo rimandare ancora. - Bevve un altro sorso di vino. - Una cosa che il piano di Cassio per rubarmi il trono mi ha insegnato è che se non sarà nominato un successore, l’impero piomberà nel caos, alla mia morte, dato che i potenziali imperatori combattono per la mia posizione persino prima che le mie ossa siano fredde. Posso ringraziare te che ciò non sia accaduto qualche anno fa.

Massimo masticò pensando al generale traditore e al proprio ruolo nel decesso dell’uomo, ed alla possibilità che ci fossero dozzine di uomini ugualmente ambiziosi e spietati.

- L’impero potrebbe precipitare nella guerra civile, perché i candidati raduneranno i loro sostenitori in fazioni e i generali condurranno gli eserciti in Roma nel tentativo d’agguantare il potere, ah! Non sopporto neppure il pensiero. - Il suo magro appetito saziato, l’imperatore si riaccomodò all’indietro, lo sguardo socchiuso sul suo generale, che fissava meditabondo il proprio cibo. - Ci fu del panico a Roma, sai, quando si sparse la voce della mia morte. Il senato immediatamente si frazionò in differenti partiti, ognuno a sostegno del proprio candidato. - Marco sospirò profondamente e fece scorrere la mano sul viso. Massimo gli gettò una breve occhiata poi abbassò gli occhi una volta di più. - Non posso permettere che accada ancora. L’unico modo di evitarlo è nominare un successore mentre sono ancora vivo. A tale scopo, ho predisposto i matrimoni delle mie figlie, mentre ero a Roma.

Il che catturò l’attenzione di Massimo, come Marco sapeva sarebbe accaduto, e il giovane alzò lo sguardo, sorpreso. Un senso di disagio strisciò sulla schiena di Massimo ed egli rabbrividì leggermente. I suoi occhi si abbassarono ancora una volta quando si rese conto che Marco aveva visto la sua reazione. Si chiese dove stesse andando quella conversazione.

L’imperatore continuò.
- Una figlia, naturalmente, è già sposata a Claudio Severo. Le mie due figlie più giovani, le ho promesse a uomini egualmente incapaci e deboli: Burro
(***), che proviene dalla famiglia del generale Antistius Adventus, e Sura Mamertino. Quegli uomini non causeranno al futuro imperatore alcuna difficoltà. - Marco smise di parlare e nella stanza ci fu silenzio totale, tranne che per il vento freddo che fischiava intorno al tetto di canapa facendolo sbattere a tratti. Massimo sapeva che l’imperatore voleva che gli domandasse notizie di Lucilla, ma lui non lo fece.

Marco infine riprese a parlare.
- In quanto a Lucilla, be’, il suo matrimonio è di particolare importanza. Devo decidere se sposarla ad un uomo di eguale scarsa rilevanza e quindi allontanarla per sempre da una posizione d’influenza, o sceglierle con cura il marito, con l’intenzione di rendere lei nuovamente imperatrice e suo marito imperatore alla mia morte. - Marco posò il calice sul tavolino e si alzò in piedi lentamente, la mano premuta sulla schiena come cercando di contenere lì il dolore. Il suo abito strascicò sul pavimento mentre egli andava a mettersi dietro la sedia di Massimo. Il generale fissava una parete distante, sentendosi come se un grande peso improvvisamente stesse premendo sulle sue spalle.

Quando Marco infine parlò di nuovo, la voce poco più d’un bisbiglio, ma così vicino all’orecchio di Massimo che i peli sul collo del giovane si sollevarono.
- Lucilla, naturalmente, ha una sua propria opinione sull’argomento ed è disposta a fare qualunque cosa per evitare che suo fratello diventi imperatore. Ha suggerito un matrimonio che le riuscirebbe gradito, servirebbe bene l’impero… e accontenterebbe anche me. Ma, se l’uomo in questione non accettasse la proposta, allora io avrei solo un’alternativa. Vuoi sentirla, Massimo?

Senza aspettare risposta Marco lasciò la spalliera della sedia di Massimo e ritornò nel suo raggio d’osservazione.
- L’unica altra possibilità è che mio figlio, Commodo, sia nominato mio erede e che io dia in sposa Lucilla a quell’incapace siriano, Claudio Pompeiano.

Massimo trasse un respiro vibrante.
- Commodo è molto giovane, Cesare.

- In effetti lo è, Massimo, ed è soltanto una delle molte ragioni per le quali questa non è l’alternativa migliore. E’ mio figlio, ma io non sono cieco. Tuttavia, se questo preserverà l’impero dalla guerra civile, io lo nominerò mio erede. Potrei cominciare nominandolo coimperatore, come lo ero io con Lucio Vero; poi, quando io morirò, lui continuerà semplicemente come unico imperatore. Non ci sarebbe alcuna transizione, in realtà.

La mente di Massimo stava annaspando. Commodo? Imperatore?
- Uh... sarebbe il primo imperatore a essere nominato durante il regno del padre, Cesare, - disse Massimo, che non riusciva a pensare a nient’altro da dire.

Marco sorrise.
- Conosci la storia. Sì, Commodo diventerebbe il diciassettesimo imperatore di Roma. Questo sarebbe certamente il modo più facile di stabilire la successione. Non sei d’accordo... Massimo?

- Sarebbe il più facile, Cesare.

- E l’alternativa migliore, Massimo?

- Questa è una decisione che devi prendere tu, Cesare.

- Sto chiedendo la tua opinione.

Massimo cominciò a parlare poi si fermò, cercando le parole giuste.
- Forse c’è una terza possibilità... potresti nominare un senatore come tuo successore, Cesare. Forse adottarne uno... viene fatto comunemente... tu stesso fosti adottato.

- E che senatore suggerisci?

Massimo scrollò le spalle.
- Io non li conosco, Cesare.

- Be’, io sì, e non ve n’è uno che vorrei diventasse imperatore. Oh, questo non vuol dire che non ci siano uomini capaci nel senato, ma l’essere imperatore richiede un uomo con qualità speciali. Nessun senatore ha i requisiti necessari al pari di mia figlia Lucilla, ma ahimé, lei è una donna. Ora, immagina Lucilla sposata ad un uomo di eguale forza, intelligenza, integrità e coraggio. Che unione sarebbe! Un imperatore ed un’imperatrice veramente degni di quei titoli. - Marco unì le dita studiando Massimo, che si rifiutava d’incrociare il suo sguardo. - Allora, che cosa ne pensi, Massimo?

- Io... Penso che... la scelta sia tua, Cesare.

- Lo so che la scelta è mia, Massimo, - disse Marco con un accenno d’impazienza. - Voglio la tua opinione.

Diceva sul serio? Massimo nervosamente si strofinò le nocche con il palmo dell’altra mano.
- In tutta onestà, non ritengo che Commodo imperatore sarebbe la scelta migliore.

Marco annuì d’accordo.
- Dunque credi che dovrei dare Lucilla in sposa all’uomo che desidero mi sia successore.

Massimo sentì scattare la trappola e pregò per un diversivo. Non poteva, una fulminea saetta, colpire la tenda, o qualcosa del genere?
- Suppongo di sì, Cesare, e sono sicuro che ci sono molti candidati adatti…

- In realtà, non ve ne sono, - interruppe Marco. - Lucilla ed io ne abbiamo discusso e siamo d’accordo sull’uomo.

Massimo restò in silenzio, lo sguardo sul pavimento.

- Quest’uomo è un capo nato e si è messo ripetutamente alla prova. - Marco si chinò in avanti e catturò lo sguardo di Massimo, rifiutando di lasciarlo. - Conosco bene quest’uomo. So che ama l’impero. Farà ciò che è giusto per Roma. E’ l’unico uomo che può evitare che mio figlio diventi imperatore. - Marco si appoggiò indietro, lo sguardo fisso su quello del suo generale.

Il cibo che aveva appena mangiato gli gravava come gelido piombo nello stomaco e le mani di Massimo stringevano i braccioli della sedia in una stretta spasmodica.
- Quest’uomo… che cosa fa?

- E’ nell’esercito… il suo comandante più grande.

- Potrebbe non capire la politica dell’impero, Cesare, - disse Massimo con una punta di disperazione nella voce.

- Avrebbe mia figlia a guidarlo. Il carattere è molto più importante che la conoscenza della politica. Quest’ultima può essere imparata. Il primo, lo si ha alla nascita.

Il cuore di Massimo martellava ed egli si sentiva senza fiato, come se avesse appena corso da una grande distanza trasportando un carico pesante.
- Quest’uomo è libero di sposare tua figlia? - La sua voce era sommessa, persino alle sue stesse orecchie.

- Può diventarlo con il minimo del clamore. Degli accomodamenti sarebbero fatti per la sua attuale famiglia.

Neppure per l’impero avrebbe potuto abbandonare la moglie ed il figlio adorati. Non poteva farlo e non voleva farlo. Massimo guardò Marco Aurelio dritto negli occhi, sollevò il mento e non disse niente, il corpo freddo e rigido come pietra. Se Massimo non acconsentiva a sposare Lucilla e a divenire l’erede di Marco Aurelio, allora sarebbe stato lui l’unico responsabile dell’avvento di Comodo a imperatore? Era un ricatto, puro e semplice. Forse Marco aveva a cuore soltanto l’interesse di Roma, ma Massimo si sentiva personalmente tradito. Poteva solo pregare che Marco stesse semplicemente tastando il terreno e non fosse completamente risoluto in quella linea di condotta.

Passò molto tempo prima che Marco infine sospirasse e dicesse:
- E’ tardi, Massimo, e sono stanco. Sono sicuro che lo sei anche tu, dopo il viaggio. Perché non ci ritiriamo entrambi e non pensiamo a questo argomento più avanti, in privato? Ne potremo riparlare presto. Le decisioni non devono essere prese immediatamente. - Si alzò e Massimo restò in piedi rigido. Marco si rammaricò profondamente di causare al giovane tale evidente angoscia, ma sapeva nel suo cuore che era la cosa giusta da fare. - A proposito, ho portato Commodo qui con me. Pensavo che gli avrebbe fatto bene vivere al fronte per un po’ e vedere che cosa fa davvero un imperatore ogni giorno.

Marco osservò tristemente Massimo raccogliere i suoi effetti personali ed uscire dalla tenda senza nemmeno una parola.



(*)        L’attuale Bonn, in Nord Reno-Vestfalia, Germania (N.d.T.).

 

(**)       Africani chiamati "Mauri" dai Cartaginesi perchè di pelle mora, in seguito anche dai Romani. Di discendenza mista, berbera e araba, abitarono in Mauritania, Marocco, Algeria, Ispania (N.d.T.).

 

(***)      Il cognome Burrus deriverebbe da urus, che in latino volgare è il bue selvatico, ossia l’animale probabilmente rappresentato nello stemma di famiglia (N.d.T.).

Capitolo 89 - La nuova recluta di Massimo

Massimo andava su e giù davanti ai suoi uomini cercando di reprimere la sua furia. Aveva detto a Commodo di raggiungere la legione a mezzogiorno e il ragazzo era in ritardo di almeno due ore. Gli uomini si erano stancati di stare in riga, così Massimo aveva ordinato loro il riposo. Gironzolavano sul terreno in completo silenzio ed osservavano il loro generale scavare un solco nell’erba, con Ercole alle sue costole come un’ombra.

Massimo silenziosamente imprecò contro Marco Aurelio. Aveva detto di aver portato il figlio in Germania per mostrargli che cosa fa un imperatore ed invece il ragazzo era stato assegnato a lui. Nel tentativo di placare il suo generale, l’imperatore aveva trasferito alcune legioni per riunire Massimo alla Felix III a Bonna. Non era abbastanza. Massimo era arrabbiato con l’imperatore, infuriato con suo figlio e oltraggiato per essere stato costretto a sopportare la compagnia del ragazzo, mentre Marco tentava di convincere del tutto il suo generale della totale inidoneità del giovane alla conduzione dell’impero. Massimo non aveva bisogno d’avere l’odioso Commodo tutto il tempo tra i piedi, per saperlo.

Finalmente, Commodo ed il suo pretoriano personale comparvero a cavallo su una vicina collina, trottando senza fretta. Gli uomini si misero sull’attenti per dare l’appropriato benvenuto al figlio dell’imperatore, nonostante il loro malcelato disprezzo per il giovane, e chinarono le teste mentre egli si avvicinava. L’inchino di Massimo fu così breve da essere quasi inesistente, le labbra serrate sui denti scoperti a metà.

- Eravamo pronti a partire due ore fa, principe.

- Due ore? Il tempo è proprio volato via, sai, Massimo. Mi stavo esercitando alla spada con i miei uomini, come faccio sempre a quest’ora del giorno. - Commodo lanciò in basso un’occhiata arrogante dalla sommità del suo stallone. - Sono qui, adesso, perciò non sprechiamo altro tempo, d’accordo? Come ci divertiremo oggi? Costruiremo un ponticello come abbiamo fatto due settimane fa? Ripareremo strade come abbiamo fatto prima di quello? Mhhh? Qual è il divertimento di oggi, generale? - strascicò lentamente le parole, in tono sarcastico.

Mentre Massimo ribolliva, gli uomini della Felix III si lanciavano occhiate l’un l’altro in aspettativa. Nessuno avrebbe osato prendersi gioco del loro generale in quel modo e farla franca, nemmeno quella peste del figlio dell’imperatore. Allarmato dall’espressione di Massimo, Quinto gli andò vicino e fece dei cenni con la mano per avvertirlo di tenere a freno la lingua. Fu ignorato.

Massimo divaricò le gambe in una posizione di sfida, mise le mani sui fianchi, alzò la testa inclinandola da un lato e guardò infuriato Commodo, vestito in uno dei suoi abiti più raffinati nonostante la legione dovesse portare a termine un lavoro che insudiciava, ed in profondo contrasto con la semplice tunica di lana di Massimo, le sue gambe nude ed i sandali. Il pretoriano di Commodo era egualmente vestito con cura in cuoio, lana e seta neri decorati d’oro.
- Se tu ed i tuoi uomini trovate troppo impegnativi quei lavori, principe, forse potremmo preparare qualcosa di più adatto. - La sua rabbia lo rese irriverente. - Forse potreste... lavorare nella lavanderia. Le vasche d’acqua permetterebbero ai graziosi ragazzi dietro di te di ammirare i loro riflessi mentre strofinano e concludereste la giornata ancora più puliti di quanto l’avete cominciata.

Quinto si fece piccolo piccolo quando risa d’apprezzamento echeggiarono lungo le fila di uomini, mentre il commento di Massimo veniva tranquillamente ripetuto a beneficio di quei soldati troppo lontani per sentirlo, facendo sì che le risate sommesse continuassero a ondate che rotolavano sempre più lontano dalla fonte. Quinto lanciò loro un’occhiata furibonda e il riso gradualmente scemò.

Commodo ebbe la decenza di arrossire malgrado la sua espressione acida mentre gettava un’occhiataccia alle truppe, consapevole di essere la causa del loro divertimento.
- Non riesci a controllare i tuoi uomini, generale?

- Massimo, trattieni la lingua, - disse Quinto sottovoce, preoccupato che il suo generale potesse doversi pentire di un’altra osservazione così caustica.

- Tu non immagini l’estensione del loro autocontrollo, principe. - Gli uomini della Felix III erano raggianti d’apprezzamento per il sostegno del loro generale. - Tuo padre ti ha posto sotto il mio comando. Voleva che tu avessi un assaggio dell’essere soldato. Sembra che un assaggio sia tutto ciò che t’interessa, piuttosto che il pasto completo... ma tu parteciperai alle attività della giornata.

- Osi parlarmi con quel tono? - sibilò Commodo.

- Se non ti piace, prenditela con tuo padre. - Massimo girò sui talloni e se ne andò a grandi passi,  gettandosi praticamente addosso ad uno sbigottito Argento che s’impennò a metà per la sorpresa. Ercole si chinò prontamente strisciando da sotto gli zoccoli del cavallo, guardò Commodo e ringhiò.
- Ercole, sta’ buono, - ordinò Massimo e diede uno strattone ad Argento prima di spronarlo all’azione.

Poco dopo Massimo si trovava con l’acqua fino alle cosce nelle fredde acque d’aprile del Danubio, i piedi affondati nel fango, dirigendo l’operazione di allargare un ruscello per permettere a una maggior quantità d’acqua dolce di fluire nell’accampamento. Gli uomini grugnivano mentre sollevavano badilate di fango e diligentemente le svuotavano sugli argini del fiume. Dopo che il ruscello fu allargato dovettero rinforzare i nuovi argini con la pietra, per impedire al fango di franare nuovamente nell’acqua. Commodo si era tolto gli stivali e si trovava con l’acqua alle caviglie, la faccia una maschera di malcontento. Teneva sollevato il bordo del mantello, rifiutandosi di levarselo ma non volendo rovinarlo, usando l’altra mano per schiacciare le mordaci mosche primaverili che sembravano attratte dalla doratura sulla sua corazza. Guardava i soldati lavorare, fingendo d’apprezzare quello che stavano facendo. Occasionalmente offriva qualche commento a Massimo su come egli pensava stesse progredendo il lavoro, ma il generale lo ignorava. Quando parte degli argini minacciò di frangersi, Massimo stesso afferrò una pala e lavorò accanto ai suoi uomini, con gran disgusto di Commodo.

Ercole aveva ruzzato allegramente nell’acqua per un po’, ma ora era disteso sulla sponda, il muso sulle zampe, le sopracciglia contratte mentre osservava il suo padrone lavorare. Ogni volta che Commodo parlava, un basso brontolio emergeva dal petto del grosso cane, sostituito da uno scodinzolio quando udiva la voce di Massimo.

Alla fine della giornata, gli uomini stanchi e sporchi arrancavano di ritorno all’accampamento dietro il loro generale striato di fango. Il ruscello era stato allargato e rinforzato. Il loro incarico era stato completato ed erano soddisfatti di ciò che avevano realizzato.

Un Commodo immacolato cavalcava accanto a Massimo che guardava dritto avanti a sé.
- Penso che sia indecoroso, Massimo, che un uomo della tua condizione abbia lavorato come un semplice soldato. Guardati… sei sudicio... nessuno riconoscerebbe il tuo rango. Credo che perderai il controllo dei tuoi uomini se ti comporti come uno di loro.

- I miei uomini sanno chi è il loro generale, principe. L’autorità di un uomo non ha niente a che fare con quello che indossa, - rispose Massimo gettando di nuovo un’occhiata all’abbigliamento vistoso di Commodo. Il suo tono era moderato, dal momento che era troppo stanco per ingaggiare una guerra di parole con il giovane. - Ti piacerà l’incarico di domani, principe. Dovremo riempire quella palude laggiù di rocce, che scaveremo dalle caverne lassù nelle colline. Non dovrebbe essere troppo brutto. In questo periodo dell’anno i serpenti nella palude sono ancora relativamente piccoli. - La mascella di Commodo cascò e Massimo sollecitò al trotto Argento, un sorriso che gli stirava gli angoli della bocca.




- Abbiamo giocato nel fango, oggi, signore?

- Non sono in vena di scherzare, Cicero, - disse stancamente Massimo, sedendosi e dando uno strattone ai suoi sandali incrostati di fango.

- Spiacente, signore. Ti preparerò subito il bagno.

- Fallo molto caldo. Sono gelato dalla testa ai piedi.

- Certo. Nel frattempo, bevi questo. Ti scalderà dall’interno.- Cicero porse a Massimo un calice di vino non diluito. - Non lasciarti abbattere, signore.

Massimo guardò l’amico.
- E’ così evidente?

- Oh, sì. E’ la chiacchiera dell’accampamento, il modo in cui tieni testa al principe, ma tutti sappiamo che è dura, per te, - disse Cicero. Dopo un attimo d’esitazione aggiunse: - Posso offrire una parola di consiglio, Massimo… come amico?

Il generale sorrise.
- Se dicessi “no”, la cosa ti fermerebbe?

- No.

- Allora... di’ quel che pensi.

- Fai attenzione con Commodo, Massimo. Ti ha già causato una notevole quantità di dolore e ancora non è nemmeno in una posizione di potere. Potrà esserlo, un giorno. Ecco... fai attenzione, Massimo.

- Mettiti in coda, Cicero. Anche Quinto mi ha messo in guardia. - Massimo chiuse gli occhi cercando di escludere il mondo.




Alcune ore dopo Massimo sedette al suo scrittorio e poggiò i gomiti sulla superficie lucida, massaggiandosi le tempie con la punta delle dita. Nessuno nell’accampamento capiva che cosa realmente stesse sopportando. I soldati vedevano il conflitto esteriore, ma non avevano alcuna idea di ciò che egli stava soffrendo internamente. La pressione e la solitudine erano quasi intollerabili. Desiderava intensamente confidare le sue preoccupazioni alla moglie e sentire le sue dolci parole di conforto mentre gli premeva il capo contro i morbidi seni. Massimo avvicinò la lampada poi strappò da un rotolo un pezzo di papiro pulito. Tuffò la penna nell’inchiostro e scrisse: Mia carissima Olivia, confido che questa mia trovi bene te e nostro figlio…




A migliaia di miglia di distanza, in Italia, un’altra anima solitaria posava la penna sulla carta...

Diario di Giulia: Parte prima (scritto da Hebe Blanco)
Fu Apollinario… caro, vecchio Apollinario… che mi incoraggiò a scrivere questo diario. Accadde in una notte di primavera, non molto tempo fa, quando pianse tra le mie braccia come un bambino, e io desiderai poter mescolare le mie lacrime alle sue. Ma io non ho più lacrime. Versai le mie ultime una notte, sembra una vita ormai, in Moesia, vicino al Mar Nero, per un affascinante generale romano.

Era una notte di pioggia e mi svegliai al frenetico bussare alla porta del mio appartamento. Ero sola, perché Nicia, la mia domestica, tornava ogni sera da suo marito... e nell’appartamento dell’uomo che oggi chiamo “marito”. Ero sola come volevo essere ogni sera, quando il sole tramonta oltre l’orizzonte e le ombre avvolgono la città. In quelle sere, sedevo nella mia camera da letto con il lume e i miei libri, e i miei ricordi di un uomo dagli occhi blu.

Presi il lume e andai alla porta, che aprii, trovando il mio sempre elegante istitutore ed amico macchiato di fango e sangue, i ricercati abiti strappati, i capelli scarmigliati e gli occhi rossi e gonfi. Dato che rimanevo sulla soglia assolutamente stupita, Apollinario mi guardò e disse fra strazianti singhiozzi:
- Giulia, oh Giulia! Ippolito è morto!

Fui colpita nel sentire della morte del suo giovane e bell’amante, ma prima che potessi chiedergli com’era accaduto, egli mi cadde tra le braccia piangendo come un bambino. Quando infine riuscì a parlare, Apollinario mi disse che il ragazzo, che aveva solo diciott’anni, era stato calpestato dagli zoccoli dei cavalli di un gruppo di ubriachi che uscivano da una taverna, le leggi della città permettendo l’uso di andare a cavallo nelle vie ad ore tarde.

Apollinario e io trascorremmo quel che restava della notte spartendoci un divano nella mia anticamera, bevendo vino speziato e parlando. O forse dovrei dire che lui parlò e io ascoltai e ogni tanto, quand’era sopraffatto dal suo dolore, io lo abbracciavo come fosse stato il bambino che desidero ardentemente ma non avrò mai.

Povero, caro Apollinario! La morte d’Ippolito era un altro legame fra noi, entrambi nati schiavi, entrambi costretti ad una vita disumana e senza amore fin da tenerissima età, entrambi liberati dalla generosità di uomini potenti e compassionevoli, entrambi lasciati soli a rifarsi una nuova vita, entrambi innamoratissimi dei libri e della storia e della bellezza... entrambi molto soli ed ora entrambi a condividere la perdita del nostro amato, lui a causa della morte, io a causa dell’onore e di un’altra donna.

La pioggia smise all’alba e per allora eravamo tutt’e due esausti e più che un poco brilli. Poco prima di cadere addormentato, Apollinario mi guardò con i suoi occhi nocciola belli ed ora addolorati, e disse:
- Conosco molte cose della tua vita passata, Giulia. Molte cose tranne una: che cosa ti ha fatto lui, per renderti così triste? - Cercai di protestare, di negare la verità che egli aveva visto oltre le pareti che avevo eretto intorno a me fin dal mio ritorno a Roma. Ma Apollinario mi zittì con un gesto della mano. - No, Giulia, - disse. - Non provarci nemmeno, a negarlo. Ti vidi addolorata per lui fin dalla prima volta che t’incontrai. E no, non occorre che tu mi riponda. Ma trova un modo per dar sfogo a ciò che hai nel cuore o farai del male a te stessa più profondamente di quanto fece lui.

Subito dopo, Apollinario s’addormentò tra le mie braccia e io lo seguii nell’oblio. Quando ci svegliammo, eravamo piuttosto imbarazzati e ci affrettammo a preparare il funerale d’Ippolito per evitare di parlare della notte precedente. Per lui, era stata la prima notte della sua vita… e, per quanto ne sappia, l’unica… in cui aveva dormito con una donna. Per me, la seconda in cui avevo dormito tra le braccia di un uomo con il quale non avevo condiviso il mio corpo. Apollinario non aveva bisogno di me in quel senso ma, quella notte in Moesia, l’altro uomo mi aveva desiderata tanto quanto io avevo desiderato lui. Tuttavia, egli aveva rifiutato di prendere quel poco che avevo da offrirgli allora, abbandonandomi senza il conforto del ricordo della sua carne.

Così, subito dopo il funerale d’Ippolito, tornai al mio appartamento e cominciai a scrivere. All’inizio, fu un tentativo impacciato e doloroso. La mia penna sembrava andare in un senso mentre la mia mente andava alla deriva in un altro. Avevo tanta vergogna di mettere in parole ciò che realmente volevo e avevo un gran bisogno di dire! Così, invece di scrivere di ciò che c’era davvero nel mio cuore, cercai più volte di scrivere della poetica di Ovidio e Catullo o della mia opinione su questa o quella tragedia greca.

Alcuni mesi più tardi, ricevetti la più inattesa delle visite: uno dei miei vicini, Mario Servilio Tibullo venne al mio appartamento e mi fece un’offerta di matrimonio. Era un ricco costruttore di navi che trascorreva la maggior parte del tempo nei suoi cantieri navali e nei porti dell’impero, ma aveva un appartamento nella mia stessa palazzina, poiché ritornava a Roma ogni pochi mesi per seguire gli affari. La mia domestica ed il marito sorvegliavano il suo appartamento, che si trovava direttamente sotto il mio, al primo piano della palazzina, e quella era la ragione per cui avevo potuto assumere Nicia senza doverle dare alloggio.

Vidi quell’uomo per la prima volta subito dopo il suo ritorno a Roma, dopo un anno e mezzo di viaggi da un cantiere navale all’altro, quando i nostri passi s’incrociarono all’entrata della palazzina. Stavo andando al mercato con Nicia e lui stava entrando nel proprio appartamento. Mi salutò educatamente e scambiò qualche parola con Nicia, ma il suo sguardò non mi lasciò mai. Poco tempo dopo, la mia domestica mi disse che Mario Servilio Tibullo aveva fatto molte domande su di me. Inoltre disse che l’uomo era vedovo da molti anni, non aveva figli o altra famiglia e, sebbene il suo appartamento romano fosse semplice, lui era molto ricco e preferiva vivere nella sua tenuta vicino al mare. Accantonai le parole di Nicia ed anche l’interesse di Mario Servilio Tibullo, sebbene lo incontrassi di quando in quando, e un paio di volte trovai sul mio tavolo un’anfora di eccellente vino Cecubo
(*), un costoso regalo più adatto ad un conoscente d’affari che ad una donna, ma non così inadatto da costringere a restituirlo.

Benché informata del suo interesse, la sua proposta mi prese alla sprovvista. Mai avevo pensato a me stessa come ad una donna sposata e rifiutai la sua offerta, ma egli insisté ed alla fine mi convinse a diventare sua moglie. Anche se le mie nozze furono una cerimonia riservata e semplice, esse riuscirono ad allontanarmi dallo scrivere per dei mesi, e non fu che dopo mesi, quando ci sistemammo nella sua tenuta vicino al mare e io imparai a dirigerla propriamente, come richiedeva la mia nuova condizione sociale, che cominciai di nuovo a scrivere. Ma era ancora lo stesso esercizio goffo, sterile, vuoto...

E poi, accadde.

Quella sera, stavamo cenando con alcuni soci di Mario Servilio e le loro mogli. La sala da pranzo era piena di vita per le risate e la conversazione e poi, all’improvviso, udii il suo nome. Da quando ci eravamo sposati, a mio marito piaceva invitare i suoi amici e soci in visita e a pranzare, perché sostiene che ricevere è qualcosa che un uomo da solo non riesce né a gestire in modo appropriato né a godersi. In altra occasione, sarei stata intimorita all’idea di dirigere la sua casa e la sua proprietà e anche di essere incaricata di organizzare i suoi banchetti. Ma Apollinario mi aveva insegnato bene e anche se la mia vita passata era stata molto diversa da quella che vivo oggi, alcune delle competenze acquisite in quei giorni terribili si rivelarono non soltanto non essere ignobili, ma addirittura utili. E, soprattutto, non sono più la vecchia Giulia, la ragazza spaventata e confusa che tremò e pianse tra le braccia di un generale romano, ma una donna che è riuscita a sopravvivere sia alla schiavitù che alla libertà e che è riuscita anche a sopravvivere sia alla prostituzione che all’amore... e all’essere respinta. Era questa nuova Giulia che aveva acconsentito a sposare un uomo che conosceva a mala pena; che da sola e a passo fermo aveva camminato alle proprie nozze; che non si era tirata indietro alla vista di quella proprietà enorme e costosa o della dimensione della sua servitù e ne aveva invece preso in mano la conduzione senza difficoltà e con efficienza, per l’orgoglio e piacere del marito. E, da quella notte, questa Giulia… così disinvolta nel comandare… è stato la rispettata Domina, la bella, remota ed impeccabile signora della casa di Mario Servilio Tibullo.

Quanto tempo era trascorso da quando ci eravamo detti addio alle prime luci dell’alba? Quanto tempo era trascorso da quando avevo udito le sue ultime parole, da quando avevo udito la sua voce bella e profonda?

Due anni. Due anni da quando mi ero allontanata da lui a cavallo, senza osare voltare la testa per un’ultima occhiata, temendo di non riuscire a costringere me stessa a proseguire, se l’avessi fatto, temendo di perdere qualunque controllo avessi ancora e di gettarmi ai suoi piedi supplicandolo di non farmi andare via, di tenermi con sé, di permettermi unicamente di rimanergli vicino e di abbeverarmi alla sua bontà e forza dopo una vita di schiavitù e soprusi e solitudine... temendo di voltare la testa solo per scoprire che lui mi aveva semplicemente congedata e non era là a guardarmi andare via dalla Moesia e dalla sua vita....

Mio marito ed il suo socio stavano parlando di politica e guerra, entrambe molto importanti per loro ed i loro affari, poiché Mario Servilio è un ricco costruttore navale che accresce ogni anno la sua ricchezza anche trasportando e vendendo rifornimenti per le legioni. Stavano parlando delle guerre senza fine alla frontiera settentrionale, quando il socio di Mario Servilio accennò che le tribù germaniche dovevano essere molto più scaltre e coraggiose di quanto si pensasse, se un uomo come il generale romano al comando di quel lontano confine dell’impero non era riuscito a sottometterle completamente. Questo generale, disse, era il comandante d’esercito prediletto dell’imperatore, il suo valore e le sue capacità militari tanto leggendari quanto l’ardente lealtà che ispirava nei suoi uomini. Continuarono a parlare sorseggiando il vino, mentre i servi si occupavano di noi e io continuai a parlare con le donne, che chiacchieravano di bambini e gravidanze e delle belle sete che una delle navi di mio marito aveva appena portato, ma la mia mente non era sulla conversazione, ma di nuovo in Moesia, vicino al Mar Nero.

Lo vidi chiaramente come se fosse entrato nella sala da pranzo con il suo passo disinvolto e sicuro di sé, allo stesso modo in cui era entrato nella mia vita... e altresì l’aveva lasciata. Lo vidi come l’avevo visto l’ultima volta, magnifico nell’uniforme di generale, i suoi sorprendenti occhi azzurri che mi fissavano accesi, la sua bella voce profonda che mi rassicurava come aveva fatto la notte in cui avevo dormito tra le sue braccia. Mentre le donne chiacchieravano intorno a me, io mi sforzavo di ascoltare ciò di cui Mario Servilio ed il suo amico stavano parlando, ma potei soltanto cogliere qualche parola qua e là mentre mi obbligavo ad essere la piacevole ospite e la perfetta signora che sono oggi, una donna che nessuno avrebbe sospettato essere un’ex schiava e prostituta. Ma sebbene riuscissi a udire ben poco della loro conversazione, colsi proprio l’informazione che stava per spingermi a fare l’impensabile. Perché il socio di Mario Servilio accennò che il potente generale romano teneva il suo quartier generale all’accampamento della sua legione in Germania, in un luogo chiamato Vindobona.

Non ricordo come si concluse il banchetto o come tornai quella notte nei miei sontuosi appartamenti, gli appartamenti dove mi ritiro appena posso per godere il silenzio e la solitudine, e la lettura e la scrittura in compagnia dei miei gatti. Ricordo soltanto che l’espressione corrucciata di mio marito, quando gli augurai la buonanotte, mi fece capire che dovevo sembrare sconvolta. Ricordo soltanto che giacqui insonne un’ora dopo l’altra, rievocando ancora una volta i miei ricordi dell’uomo che aveva condiviso brevemente la mia vita e per sempre l’aveva cambiata, rammentando ogni parola che avevamo scambiato, ogni sguardo, i pochi baci e carezze rubati, il fuoco che scaturiva fra noi ogni volta che i nostri corpi si toccavano.

Sapete cosa accade quando osate amare un dio? E’ una cosa splendida, bella, diversa da qualunque cosa abbiate mai provato prima... e brucia, le fiamme vi trasformano in ceneri e non vi è vento abbastanza forte da disperderle e rendervi liberi. Perché è una sorta di asservimento del tutto differente da quello sperimentato da semplici uomini e donne, da semplici schiavi e padroni. Ecco quel che accadde a me quando osai amare un uomo che era anche un dio. Un uomo troppo buono per essere un semplice mortale. Un dio troppo umano per essere una vuota divinità.

Quando arrivò il mattino, congedai le mie domestiche e rimasi nei miei appartamenti, informando mio marito che non stavo bene. Poiché non ero mai stata ammalata da quando ci eravamo sposati, Mario Servilio era preoccupato e voleva mandare a chiamare il suo medico, ma io gli feci sapere che era soltanto una leggera indisposizione femminile e che non era il caso di discuterne ulteriormente. Rimasi per delle ore sul divano che tengo sulla terrazza aperta, fuori dei miei appartamenti, senza vedere la vista magnifica della città e del mare, ignorando le birichinate dei miei gatti che si scatenavano giocando fra gli alberi in vaso e le piante in fioritura. La mia mente era concentrata solo su di lui. Durante i due anni trascorsi da quando ci eravamo detti addio, avevo creduto di aver imparato a vivere senza di lui, pur non avendo mai smesso di pensare a lui. Ma improvvisamente, ero sopraffatta dal bisogno di vederlo, di essergli vicina, di parlare con lui, di guardarlo negli occhi e scoprire che cosa pensava di questa nuova Giulia che non era né schiava né prostituta, che non era più una ragazza confusa e spaventata, ma una donna adulta, fiera, sicura di sé, oltre che  ricca e libera ed istruita... una donna adatta ad essere la moglie di un uomo del suo alto ceto.

Il sole stava calando oltre l’orizzonte quando ritornai nei miei appartamenti, sedetti al mio scrittoio, presi qualche papiro e una penna e cominciai a scrivere una lettera, la prima lettera personale che avessi mai scritto, dato che non ho nessuno a cui scrivere tranne Apollinario, ed il mio caro, ex istitutore passa la maggior parte del suo tempo vicino a me, il suo desiderio di viaggiare saziato anni fa.

Con mano ferma scrissi, nello stile formale che si confaceva alla corrispondenza fra una donna sposata ed un uomo che non è suo marito, un breve resoconto di che cosa mi era accaduto durante gli ultimi due anni, richiamandogli indirettamente alla memoria certe cose che erano un segreto nostro e nostro soltanto. Lo informai anche del mio status di donna sposata, della confortevole posizione di cui ora godevo, e lo ringraziai per essere stato colui che aveva reso possibile tutto ciò.

Quando finii, arrotolai la lettera e la sigillai con il sigillo che mio marito mi diede il giorno delle nostre nozze, perché lo usassi quando mi occupavo degli affari della casa e della tenuta. Lo tengo in un piccolo cofano sul mio scrittoio, sempre a portata di mano… diversamente dall’altro sigillo che rimane nascosto e della cui esistenza nemmeno Apollinario è a conoscenza. Riponendo la lettera nel baule che tengo sempre chiuso, andai al nascondiglio, la buca segreta dove avevo posto l’altro sigillo subito dopo il mio arrivo in questa casa. Non lo vedevo da lungo tempo, ma ora avevo bisogno di vederlo ancora. Avevo bisogno di vederlo tanto quanto avevo bisogno di vedere l’uomo dagli occhi azzurri che mi aveva cambiata per sempre. Mi inginocchiai sul pavimento coperto da un tappeto, vicino al mio letto a baldacchino, e soppesai nella mano il piccolo involto, prima di aprire il sacchetto di velluto viola… la proibita porpora imperiale… e rivelare il pesante anello d’oro che una volta aveva ornato la mano dell’uomo più potente del mondo. L’anello che mi avrebbe concesso qualunque cosa volessi o di cui avessi bisogno, in qualunque momento avessi voluto o avessi avuto bisogno...

Eppure, tutto il potere del grande imperatore romano non era stato sufficiente a darmi l’unica cosa che realmente volevo: l’amore di un uomo innamorato dell’onore e della propria moglie.

Rimisi l’anello nel sacchetto di velluto, lo restituii al suo nascondiglio e andai a letto.

Per spedire la lettera a Vindobona, dovetti attendere finché potei ritornare in città e ciò accadde solo due settimane più tardi. Un pomeriggio, subito dopo essermi  sistemata di nuovo nell’appartamento di mio marito, uscii sulla mia portantina e mi recai in visita da Emilio Trebuzio Flacco, il banchiere incaricato di aiutarmi a stabilirmi a Roma quando ero tornata nell’Urbe da donna libera. Come sempre, l’uomo mi ricevette con grande deferenza, dal momento che la mia prima visita non aveva lasciato dubbio sulla mia importanza, una diciottenne dai capelli rossi comparsa alla sua porta scortata da sei pretoriani ed un questore, con una lettera suggellata dal sigillo personale dell’imperatore Marco Aurelio. Il banchiere mandò a prendere del vino e dolci di miele e scambiammo convenevoli per qualche minuto prima che io estraessi la lettera dalle pieghe della mia palla (**). Se fosse sorpreso dalla natura del servizio che gli chiedevo, non lo mostrò, e non soltanto mi assicurò che la lettera sarebbe partita immediatamente, ma aggiunse anche che sarebbe stato fatto con assoluta discrezione, e quando fosse giunta la risposta, in eguale maniera sarei stata informata. Rifiutò persino di farsi pagare, dicendo d’essere onorato di poter essere di aiuto a una gran signora come me. Lo ringraziai e ritornai a casa in fretta.

Dopo il mio rientro a casa cominciò la parte peggiore. Poiché avevo fatto tutto il possibile: avevo scritto la lettera e l’avevo inviata al lontano confine dove il generale era accampato ed ora non v’era altro da fare che attendere. Attendere la sua risposta, attendere il messaggio da parte di Emilio Trebuzio Flacco, attendere il momento, mesi a venire, quando avrei rotto il suo sigillo militare e letto le sue parole. Attendere, e nel frattempo ricordare e sognare e continuare a vivere un giorno dopo l’altro, svolgendo le mie mansioni, riempiendo pagine con le mie riflessioni sulla poesia ed il teatro e leggendo i lavori di storici e filosofi mentre distrattamente accarezzo i miei gatti. Sono passati mesi da quando mandai la mia lettera a Vindobona e l’attesa non è finita. Sono passati mesi da allora e attendere è ancora l’unica cosa che posso fare. Attendere e andare avanti, riempiendo una sterile pagina dopo l’altra e facendomi forza ogni volta che qualcuno chiama alla porta, facendomi forza contro la speranza che sia lui a chiamare. Che sia venuto da me. Che sia venuto per me.

Estate ed autunno passarono. I Saturnali arrivarono e se n’andarono e cominciò l’inverno, con i suoi venti freddi e le sue piogge anche più fredde. Rimanemmo in città, i porti chiusi fino a primavera, il cielo grigio, il tempo freddo particolarmente fastidioso per mio marito, ma la natura dei suoi affari c’impediva di recarci a sud verso un clima più mite. Isolati nel suo appartamento, ricevevamo pochi ospiti, e io accolsi favorevolmente il cambiamento, tenendomi in disparte, caparbiamente leggendo alla luce delle lanterne e al calore dei bracieri, con i miei gatti che sonnecchiavano intorno a me o persino sul mio grembo, caparbiamente scrivendo di tutto e di niente, caparbiamente evitando la verità mentre l’inverno sfumava in una mite primavera.

Fino alla notte scorsa, quando ho sognato ancora una volta il generale romano e mi sono svegliata boccheggiando in cerca d’aria, il cuore che mi faceva così male da pensare si spezzasse. Nel mio sogno, egli mi carezzava teneramente la guancia con le sue dita incallite dalla spada e io giravo il viso per baciare il palmo della sua mano forte e calda. Sorrideva, quel suo sorriso dolce e fanciullesco… un sorriso che cancellava le rughe che anni di preoccupazione e responsabilità avevano portato sul suo bel viso e lo faceva sembrare tanto giovane e incurante ed anche un poco vulnerabile… mentre bisbigliava:
- Giulia.... -

Fu il rombo profondo della sua voce a svegliarmi. Il mio nome sembrava echeggiare nell’oscurità della mia camera, tanto vividi erano stati il suono della sua voce e il calore della sua presenza. Rimasi a lungo con gli occhi chiusi, cercando di calmare il mio respiro e lottando contro calde lacrime e poi mi alzai e accesi una lampada, cercai un papiro e dell’inchiostro e, malgrado fosse una notte fredda, per essere aprile, mi sedetti e scrissi fino all’alba.

Ed ecco come infine scrissi di me, della vera me, e del generale Massimo Decimo Meridio, generale delle legioni Felix, comandante degli eserciti del Nord, l’uomo che mi ha reso colei che attualmente sono, l’unico uomo che io abbia mai amato, l’unico uomo che mai amerò.




(*)           “In antico era celebrato dai poeti il Cecubo, che veniva prodotto nelle zone comprese tra Terracina, Fondi e Formia. Vino ritenuto erotizzante; Gabriele d'Annunzio scrive nelle Laudi: "il vecchio / Cecubo porta, e rompi la tua rigida / virtù."” (cfr. L’Italia di Veronelli http://www.veronelli.com/regioni/lazio_vini.htm) (N.d.T.).

 

(**)         Indumento, simile alla toga maschile, indossato dalle donne romane quando si mostravano in pubblico (cfr. La vita quotidiana nella Roma Antica http://www.italiadonna.it/public/percorsi/01052/0105224b.htm (N.d.T.).




Capitolo 90 - Il visitatore

In giugno l’imperatore decise di fare un giro degli accampamenti e delle fortezze lungo la frontiera settentrionale e decise di portare con sé suo figlio, dopo un certo incoraggiamento da parte di Massimo. C’erano state parecchie piccole schermaglie con le tribù germaniche, affrontate con facilità dalle legioni, ma vi erano tuttora voci di guerra su grande scala e Marco Aurelio voleva  verificare da sé che tutto fosse in ordine, come pure rafforzare il morale dei soldati con la sua presenza.

Sebbene lui e Massimo avessero cenato spesso insieme nei mesi precedenti, l’argomento della successione non era stato risollevato, con gran sollievo di Massimo, ed egli cominciò a rilassarsi. In assenza dell’imperatore, Massimo rivolse la sua attenzione nell’accertarsi che le linee di comunicazione con il resto dell’impero rimanessero aperte in caso di guerra, stabilendo molteplici itinerari via terra e via acqua. Trasmise missive in tutte le regioni dell’impero a titolo d’esperimento, e misurò in quanto tempo otteneva le risposte. Provò ad ostruire a caso gli itinerari per verificare le capacità dei corrieri di ristabilire i collegamenti con le altre linee. Ciò che vide gli piacque.

Anche se sommerso dalla posta sperimentale, cercò lo stesso di scovare le lettere regolari della moglie, leggendole sempre per prime, avido di notizie su suo figlio e la sua casa. Anche Olivia continuava ad accludere preziosi disegni che registravano la rapida crescita del loro figlio.

All’inizio di agosto, le lettere di lei si bloccarono. Pensando inizialmente che ci fosse stato un errore tra le comunicazioni, Massimo inviò una lettera alla legione di Emerita Augusta. Ottenne una rapida risposta nel giro di tre settimane. Allarmato, Massimo spedì in fretta un’altra lettera alla legione in Ispania, chiedendo la cortesia di controllare la sua famiglia nelle colline sopra la città, ma la lettera seguente di Olivia arrivò all’inizio di settembre, prima della risposta dalla legione. Era una breve nota, per niente simile alle sue consuete divagazioni, e Massimo rimase inquieto. Espresse le sue preoccupazioni in un’altra lettera, chiedendole se ci fosse qualcosa che non andava o la preoccupasse. La risposta di lei, alla fine di settembre, fu evasiva. Entro ottobre, tuttavia, tutto sembrò tornare alla normalità e le sue preoccupazioni per la famiglia poterono infine essere spinte nel dimenticatoio permettendogli di concentrarsi, ancora una volta, sui problemi in Germania.

Nei mesi successivi, Massimo prevenne e contrastò numerosi tentativi da parte dei Catti di attraversare il Danubio e distruggere gli accampamenti e i villaggi romani. I guerrieri morirono a centinaia e altrettanti furono catturati, con la perdita di poche vite romane. Fino a quel momento, i romani che risiedevano nel Nord avevano potuto vivere relativamente liberi dalla paura d’invasioni e lo spirito dei soldati romani era alto.

Un luminoso giorno di dicembre, di ritorno dal pattugliamento del fiume, Massimo fu sorpreso di trovare un visitatore ad attenderlo. In un primo momento, Massimo non riconobbe il barbuto ometto dalla pelle scura che indossava una tunica dalle linee morbide, ma poi il suo viso si aprì in un largo sorriso.
- Settimio Severo! A che cosa devo l’onore di questa visita?

Settimio si alzò per salutare il generale stringendogli la mano con entusiasmo.
- Massimo, mi fa davvero piacere rivederti. Le corti (*), a Roma, hanno chiuso per i consueti due mesi e così ho deciso di viaggiare un po’.

- Le corti?

- Sì... Faccio il pretore, a Roma.

- Bene, congratulazioni, - disse Massimo facendogli segno di sedersi e prendendo una sedia anche per sé.

- Grazie. E’ una posizione da cui progredire gradualmente.

Massimo aggrottò leggermente la fronte.
- E’ una posizione molto importante, credo.

- Oh, non volevo sminuire l’importanza della giustizia romana, ma certamente non è una posizione di potere. Mi tiene molto occupato, comunque.

Massimo annuì quando Cicero portò loro dei rinfreschi.
- Non v’è alcun dubbio che i tuoi alloggi siano un po’ più confortevoli di questi, tuttavia.

Settimio sorrise.
- Non vivo in una tenda, ma lascerei il mio ricco appartamento a Roma, per avere una posizione come la tua. Tu sei un uomo che fa la differenza per il destino dell’impero. Io no.

- Faccio solo il mio lavoro.

- Non essere così modesto, generale. E’ conoscenza abbastanza comune che l’imperatore ti tiene in altissima stima. Il che... unito all’innegabile lealtà dell’esercito... fa di te un uomo molto potente, di fatto.

Massimo lo osservò con aria pensierosa.
- Settimio, quando l’imperatore un giorno mi esonererà dai miei doveri, intendo ritornare da mia  moglie e mio figlio in Ispania.

Il pretore ne fu veramente sbalordito.
- Massimo, di sicuro non stai cercando di dirmi che non hai nemmeno contemplato l’idea di un futuro a Roma... come senatore per lo meno. Faresti il tuo ingresso a Roma come un eroe e saresti riverito dal popolo.

- Preferisco veder crescere mio figlio libero e forte. Sei sposato, Settimio?

- Sì. Il nome di mia moglie è Paccia Marciana. Non mi sono sposato che piuttosto di recente.

- Hai figli?

- Non ancora. Ti invidio tuo figlio.

- E’ la cosa più meravigliosa del mondo, avere figli. Molto più importante per me che qualsiasi posizione a Roma.

- La tua famiglia si trasferirebbe con te, naturalmente.

Massimo incrociò la caviglia sopra il ginocchio e studiò il suo compagno.
- Non ti manca l’Africa?

- Naturalmente. Ma la mia famiglia ora è sparpagliata. Uno dei motivi per cui ho intrapreso questo viaggio era far visita a mio fratello, Geta. E’ il nuovo legato della legione Italica I, nell’Italia Settentrionale, al comando di Pertinace. Lo invidio. Spero in una promozione al comando di una legione in Siria. Ad ogni modo, dopo avere viaggiato tanto lontano ho deciso di continuare a  vedere da me la situazione in Germania. Dov’è l’imperatore?

- Da qualche parte lungo il Danubio orientale. A Vindobona, penso. Ha suo figlio con sé e dovrebbe tornare presto.

- Commodo.

 - Sì. Commodo.

- E di lui che cosa pensi, generale?

Massimo squadrò Settimio con una certa cautela.
- Non è compito mio esprimere un’opinione riguardo il figlio dell’imperatore.

- Non è compito di nessuno, ma tutti lo facciamo, no?

Massimo rimase in silenzio, un sorriso indecifrabile sul viso.

Settimio rise.
- D’accordo. Non ti farò pressioni.

- Quanto tempo ti piacerebbe restare con la Felix III, Settimio?

- Alcuni giorni, se non è un fastidio.

- Nessun fastidio. - Massimo fece segno a Cicero e gli disse: - Prepara la tenda di fianco a quella dell’imperatore. - Cicero annuì e uscì per adempiere il comando di Massimo.

- Ho dato uno sguardo veloce qui intorno prima che tu arrivassi. Vedo che la prigione è piena, - commentò il pretore.

- Abbiamo preso molti uomini nell’ultima schermaglia. Il loro attacco non era affatto ben organizzato… quasi improvvisato… ed hanno pagato un caro prezzo.

- Bene, non so dirti quanto sia felice che le arene di Roma avranno presto un nuovo afflusso di gladiatori. Sono il responsabile dell’allestimento dei giochi a Roma, e la cosa si è trasformata in un affare delicato, lasciamelo dire. Molto costoso... e c’è una terribile carenza di combattenti.

- Ti piacciono i giochi?

- Certamente. Sono un piacevole diversivo. E a te, generale?

- Non ne ho mai visto uno.

Settimio rise.
- Sei un uomo insolito. Perché non li hai mai visti? Ci sono arene in Ispania.

- Sì, ma i miei genitori non vi hanno mai assistito quando ero ragazzo, e dopo che diventai soldato, il pensiero di vedere morire un uomo per intrattenimento mi ripugnava. La morte non è divertente.

- Dipende da quale lato della spada sei, credo, - ridacchiò Settimio.

Massimo stava cominciando ad averlo in antipatia. Soffocò uno sbadiglio evidente e si strofinò la  fronte prima di dire con enfasi:
- No, affatto.

Cicero ravvisò l’imbeccata.
- Scusami, generale, ma la tenda dell’ospite è pronta.

Le sopracciglia di Settimio si alzarono.
- Così presto?

- E’ molto efficiente, - spiegò Massimo alzandosi e indicando al suo ospite di  seguirlo.

Mentre Massimo si preparava ad augurargli la buona notte davanti alla sua tenda, Settimio gli afferrò l’avambraccio. Si chinò in avanti e disse in un bisbiglio cospiratorio:
- Generale, potrei far uso della compagnia di una donna, stanotte. E’ stato un lungo viaggio, se sai cosa intendo. - L’uomo fece l’occhiolino a Massimo per mostrare il suo cameratismo con quel generale virile.

- Non ci sono donne nell’accampamento, Settimio.

- Nei paraggi, allora?

- Veramente... no.

Settimio era sbalordito.
- Ragazze schiave? Certamente ci sono delle ragazze schiave. Chi ci tieni in quella prigione?

- Solo guerrieri. Noi non catturiamo le loro donne.

Settimio alzò lo sguardo a fissare Massimo e scosse la testa incredulo.
- Sei davvero un uomo insolito, generale.

- Spero di no, Settimio. Buon riposo. Ti vedrò domattina a colazione.


(*) Tribunali (N.d.T.)


Diario di Giulia: La mia infanzia nella tenuta di Avidio Cassio