La Storia di Glauco: Prologo
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Inizi
di gennaio, 180 d.C.
Ispania
- Adesso assicurati che si riposi molto, stia all’aria aperta e che mangi
bene. Ho portato verdure e latte…
- Sì, sì, Olivia. Anche noi qui abbiamo verdure e latte, sai, - disse
un’esasperata Augusta, le mani sui fianchi mentre osservava la cognata.
- Lo so, - rispose Olivia, - ma lui è abituato alle verdure del nostro
podere e io non voglio rischiare di disturbargli lo stomaco…
- Olivia, il bambino starà benone. Ti preoccupi davvero molto, troppo, per quel
bambino. Guarda com’è sano. Anche se si prendesse il raffreddore di Marco, non
gli farà alcun danno. Ogni bambino prende il raffreddore e non lo uc… - Augusta
si morsicò la lingua alle parole "uccide" prima di farsele sfuggire
di bocca, non desiderando accrescere la preoccupazione di Olivia per il suo
figlio più piccolo. Augusta prese il gorgogliante bimbetto dalle braccia della
madre e se lo appoggiò sull’anca. Tirandogli via le dita dalla bocca, gli baciò
il nasino, poi i soffici riccioli castano chiaro. Glauco passava così tanto
tempo con lei che ella aveva quasi cominciato a pensare a lui come ad un
proprio figlio. Fiduciosi occhi verdi scintillando le restituirono lo sguardo e
Augusta pensò, non per la prima volta, che il bimbo aveva un nome adatto.
Massimo Decimo Glauco… il prenome "occhi verdi" a distinguerlo dal
suo grande padre, Massimo Decimo Meridio. Ella rimise in piedi il robusto bimbo
di due anni e con affetto gli diede un colpetto sul sederino.
- Adesso via, va’ a giocare con tuo cugino, Glauco, mentre io continuo a
cucinare. Ci saranno tortine di mela per cena.
Le due donne guardarono il bambino correre nella stanza accanto, dove fu
salutato con calore dai tre cugini più grandi. I quattro bambini immediatamente
diedero vita ad un così gioioso vociare che Augusta si coprì le orecchie e
volse gli occhi al cielo, fingendo di essere irritata.
Olivia sapeva che sua cognata amava il piccolo Glauco quasi quanto lei.
- Tienigli gli occhi addosso, Augusta, per favore, - supplicò Olivia.
- Oh, d’accordo, d’accordo. Davvero, Olivia, sei fin troppo protettiva quando
si tratta di quel bambino.
Tito si gettò scivoloni in cucina e sbatté la porta proprio mentre due cuscini
vi andavano a sbattere dall’altro lato. Si asciugò la fronte con finto
sollievo.
- Vedo che Glauco è tornato. Che cosa c’è stavolta? Marco ha di nuovo la tosse?
- scherzò.
Olivia ignorò il fratello e andò verso la porta.
- Tornerò a prenderlo non appena Marco starà meglio. Grazie, ancora una volta,
perché badate a lui. Lo apprezzo veramente.
Tito lanciò un’occhiata alla moglie che mosse la testa in modo eloquente in
direzione di Olivia, poi egli seguì la sorella fuori nell’aria fresca del
pomeriggio.
- Olivia. - Afferrò un braccio della sorella, obbligandola a voltarsi e a
guardarlo in viso, e disse a voce bassa. - Non hai ancora scritto a Massimo?
Olivia sollevò il mento con aria di sfida, sapendo cosa stava per dirle.
- Non faccio che scrivergli.
Tito sospirò.
- Sto parlando del bambino, e lo sai. Non hai ancora detto a Massimo che ha un
altro figlio?
- No.
- Olivia, mi avevi promesso che l’avresti fatto.
- Io… ci ho pensato molto, Tito, e proprio non ci riesco.
- Ma perché? Il bimbo è sano e non rischia di morire, anche se tu pensi che
ogni febbriciattola possa ucciderlo. Non è giusto non informare Massimo della
cosa.
- Tito, tu non capisci quanto la morte di nostra figlia abbia devastato
Massimo. E’ stato terribile per lui scoprirlo in quel modo… tanto lontano da
casa e dalle persone che ama. Lo ha ferito tanto. Me ne sono resa conto io
stessa in Germania. Io… io non posso rischiare di fargli questo un’altra volta.
Vive con la paura di perdere un altro figlio. Disse che la cosa l’avrebbe
ucciso. Quando Marco si ammalò in Germania, Massimo disse che sarebbe morto se
avesse perso un altro figlio.
- Olivia, posso capire perché non gli hai parlato del bambino finché non fosse
fuor di dubbio che sarebbe vissuto… e davvero all’inizio la sua salute era
piuttosto precaria, ma ne è uscito indenne. Ebbene, è sano come qualunque altro
bambino e non gli accadrà nulla.
- Potrebbe bere dell’acqua cattiva e morire; potrebbe cadere in un pozzo
e morire; potrebbe essere colpito dal calcio di un cavallo e morire…
Tito la scosse.
- Smettila. Smettila di pensare queste cose.
Le lacrime luccicarono negli occhi scuri di Olivia.
- Non capisci, Tito? E’ meglio che Massimo rimanga sorpreso da un figlio sano e
bello la prossima volta che torna a casa, piuttosto che aspettarsene uno e
scoprire che gli è accaduto qualcosa di orribile. Io… io non posso sopportare
di far soffrire ancora in quel modo Massimo e deluderlo ancora. - Un singhiozzo
le si fermò in gola. - Mi manca moltissimo.
Tito se la tirò contro il petto. Poteva comprendere a malapena come fosse la
vita di sua sorella, con il marito così lontano, a volte via per anni. Niente
nella vita di lei era certo, nemmeno che Massimo sarebbe mai tornato a casa.
Strofinò la guancia contro i capelli di lei.
- Quanto tempo è passato?
- Quasi tre anni, per l’esattezza.
- Hai avuto sue notizie ultimamente?
- Ho ricevuto una lettera proprio ieri. Le sue legioni stanno combattendo di
nuovo le tribù, ma ha grande speranza che la guerra sia presto finita e che
possa tornare a casa per sempre. - Olivia allontanò Tito e lo scrutò in viso in
cerca di comprensione. - Riesci ad immaginare quale dono sarebbe per lui venire
a casa e scoprire non un solo figlio, ma due? E Glauco gli somiglia moltissimo.
- Sì, davvero molto. Spero solo che Massimo, una volta superata la gioia
iniziale, non s’infuri troppo con noi per avere tenuto segreto il bambino. Non
mi carezza l’idea di aver a che fare con la collera di quel Massimo,
lasciamelo dire.
- Gli sarà impossibile essere arrabbiato quando vedrà Glauco e lo terrà tra le
braccia. - Olivia chiuse gli occhi e sorrise. - Oh, non vedo l’ora che arrivi
quel giorno.
Tito non era ancora convinto.
- Olivia, e se quel giorno non arrivasse per molti anni? - Tito sollevò una
mano per zittirla. - E se la guerra durasse più a lungo di quanto Massimo
prevede e lui non facesse ritorno a casa per moltissimo tempo? Glauco sarebbe
grande abbastanza, per quel momento, da apprendere di suo padre… specialmente
per mezzo di Marco… e avrà ogni sorta di domanda. E’ giusto per il bambino
che suo padre non sappia nulla di lui?
- Affronterò questa possibilità se accadesse. Scelgo di credere che Massimo
sarà presto a casa, Tito, e saremo di nuovo una famiglia. Aspetta soltanto, e
vedrai.
Olivia gli sfiorò la guancia con un bacio e si diresse al suo carro prima che
Tito potesse esprimere ulteriori obiezioni.
Tito guardò finché il carro scomparve e la polvere si depose di nuovo sulla
strada, poi si domandò ad alta voce.
- E se Massimo morisse in battaglia? Morirebbe senza sapere di avere un figlio
che porta il suo nome. - Scosse la testa tristemente e tornò indietro nella
cucina, fragrante ora del dolce aroma delle tortine di mela.
Germania...
due giorni dopo... notte fonda
Marciano freneticamente fece cenno a Cicero, in piedi all’entrata della
tenda del suo padrone con l’aria inebetita e la spada di Massimo tra le mani.
- Cicero! Cicero! - sibilò e agitò la mano. Che stava succedendo a quell’uomo?
Marciano strisciò dalle ombre del pretorio fino a che fu abbastanza vicino a
Cicero da toccarlo. - Cicero! - sussurrò di nuovo.
Il servitore di Massimo saltò indietro come se fosse stato colpito, gli occhi
spalancati. Ma, invece di riconoscere il chirurgo, fissava la spada come per
chiedersi come fosse arrivata lì. All’improvviso sembrò divenire conscio della
presenza di Marciano, e guardò verso di lui, con uno sguardo quasi selvaggio,
sebbene vitreo. Quando parlò, la sua voce tremava.
- Marciano, che sta succedendo? Che cosa è accaduto?
- Qualcosa di terribile, Cicero… davvero terribile. Devo parlare con Massimo
immediatamente.
Cicero scosse appena la testa, gli occhi vuoti.
- Non puoi, - disse, la voce tremula e debole. - E’andato.
Marciano sospinse l’uomo dentro la tenda di
Massimo, poi si guardò rapidamente intorno.
- Che vuol dire andato? Dov’è? E’ imperativo che io gli parli, ora!
La faccia di Cicero semplicemente si accartocciò.
- Lo hanno portato via. - Anche lui guardò intorno nella tenda, come
cercandolo. Poi tornò a guardare il chirurgo. - Marciano, vogliono
giustiziarlo, - soffocò, la gola stretta dall’emozione e dalla pena.
- Cosa! - Marciano afferrò Cicero per le spalle e lo scosse forte. - Chi l’ha
preso? Di che cosa parli, in nome di Dio, giustiziarlo?
- Pretoriani. Sono venuti con Quinto.
- Buon Dio, - Marciano lasciò andare Cicero e serrò i pugni finché le sue
unghie si conficcarono nei palmi per lo sforzo di rimanere calmo. - Sai dove
l’hanno portato?
Cicero scosse la testa.
- Quinto ha ordinato loro di cavalcare fino all’alba e poi di giustiziarlo. -
Fissò di nuovo la spada. - Ho cercato di dargli la sua spada, ma lui non ha
voluto prenderla o lasciare che lo difendessi. Non capisco. - Il suo tono si
era innalzato quasi ad un pianto.
Marciano lo prese di nuovo per le spalle e lo scosse gentilmente per cercare di
farlo calmare.
- Cicero, - disse. - L’ultima cosa che avrebbe voluto sulla sua anima, se
pensava che stesse per morire, era il rimorso di esser causa della tua morte.
Ecco perché non ha voluto farti sguainare la spada contro di loro.
Cicero annuì, più calmo ora, ma cominciò a piangere apertamente.
- Dopo avergli legato le mani, lo hanno tramortito e trascinato via. - Abbassò
la testa e chiuse gli occhi, le mani che tremavano così forte che la spada gli
scivolò dalla presa e colpì il terreno di punta, dove rimase infissa, vibrando
come se impugnata da una mano invisibile. Il comportamento snervante della
spada riscosse i due uomini alla terribile realtà della situazione. - Marciano,
cosa sta succedendo? Ho udito Massimo dire che l’imperatore è stato
assassinato…
- E’ stato assassinato, sì. Strangolato. Io sono stato convocato per firmare il
certificato di morte, ma sono stato obbligato a scrivere ‘cause naturali’ come
motivo della morte. Ero proprio fuori della tenda dell’imperatore quando
Massimo fu convocato… era ancora in
abiti da notte… e quando è uscito era così sconvolto che non ha nemmeno notato
la mia presenza. Avevi ragione sui pretoriani. Quinto e tre di loro lo hanno
seguito appena pochi istanti dopo.
Cicero continuò la storia.
- E’ tornato alla tenda e si è messo l’armatura, poi mi ha detto di convocare i
senatori perché voleva il loro parere.
Marciano scosse il capo con aria d’assenso.
- Aveva evidentemente capito quello che avevo capito io… i lividi blu sul collo
di Marco Aurelio. Che cosa è accaduto dopo?
Cicero chiuse gli occhi e respirò a fondo, cominciando a comprendere pienamente
l’orrore di quella notte. Aprì gli occhi, e
Marciano gli vide muoversi i muscoli della mascella, che si muovevano come se
stesse ricordando i terribili eventi appena accaduti.
- Ha chiesto a Quinto perché fosse armato. Questo è stato quando Quinto ha
ordinato ai pretoriani di prenderlo prigioniero. - Serrò di nuovo gli occhi, e
le lacrime cominciarono a scorrergli lungo le guance. Inghiottì a fatica… non
sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a far uscire le parole per riferire il resto
del terribile racconto. - Ha pregato Quinto di aver cura della sua famiglia. -
Smise di parlare per un momento, la voce rotta, singhiozzi profondi che lo
squarciavano. Respirò a fondo, cercando di nuovo di calmarsi per poter
continuare. - Si è scagliato contro Quinto, ed è stato allora che uno di loro
lo ha colpito con l’impugnatura della spada e lo ha tramortito. - Ricominciò a piangere. Sollevò gli occhi
cerchiati di rosso, l’espressione lugubre e disperata. - Marciano, uccideranno
la sua famiglia! - urlò.
- La sua famiglia? Olivia e Marco? - Marciano cadde in ginocchio e unì le mani
in preghiera.
- Perché? Perché gli stanno facendo questo? - domandò Cicero,
la faccia contorta dall’angoscia e la mano su una spalla di Marciano,
scotendolo in preda alla frustrazione.
Marciano stancamente si alzò in piedi.
- Posso indovinare. Commodo si è già autoproclamato imperatore e Massimo
probabilmente ha rifiutato di giurargli fedeltà, dopo aver capito che Marco
Aurelio è stato assassinato.
- Ma la sua famiglia? - si lamentò Cicero. - Se Massimo ha sfidato Commodo,
capisco perché questi abbia ordinato l’esecuzione di Massimo, ma perché la sua
famiglia? Olivia e Marco sono innocenti. Come può Quinto ordinare l’assassinio
di innocenti?
Marciano sospirò. Vero, Cicero era un uomo adulto, ma conservava ancora una
natura alquanto ingenua e fiduciosa. Cercava il buono nelle persone, e
continuava a pensare che il resto del mondo dovesse operare con logica.
- Commodo sta cercando di riscrivere la storia per mettersi nella luce
migliore. Non vuole che qualcosa ritorni a perseguitarlo. La mia sensazione è
che cercherà di cancellare il fatto che Massimo sia mai esistito. Ecco perché
ha ordinato che anche la sua famiglia sia distrutta. - Si fermò, guardando
intorno nella tenda. - Dobbiamo salvare il più possibile, dobbiamo preservare
la sua memoria. - Guardò di nuovo Cicero, e mise le mani sulle spalle dell’uomo
più giovane. - Un giorno, il mondo intero dovrà sapere che cosa è accaduto qui.
- Marciano, dobbiamo fermare la sua esecuzione. I soldati non si rassegneranno
mai a questo quando diremo loro che cosa è accaduto. Gli correranno dietro...
fermeranno l’esecuzione. Non staranno senza far niente lasciando che il loro
generale muoia!
- Ma non capisci, Cicero? La legione è sotto il controllo di Comodo, adesso. Chiunque
lo sfidi verrà ucciso. Massimo probabilmente è già stato marchiato come
traditore accusato di lesa maestà contro l’impero.
Cicero allargò le mani esasperato.
- Nessuno ci crederà. Chiunque conosca Massimo sa che la sua lealtà e devozione
a Roma è fuori discussione. - Si chinò verso Marciano, abbassando la voce. -
Dobbiamo far sapere alle truppe che cosa sta succedendo. Ci dev’essere qualcosa
che possiamo fare.
Marciano annuì, un barlume di speranza cominciando a crescergli nel cuore.
- Hai ragione. Svelto, va’ a spargere la voce, Cicero. Non possiamo sprecare
altro tempo.
Le sue parole furono troncate quando due pretoriani irruppero nella tenda.
- Medico, - disse uno. - Hai l’ordine di preparare il corpo per il viaggio a
Roma.
Marciano guardò Cicero.
- Adesso! - ordinò la guardia e aspettò mentre Marciano passava, poi lo seguì
fuori. Il secondo pretoriano restava sulla porta, dove incrociò le braccia e
lanciò un’occhiata a Cicero.
Il servitore di Massimo chiamò a raccolta il proprio coraggio. Non poteva
rimanere lì come uno stupido. Si avvicinò alla guardia.
- Ho del lavoro da sbrigare. - Fu fermato da una solida mano sulla spalla.
- Tu non vai da nessuna parte, - disse spingendo indietro Cicero. Il servitore
inciampò e cadde seduto su una sedia a fianco dello scrittoio di Massimo, dove
rimase, prosciugato d’ogni speranza, fissando la spada del generale che restava
eretta e forte nel mezzo del pavimento. Cicero la fissò con aria avvilita
finché ebbe una rivelazione e si alzò, stupito. La risposta del pretoriano fu
una spada sguainata, e un passo dentro la tenda. - Ho detto che non vai da
nessuna parte, - gli abbaiò la guardia. - Fai una sola mossa per andartene... -
diede enfasi alle sue parole con una secca stoccata della spada, simbolica ma molto
significativa... - e sei un uomo morto, lì dove ti trovi. Mi sono spiegato... servo?
Cicero tornò a sedersi e annuì, senza parole. Sedette là, con l’aria
obbediente, ma la sua mente corse per tutto il tempo. La guardia era
indietreggiata nel vano della porta, e sebbene sembrasse che stesse fissando il
pavimento, Cicero la stava guardando costantemente con la coda dell’occhio. Un
migliaio di cose stavano percorrendo la sua mente febbrile, e lui stava
tentando di calmarsi abbastanza da decidere quale fare per prima.
Passò un’ora o giù di lì, lentamente come può essere il trascinarsi del tempo.
I due uomini restavano immobili e muti, la spada tra di loro, finché alla fine
Cicero non poté sopportare oltre l’inattività. Rendendosi conto che poteva
essere una scelta fatale, si alzò in piedi lentamente e deliberatamente. La
guardia immediatamente sciolse le braccia e assunse una posizione più vigile.
Cicero tenne le mani alzate, i palmi in fuori, in atteggiamento conciliante.
Inclinò la testa verso la camera da letto di Massimo.
- Mi negheresti anche di pregare? - chiese, fingendo meglio che poteva di
essere calmo. Il cuore gli martellava così forte che aveva paura che l’altro lo
udisse. Si girò e cominciò a camminare lentamente verso l’altra camera, il soggiorno
di Massimo. La guardia lo seguì in silenzio. Una volta dentro la camera, si
avvicinò all’altare personale di Massimo e aprì le porticine. Non accese le
candele all’interno perché non voleva che la guardia avesse una buona veduta
delle figurine che la teca conteneva. Pregava con tanto fervore che il
pretoriano non comprese che quell’altare apparteneva esclusivamente al
generale, e assunse che anche Cicero lo usava per le sue devozioni.
La guardia parlò.
- Se hai una qualche idea di sgattaiolare dal retro, è bene tu sappia che
questa tenda è circondata da ogni lato da guardie. - Disse arcigno.
Cicero si lasciò cadere sui cuscini dell’inginocchiatoio, posando le mani
giunte sul bordo anteriore dell’altare.
- Non ho intenzione di sgattaiolare da nessuna parte, - disse stancamente,
sperando di far credere alla guardia di essere troppo abbattuto per resistere.
Tuttavia, anche se accettava il fatto che non poteva combattere fisicamente il
pretoriano, era consapevole che la resistenza poteva assumere molte forme. Posò
la fronte sulle mani. Ascoltò attentamente e, dopo qualche istante, udì il
soldato lasciare la porta, e i suoni che si affievolivano mentre tornava
all’entrata principale. Si sedette di nuovo eretto, ascoltando con attenzione,
poi si piegò col pretesto di grattarsi la caviglia, lanciando occhiate
indietro, alla porta, mentre lo faceva. La guardia non era in vista, ed egli si
convinse che la porta principale non poteva essere vista da dove lui stava
inginocchiato. Si voltò verso la teca con un
crescente senso di risoluzione, e qualcosa di simile ad una fredda ira cominciò
a crescergli nel petto. Velocemente, si allungò e agguantò le figurine di
Olivia e Marco dalla loro posizione centrale sul piccolo altare. Le nascose
dentro la sua tunica esterna, proprio sopra la cintura, dove potevano stare al
sicuro finché non avesse potuto avvolgerle in qualcos’altro. In nome di tutto
ciò che aveva di più sacro, giurò agli dei e ai propri antenati che se non
avesse salvato null’altro, non avrebbe permesso a quei bastardi assassini di
profanare quelle figurine, sapendo quanto Massimo le aveva avute care. Anche
lui ne avrebbe fatto tesoro, tenendole in memoria, non solo di Massimo, ma
anche di Olivia, che lui rispettava come una vera signora, e del prezioso figlio
Marco, che non aveva nemmeno avuto l’opportunità di iniziare davvero a vivere
la sua vita. In fretta, riordinò il resto delle statuine, mettendone un’altra
in posizione centrale, così da nascondere il fatto che mancavano le due che
aveva preso lui.
Mentre stava inginocchiato, continuando con il suo sotterfugio, con aria
furtiva ispezionava la stanza, decidendo che cosa voleva tenere per sé, e che
cosa poteva radunare perché Marciano la mettesse in salvo. Ovviamente non potevano prendere tutto…
sarebbe stato impossibile fuggire con le cose più grandi, quindi avrebbero
dovuto scegliere con cura. Alla fine, avendo parzialmente formulato un piano,
tornò nella stanza principale. Riassunse la sua posa iniziale dietro lo scrittoio e sedette in silenzio, sembrando
desolato e impotente.
Il resto della notte passò con tormentosa inattività, trascinandosi verso l’alba. Già l’attesa era abbastanza per
fiaccare quasi, ma non del tutto, il coraggio di Cicero. Ogni volta che il
dubbio minacciava di sopraffarlo, mentalmente scuoteva se stesso, ripetendo più
e più volte nella propria mente tutto quello che Massimo aveva significato per
lui e aveva fatto per lui, e la sua determinazione era rinnovata. Alla fine, la
prima luce del mattino toccò i teli della tenda ed un aumento di attività si
udì per tutto l’accampamento. Un lento sogghigno incrinò la faccia della
guardia mentre tirava indietro il risvolto della tenda e lanciava un’occhiata
al cielo luminoso. Con un ultimo sguardo di totale trionfo sbeffeggiò Cicero,
derise la spada, e se ne andò.
Cicero rimase semplicemente nella sedia, fissando l’arma di cui si era curato
tanto diligentemente, e lacrime di dolore insopportabile infine presero a
scorrergli lungo le guance. Dopo alcuni istanti, dopo aver sfogato il suo
dolore, si rese conto che doveva agire e doveva farlo adesso, prima del ritorno
del pretoriano. Dopo esser rimasto in ascolto per un momento, per essere certo
che nessuno si trovasse in prossimità della porta, si alzò e si diresse di
nuovo nella stanza interna di Massimo. In fretta, cominciò a frugare ogni cosa,
cose che prima non si sarebbe mai sognato di rovistare. Dopo un po’, trovò
parecchie cose che stava cercando. In fretta, prese un piccolo pugnale e lo
nascose in alto nel suo stivale sinistro. Scoprì anche una fibula, una
fibbia da mantello che Massimo indossava spesso con abiti civili. Era piuttosto
larga, rotonda, e sbalzata nel bronzo. Al centro c’era una magnifica aquila con
ali spiegate. Era circondata da un serto di lauro, che si diramava da un
piccolo scudo ovale che in cima riportava le lettere “SPQR”. In fondo, stretto
negli artigli dell’aquila c’era un vessillo con l’iscrizione “Massimo Decimo Meridio”. Doveva essere, Cicero
pensava, un dono degli ufficiali inferiori della Felix III, e anche se Massimo
l’aveva trovata vagamente pretenziosa, era rimasto commosso dall’affetto che si
leggeva dietro quel presente, e l’aveva usata molto.
Andando ad un altro armadietto, aprì un
piccolo scrigno in esso contenuto. Si sentì stranamente colpevole nell’aprirlo,
ma voleva trovare una cosa che sapeva essere molto preziosa. Nella cassettina
c’erano diversi pacchetti di lettere… messaggi gelosamente custoditi della sua cara Olivia. Massimo li teneva tutti, e
sebbene Cicero non avesse alcuna intenzione di leggerli, stava cercando una
cosa in particolare. Alla fine la trovò. Era una lettera di Olivia, simile a
tutte le altre sotto certi aspetti, ma contraddistinta da un disegno del
generale. Olivia era un’artista meravigliosa, e le sue lettere erano state
arricchite in modo mirabile da disegni di innumerevoli cose importanti nella
sua vita... dalle immagini di Marco, che documentavano la sua crescita, ad
altre scene della loro casa e fattoria, e non meno importanti, ritratti del suo
adorato Massimo... ritratti come questo qui, che lo mostrava in tutta la sua
regale gloria, in piedi, ritto ed orgoglioso, con la corazza decorata e le
pellicce di lupo posate elegantemente sulle sue poderose spalle. Ripiegò la
lettera, prese quella e la fibula e le avvolse in un pezzo di stoffa.
Affrettandosi verso la propria camera da letto, sollevò un angolo del tappeto
intrecciato, e usando uno dei suoi attrezzi per lavorare la pelle, scavò un
piccolo buco nella terra al di sotto. Sistemando nella buca gli oggetti
avvolti, li ricoprì, attento a disperdere l’eccesso di terra nel terreno
circostante, così da non lasciare alcun cumulo rivelatore sotto il tappeto.
Quando fosse giunto il momento, dopo che i pretoriani avessero perquisito la
tenda, come sapeva che avrebbero fatto, egli li avrebbe recuperati.
Tornò quindi alla stanza principale, e affondò ancora una volta nella sedia che
aveva precedentemente occupato. Svuotato,
sedette là riflettendo sulla disastrosa situazione in cui si trovavano. Era
lacerato tra l’abbandonarsi alla completa disperazione e il cercare di
conservare la speranza dove sembrava non esservene alcuna. Dopo un po’ di
tempo, la sua mente s’intorpidì, ed egli crollò nella sedia in stato di quasi
incoscienza. Era ancora seduto là, ore dopo, quando Marciano ritornò nella tenda,
il comportamento calmo, la voce regolare. Si
mise in allarme quando Marciano gli parlò.
- Si sta spargendo la voce nell’accampamento. I soldati non riescono a credere
a quel che è accaduto mentre dormivano. Commodo
se n’è già andato e Quinto se n’è andato con lui. - Marciano andò alla spada e
la strappò dal terreno. - Intelligente da parte di Quinto. I soldati
l’avrebbero ucciso. - Marciano tenne la spada in alto e percorse con lo sguardo
la sua lucente lunghezza. - I pretoriani sono ancora qui e stanno trattenendo
gli ufficiali nella tenda dell’imperatore affinché non possano organizzare una
ribellione. Parecchi soldati sono già andati oltre le mura, comunque. Non
potevano prendere i cavalli, perciò sono andati a piedi, per cercare di trovare
il corpo di Massimo. Dobbiamo rendergli onore come merita. - Il medico si
sedette a fianco di Cicero e sentì premere contro la pelle il rotolo di
pergamena che aveva nascosto sotto la tunica. - E’ molto più complicato di
quanto potessimo sospettare, Cicero. Marco Aurelio progettava un impero molto
diverso da quello che sta per diventare. - Scosse la testa tristemente. -
Massimo è... era... l’uomo migliore che io abbia mai conosciuto. Anche
l’imperatore assassinato evidentemente la pensava così. Massimo merita che il
suo ricordo sia preservato. Come ho detto prima, Cicero, Commodo e i pretoriani
intendono cancellare ogni segno della sua esistenza, tutto ciò che sia connesso
a lui in qualsiasi modo... la sua famiglia... - Marciano guardò la spada nelle
sue mani. - …i suoi averi. Vogliono cancellare completamente il suo ricordo.
- Non è morto. - La frase fu brusca e sconvolgente nella sua essenziale brevità.
Marciano guardò Cicero con sbalordita sorpresa, certo che l’altro avesse
di colpo perso completamente il senno. Lo shock doveva averlo definitivamente
stroncato.
- Che cosa hai detto? - gli chiese.
Cicero guardò il medico. Strano, ma l’espressione nei suoi occhi non sembrava
quella di un pazzo.
- Io lo conosco, Marciano, - rispose Cicero. - Conosco la sua determinazione.
Conosco le sue energie da guerriero, e conosco
l’amore feroce che nutre per la sua famiglia. Potrei giurartelo, non è andato
con quelle guardie la notte scorsa, sdraiandosi dignitosamente per farsi
ammazzare. Se pensava che ci fosse una sola
possibilità, anche minima, di poter fuggire e cercare di andare in soccorso
della sua famiglia, avrebbe cercato di sfruttarla. - Guardò di nuovo dritto
davanti a sé. - E se il peggio è accaduto, - disse, rifiutandosi di considerare la possibilità, - scommetterei la vita che ha
spedito almeno due pretoriani con sé nell’Ade.
Marciano prese Cicero per le spalle, tuttavia lo scosse ancora gentilmente.
Voleva credere che il suo adorato generale e amico era sfuggito al fato
ordinato per lui dal maniacale nuovo imperatore, ma la realtà stava sollevando
la sua sgradita e inesorabile testa, e lui non
voleva che Cicero fosse annientato da un sogno impossibile e irrealistico.
- Cicero, - disse. - Pensa a quello che dici. Devi affrontare i fatti. Quel che
dici è solo un pio desiderio.
Cicero scosse cocciutamente la testa.
- Io lo conosco, Marciano, - insisté. Guardò negli occhi l’uomo più
anziano. - Non eravamo in grado di fermare quello che è accaduto stanotte, e
solo gli dei possono salvare sua moglie e suo figlio, ma noi possiamo
conservare il suo ricordo, o essere preparati al suo ritorno, se gli dei lo
vorranno. Glielo dobbiamo. - Si frugò nella tunica, ed estrasse le statuette
della moglie e del figlio di Massimo. - Sua moglie fece queste per lui, - disse
a Marciano. - Una volta fece anche una statuetta per me, che io custodisco con
cura. Vorrei tenerle. Se gli dei avranno pietà, forse un giorno potrò
restituirle a lui. Se no… - Soffocò, incapace di completare il pensiero.
Marciano mise un braccio attorno alle spalle di Cicero.
- Con ogni mezzo, conservale, Cicero, in ricordo di Massimo. So quanto tu lo
amassi.
Cicero annuì mentre le rimetteva nella sua tunica esterna.
- Ieri a quest’ora stavo preparando la sua colazione… - La sua compostezza si
sbriciolò ed egli singhiozzò, le spalle scosse. Voleva disperatamente
aggrapparsi alla speranza, ma la prostrazione lo
vinse e, suo malgrado, fu sopraffatto dall’orrore e dall’ingiustizia degli
eventi della notte precedente.
Marciano lo osservava, riuscendo a contenere il proprio dolore solo
grazie a tutti quegli anni di assistenza ai moribondi.
- Cicero… Cicero, ascoltami. Aiutami a mettere insieme le sue cose. Non posso
restare nell’esercito senza Massimo. Lui è la sola ragione per la quale son
rimasto tanto a lungo. Prenderò i suoi effetti personali e me ne andrò. Tu puoi
tenere per te le statuine.
Cicero balbettò tra i singhiozzi.
- Sì, io… ho già p-preso quanto possibile. - Inspirò a fondo, singhiozzando, e
si asciugò gli occhi ed il naso su una manica. - Ho cercato di scegliere cose
molto personali, e parecchie hanno su il suo nome o le sue iniziali. Vieni qui.
- Si alzò e fece strada verso l’altra camera. Tirò indietro il tappeto e scavò
nel terreno, poi aprì la sacca e ne mostrò il contenuto a Marciano. In cima
c’erano due grandi pacchetti di lettere… le lettere di Olivia. - Queste
documentano molta della sua vita da quando si sposò. Ci sono anche dei disegni
dentro. - Strizzò gli occhi serrandoli strettamente, ma le lacrime scivolarono
da sotto le palpebre e gli rotolarono lungo le guance. - Come… come farai a
scappare?
- Tra poco si scatenerà l’inferno qui attorno quando il dolore dei
soldati si trasformerà in ira. E quando succederà… e i pretoriani saranno
occupati a controllarli… io sgattaiolerò fuori.
- Dove andrai?
- In una comunità cristiana da qualche parte, - rispose Marciano con amarezza.
- Ne ho avuto abbastanza della giustizia romana.
Cicero annuì stancamente. All’improvviso sollevò la testa di scatto.
- Aspetta! - disse, e si precipitò nella stanza principale. Marciano lo seguì,
portando la sacca. Cicero recuperò il fodero dal pavimento dove lo aveva
abbandonato… era stato solo poche ore prima?… e vi rimise la spada. Si volse
verso Marciano e gliela tese.
- Se gli dei saranno benigni, - intonò, - ne avrà bisogno ancora, un giorno.
- Cicero, hai avuto cura di quella spada per tanti anni… perché non la tieni tu
per lui. So che lui avrebbe voluto che l’avessi tu. Nascondila sottoterra
finché i pretoriani se ne saranno andati.
Cicero annuì, poi alzò la testa verso la porta. Fuori, si poteva già udire
l’inizio di una cacofonia persistente di voci, principio del racconto di quanto
era successo, con il dolore e la rabbia che lo accompagnavano, che cominciava a
diffondersi per tutto l’accampamento. Marciano sapeva di doversi muovere molto
cautamente per evitare di attirare su di sé l’attenzione, ma il tumulto
prometteva soltanto di peggiorare col passare delle ore, per cui non aveva
alcun dubbio che sarebbe riuscito nel suo intento.
Come leggendogli nella mente, Cicero gli toccò la spalla.
- Sii prudente, amico mio, - disse.
Marciano si voltò verso di lui e lo abbracciò.
- Vai con Dio, Cicero, - disse… e scomparve.
Un mese dopo… Roma
Settimio Severo era curvo vicino alla fioca luce di una fumosa lampada ad
olio e avidamente divorava le parole scarabocchiate sul rotolo traslucido di
papiro, assaporandole e arrotandosele sulla lingua quasi fossero un vino
eccellente. Si piegava da una parte all’altra per cogliere la luce migliore,
leggendo il manoscritto per la seconda volta quella notte, il cuore che gli
martellava mentre continuamente si leccava le labbra, l’ingordigia evidente in
ogni aspetto del suo essere. Oh, sì… ecco ciò che aveva sempre sperato. Mise
giù il rotolo e tradusse nella propria mente le criptiche parole della profezia
di Amaltea. Finalmente era finito, il regno di Marco Aurelio, ed era lui,
Settimio Severo, il predestinato alla grandezza, non quel moccioso stupido
imperatore a nome Comodo.
Un sorriso gli storse la bocca mentre con il palmo della mano lisciava il
papiro quasi con reverenza, ignorando le macchie di sangue seccato che una
volta scorreva nelle vene dello sfortunato scriba che aveva annotato le parole
della Sibilla. L’uomo era vissuto solo pochi istanti dopo essere uscito dalla
grotta, unico testimone della profezia, e vittima del pugnale affondato tra le
sue scapole dal pretore che lo aveva assunto. Il cadavere dello sfortunato
scriba era rotolato giù dai ripidi gradini di pietra, alla cui base giacque
straziato e martoriato come un’infranta statua di pietra.
Il poverino aveva seguito fiducioso il pretore romano, che aveva appena
ricevuto una promozione ad un comando legionario in Siria, lungo la costa
d’Italia a sud di Roma, fino a Cuma e al grazioso tempietto greco che segnava
l’entrata della grotta della Sibilla. Insieme avevano offerto sacrifici e
scalato infidi gradini, prima di strisciare nell’angusta entrata dell’oscura
caverna infestata di pipistrelli scavata nella solida roccia. Si erano stretti
l’un l’altro in preda al terrore quando la Sibilla era apparsa alla vista,
illuminata da una luce rossa soprannaturale proveniente da un’ignota apertura
sovrastante. Era orribile… una vecchia rattrappita con
un ghigno sdentato e occhi incandescenti. Terrorizzato, Settimio si rivolse a
lei e ci volle un bel pezzo prima che i due uomini si rendessero conto che il
silenzio di lei era dovuto alla morte. La figura era il corpo mummificato della
precedente Sibilla, Deifoba, che ora divideva
la grotta con colei che le era subentrata, Amaltea, una bella donna dall’aria
androgina seduta su un trono d’avorio inondato da uno strale di pura luce bianca, nascosto dietro Deifoba.
Settimio obbligò la propria lingua a riformulare la domanda.
- Oh Sibilla, sono venuto per interrogarti sul fato di Roma e sul mio. -
Gradualmente il viso di Amaltea cambiò, mentre i poteri profetici la
sopraffacevano ed ella si dibatté e ansimò, la
voce aspra e ruvida. Mentre parlava, un vento selvaggio si scagliò nella
caverna e lo scriba dovette lottare per trattenere con fermezza il papiro
sventolante. Settimio scacciò i pipistrelli che gli piombarono attorno
nell’oscurità mentre cercava di udire le parole della donna… quelle stesse
parole che ora lesse di nuovo:
Per
ottanta lunghi anni e quattro ancora
la Lupa
potente si congiunse a coloro
che eran
fatti d’acciaio ma pure d’oro.
Settimio annuì con aria saputa. Per ottantaquattro anni la dinastia degli Antoninii aveva governato l’impero romano, da Nerva a Marco Aurelio. Durante quel periodo l’impero era prosperato e si era ampliato.
Negli
ultimi venti il suo Consorte portò
spade e
saggezza, guerre e ricchezza.
Come il
sole egli era e come il sole splendeva.
Sì, era stato bravo, Marco Aurelio, era stato bravo. Come consorte, aveva esteso l’impero e lo aveva rafforzato. Ma l’impero non aveva ancora visto nulla…
Ma un
lupacchiotto non generò, un Cane Folle bensì.
Nessun
lupacchiotto le sue orme sfolgoranti a seguir.
Il Cane
solamente addurrà lacrime, sangue e sventura.
Settimio rise… un’alta risata trionfante. Il Cane Folle era Commodo, senza alcun dubbio. Avrebbe arrecato dolore e sventura a qualunque cosa avesse sfiorato. Tutti gli si sarebbero rivoltati contro e poi avrebbero accolto lui, Settimio, a braccia aperte.
Il
Consorte era saggio e vide la verità.
Di
salvare la Lupa chiese al Leone.
Ma fu
tradito il Consorte e così pure il Leone.
Qui, il sorriso di Settimio si smorzò. Marco Aurelio aveva chiesto al Leone di salvare Roma da Commodo? Ma chi era dunque questo Leone e dov’era ora?
Del Cane
Folle e del Leone il sangue
insieme
scorrerà ma non si mescerà
su sabbia
cremisi sotto un sole d’oro.
Per la
Lupa non altri Consorti d’oro.
Il sangue
del Leone con la tenebra sarà pagato
poi l’Aquila
d’Acciaio con la spada La prenderà.
Così, il Leone avrebbe distrutto Commodo, per morire anche lui. Molto opportuno. E Settimio, l’Aquila d’Acciaio, sarebbe sorto al potere dopo un periodo di tenebra. Tenebra poteva significare qualsiasi cosa… guerre, carestie, pestilenze. Chi se ne fregava? Ma gli piaceva essere chiamato l’Aquila d’Acciaio. L’acciaio era molto più forte dell’oro. Avrebbe preferito essere d’acciaio che d’oro, un giorno. Se ne sarebbe stato tranquillo e avrebbe fatto i suoi preparativi in attesa che questo Leone apparisse, facesse il suo dovere per Roma e morisse. Dopo un periodo di tenebra lui, Settimio, l’Aquila d’Acciaio, avrebbe agito. Ridacchiò con gran gioia.
Passi
d’acciaio, uomini d’acciaio, acciaio e potere ma non l’oro.
Non più
splendore o compassione; non più saggezza.
L’Aquila
la Lupa soggiogherà, e i suoi pulcini pure.
Ah… L’impero sarebbe stato tutto suo. Avrebbe governato Roma con forza e potere. Roma ne aveva avuto abbastanza degli scritti di Marco Aurelio e della sua filosofia… la sua saggezza. Era di nuovo pronta per una guida forte… un’Aquila d’Acciaio seguita dai suoi pulcini d’acciaio. Soldati, ovviamente. Molti soldati! Pensò al suo incarico in Siria. Era l’inizio.
Piume
d’acciaio, artigli d’acciaio, occhi d’acciaio, nella sua mano una spada.
Impietoso
con i suoi nemici e impietoso con i suoi amici.
Un cuore
d’acciaio per l’Aquila d’Acciaio, la sua parola non vera o stimata.
Rivali
minacceranno l’Aquila d’Acciaio; aquile inferiori piene di bramosia.
Ma quei
rivali non sono rivali e dai suoi artigli saranno dilaniati.
Invincibile! Settimio ghignò. Sarebbe stato invincibile e avrebbe distrutto chiunque avesse sfidato il suo potere, amico o nemico, qualunque cosa avesse tentato!
Ma
nessuna minaccia è come il Celato e celato dev’essere
perché
d’oro è il suo sangue anche se rosso scorre.
Celato a
tutti, celato a se stesso.
Pur egli
celandosi, il sole splende dov’egli va.
Il ghigno divenne un cipiglio. Chi era questo “celato” che era celato persino a se stesso? Che cosa significava? E che genere di minaccia poteva essere? Che Amaltea stesse declamando assurdità, ora? Questa parte non aveva alcun senso. Eppure, Settimio rabbrividì intimorito alla prospettiva di uno sfidante che non conosceva.
L’Aquila
d’Acciaio a caccia di cuccioli va e li divorerà.
Ma il
cucciolo Celato sta crescendo ed è un Leone, non un Lupo,
perché
d’oro è il suo sangue di Leone che rosso scorre.
Un altro leone, quest’ultimo un cucciolo con sangue d’oro? Marco Aurelio aveva forse avuto un altro figlio? No… dice che è leone, non lupo, perciò non un figlio dell’imperatore di Roma. Era forse il cucciolo del Leone che avrebbe ucciso il Cane Folle? Be’, allora sarebbe stato piuttosto facile eliminare questo Celato. Avrebbe semplicemente dovuto aspettare che il Leone si facesse conoscere e poi avrebbe annientato la sua progenie.
Quasi con reverenza, Settimio riavvolse il papiro e lo legò con un nastro porpora, poi lo nascose dentro un altro rotolo prima di occultarlo profondamente dentro un cassetto in fondo al suo scrittoio. Si stirò, arcuando la schiena, e ascoltò le ossa scrocchiare mentre si allineavano. Al momento, sarebbe partito per la Siria per cogliere il suo primo importante appuntamento con l’esercito. Avrebbe scalato i gradi e presto sarebbe divenuto generale. Dopo di che… niente era impossibile per l’intelligente Settimio Severo.
Un grazie speciale a Lezlie Walser-Coles
per aver scritto gran parte di Germania... due
giorni dopo... notte fonda, e a Hebe Blanco per aver scritto la profezia in Un mese dopo… Roma.
Susan